Dignità e bellezza

Dignità e bellezza
Simona Michelon

Leggendo gli appunti dell’incontro del 7 aprile, mi vengono in mente due parole: dignità e bellezza. Essere portatore di “dignità” significa curarsi di sé, tanto da non mettersi mai nelle condizioni di non rispettare se stessi e quindi gli altri.

La dignità si respira o non si respira. I genitori sono custodi unici e insostituibili della dignità dei figli. La dignità passa attraverso lo sguardo libero e attento, passa attraverso le regole offerte e condivise, regole che contengono, proteggono e limitano, mi viene quasi da dire regole che amano.

Tutti concordano sul fatto che dire NO all’adolescente che cresce e crea tensioni per misurare i suoi limiti è un dovere dell’educatore genitore e non.

Anche noi insegnanti abbiamo un ruolo, benché minore, nella costruzione della dignità di una persona-studente: un metodo coerente e accogliente è già un buