Le parole sono pietre o fiori

Al Gruppo della Trasgressione ognuno può parlare. Le parole a volte sono pietre, altre fiori, comunque producono un effetto e bisogna tenerne conto. A volte vengono dette parole emblematiche, vengono pronunciati interventi paradigmatici, vengono proposte testimonianze di un’interiorità che si svela e che non vuole essere profanata.

Chi riceve una fragilità di solito la protegge. Proteggere dà una bella sensazione, dà forza, gratifica. Ogni volta che questo accade si crea un legame fra chi rivela se stesso e chi ascolta. Ma tutto ciò non mette al riparo da possibili fraintendimenti; non è detto che tale legame non venga vissuto come un giogo e non è detto che in tutti sia presente la capacità e la voglia di comprendere e accudire ciò che gli altri dicono.

Le parole non hanno sempre la stessa valenza per chi ascolta, molto dipende da chi le pronuncia e dal ruolo che ha. Un insegnante, per esempio, non si può permettere leggerezze; ciò che dice sedimenta nelle coscienze degli allievi e diviene potenzialmente lievito. E’ così anche nel rapporto fra genitori e figli.

Di certo una guida quando parla deve scegliere con cura le parole perché le parole di una guida hanno un peso diverso; in generale le parole hanno un peso maggiore quando chi ascolta è in una condizione di bisogno. Alle volte ci si sente incompresi, poco accuditi, traditi. La condizione di bisogno rende vulnerabili.

Per la guida, quando parla e quando ascolta, l’onestà è necessaria. La guida può sbagliare ma non può essere in malafede, deve essere sincera, pur se non sempre è in grado di trovare risposte alle domande. E comunque ci sono domande che forse sono destinate a rimanere senza risposta.

Letteratura, punizione e vergogna

Ascoltare le testimonianze dei tossicodipendenti mi ha ricordato il romanzo di Stevenson “Lo strano caso del Dr. Jekyll e del Sig. Hyde”
Nel romanzo, un rispettabile dottore della Londra benestante di fine secolo XIX inizia ad assumere una sostanza a titolo sperimentale, per vedere “l’effetto che fa”, come scherzosamente recita una popolare canzone di Jannacci e molto più macabramente la cronaca dei giorni scorsi sul delitto Varani a Roma.

Ma, iniziata per essere studiata scientificamente, l’assunzione della sostanza sfugge di mano al dottor Jekyll, che a un certo punto, anche senza più volerlo, si trasforma nell’essere ripugnante e senza freni morali che la sostanza risveglia in lui. Ciò lo porterà alla morte, ma ancor prima all’abdicazione di sé.

Il romanzo viene scritto in epoca vittoriana, in cui la moralità viene perseguita ad ogni costo fino a diventare un’ossessione, al punto da rivestire tavoli e sedie fino a terra in quanto le gambe degli stessi potevano essere percepite come simboli fallici. La rigidità delle regole cui attenersi genera una pressione tale da suscitare insofferenza e stimolare il desiderio di trasgredire e di vivere più liberamente. Il personaggio simbolo di tale moralità è mister Utterson, il legale, uomo ligio e ordinato per eccellenza, ma non privo di tentazioni cui talvolta indulge.

Le due anime che albergano nel dottore, Jekyll e Hyde, sono entrambe percepite come trasgressive dal perbenismo della società vittoriana. Infatti, anche il dottor Jekyll ha impulsi trasgressivi, pur se il più delle volte tenuti a freno.

Uno degli aspetti salienti, nel romanzo, è che la trasgressione viene messa in atto da uno scienziato, a scopo di studio. E non è un aspetto da poco, perché ben rappresenta il dibattito culturale che la diffusione del Positivismo aveva generato nella seconda metà del XIX secolo. Alcuni intellettuali, attribuendo alla scienza un primato culturale che fino a pochi anni prima era stato esclusivo appannaggio di una cultura religiosa e dogmatica e sui cui paradigmi si erano modellate la società e la morale vigente, si attirano le critiche di coloro che sono rimasti ancorati a una cultura tradizionale e che ritengono che la scienza non debba superare certi limiti, pena una punizione esemplare. Lo scienziato Jekyll, osando una sperimentazione oltre i limiti considerati consentiti, muore.

Su che cosa induce a riflettere il romanzo di Stevenson?

  1. Sul fatto che in ogni uomo ci sono componenti buone e cattive. La legge e la morale hanno il compito di tenerle a freno.
  2. Sul fatto che dare spazio alle componenti cattive può instaurare un meccanismo di progressivo potenziamento delle stesse a scapito delle buone, rompendo in modo irreversibile (?) l’equilibrio.
  3. Sul fatto che la caduta dei freni inibitori ad opera di strane sostanze libera nell’uomo comportamenti ancestrali senza che ci siano motivi o giustificazioni per metterli in atto. E così si assapora la crudeltà di un delitto completamente gratuito. E poi di nuovo. E poi ancora, e ancora.
  4. Sul fatto che i valori o i disvalori della cultura dominante svolgono un ruolo primario nell’indirizzare i comportamenti dell’essere umano, soprattutto se ancora giovane e in formazione.

Che cosa ricavare da queste riflessioni?
Comincerei col dire che le problematiche sollevate da Stevenson mantengono inalterata la loro validità anche ai giorni nostri. Alla luce delle testimonianze dei tossicodipendenti, pare che dare spazio al male effettivamente riduce spazio al bene e porta al potenziamento dell’uno e all’indebolimento dell’altro.

L’altra riflessione importante riguarda i freni di cui la società si serve per favorire un’armoniosa convivenza: la morale e la legge. Entrambe funzionano se, almeno in parte, vengono sollecitate da un’emozione umana di cui ultimamente si parla assai poco: la vergogna.

Che fine ha fatto la vergogna? Quella che dopo il morso al frutto proibito ha spinto Adamo ed Eva a coprirsi, loro che erano sempre stati beatamente nudi? Senza provare vergogna si può smettere un comportamento malvagio? E mi viene da pensare che, forse, il peccato originale sia importante non solo per la pretesa dell’uomo di divenire uguale a Dio appropriandosi della conoscenza, ma per insegnare che alla trasgressione fa seguito la vergogna. Oggigiorno non siamo più nell’Eden (ci siamo mai stati?), di trasgressioni se ne commettono tante ma non si sente parlare di vergogna. Perché non se ne parla? Perché la si cela o perché non la si prova? Credo che se la risposta fosse quest’ultima il genere umano avrebbe un problema.

L’altra direzione presa dalle mie riflessioni riguarda la punizione.
In molte testimonianze si legge che l’essere stati arrestati ha reso possibile un inizio di percorso di salvezza. Allora ciò che manca oggigiorno alla nostra società è la capacità di punire la mancanza commessa, nei tempi e nei modi adeguati.

La punizione è un argomento rovente. Ricordo molto bene che a scuola durante una discussione con gli allievi di una quarta (17 anni circa) a seguito delle lamentele dei docenti del consiglio di classe per un comportamento inappropriato durante la proiezione di un film nell’auditorium comunale, mi sono sentita chiedere: perché non ci punite?

Dunque è l’essere umano in formazione che sente la necessità di essere punito. Dunque è vero che porre delle asticelle da non superare serve, e che se vengono superate è opportuno punire. Se non si punisce, il livello della trasgressione aumenta e diventa incontrollabile, deleterio sia per l’individuo che per la società. Nella nostra società la certezza della pena è una chimera, nel nostro sistema scolastico la punizione non è usata o è usata in modo inappropriato, in famiglia sempre meno spesso accade che i genitori insegnino ai figli a far fronte alle proprie responsabilità e che li puniscano quando i loro comportamenti lo richiedano.

Anni di insegnamento hanno generato domande cui non è facile dare una risposta. Però ho maturato la ferma convinzione che un giovane in formazione ha bisogno, anche se non lo sa, di un punto di riferimento, di una figura con cui scontrarsi per scoprire se stesso, di una guida che lo aiuti a… rendere gli orizzonti meno vaghi, a individuare mete credibili raggiungibili con vie lineari e non contorte, a scegliere ideali che non si rivelino illusioni antiche e non risolte, a ricercare piaceri che non si riducano solo a gioie corte. A volte, quando si è giovani, tutto questo da soli non si riesce a farlo.

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Le due strade del potere

Le due strade del potere, Claudio Palumbo

Sinceramente, la cocaina non mi ha fatto sentire potente o importante nei confronti delle altre persone. Quando assumevo cocaina mi sentivo ben diverso da un uomo potente e, in particolare, mi isolavo rimanendo chiuso in casa perché mi dava fastidio stare in compagnia di altre persone e non volevo che mi vedesse nessuno per i deliri che la cocaina mi procurava. Mi sentivo in difetto e in imbarazzo, pensando di non portare adeguato rispetto ai miei familiari.

Di certo posso dire che la cocaina cambia l’umore anche dopo aver esaurito i suoi effetti. Quando sta per finire lo sballo, ci si sente più calmi e si rientra in se stessi, ma subentra comunque un’altra personalità che ti porta a essere più aggressivo. Ad esempio, se capita una discussione con qualcuno, la cocaina, ancora in parte in circolo, ti spinge ad arrivare anche alle mani, se non peggio. Insomma, due personalità: ora ti ritrovi solo e in fuga, ora aggressivo e senza freni. Ma non ricordo una sensazione di potere… quando ti credi potente, vi sono solo due possibili strade: quella che ti porta in galera e quella che ti porta al cimitero.

Anch’io vendevo le droghe, attività che portava a conoscere tante persone che mi rispettavano e ritenevo amiche (alcune). Purtroppo non era così. Era solo dovuto al fatto che gli vendevo la droga. Non si trattava di vera amicizia, ma solo falsità e tradimenti personali. In effetti, me ne rendo conto solo ora che mi trovo in galera. Pensavo di avere amici intorno a me, ma mi sono illuso per l’ennesima volta. Accanto a me ho solo la mia famiglia.

La cocaina porta ad avere tanti conflitti con i sentimenti e tanta trascuratezza nei confronti dei propri cari e, prima ancora, nei confronti di se stessi. Non ci si rende conto che la vita che si conduce è diversa dal mondo reale che ci hanno donato la natura e i nostri genitori.

E’ vero, è maledetta la cocaina. Ti porta assolutamente dove vuole lei. Tu vorresti non farlo, ma purtroppo c’è quell’omino dentro di te che noi chiamiamo a modo nostro “la lampadina che si accende”.

Di certo, di tutto ciò non sono fiero, ma non nascondo che quei periodi mi sono comunque serviti come esperienza di vita. Nel momento in cui l’assumevo mi piaceva, senza rendermi conto che faceva a me, e soprattutto ai miei cari, molto male.

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Colmo di solitudine

Colmo di solitudine, Saad Yahya

Non ho esperienza di droga, per mia fortuna sono sempre riuscito a starne lontano e dunque posso parlarne solo in base a discorsi avuti e sentiti con persone che ho conosciuto. Di sicuro ho capito che è un’esperienza molto forte e difficile. Sono molti i motivi per cui le persone cominciano a fare uso di stupefacenti, a volte banali e a volte perché si pensa di riuscire ad allontanare le proprie difficoltà e problemi, ma alla fine qualunque sia stato il motivo, ci si ritrova in un tunnel oscuro e colmo di solitudine.

Ciò che poi si cerca e si desidera è solo l’illusione di vivere al pieno delle proprie forze e lontano dalle proprie paure, senza rendersi conto che ci si sta uccidendo lentamente, rovinando la propria vita e quella delle persone vicine.

Io posso dire di aver vissuto un’esperienza simile con la dipendenza dal gioco, che mi aveva fatto allontanare da tutti. Ci lasciamo trasportare da un mondo irreale, dove la tecnologia ci avvolge con telefoni, computer e cose materiali.

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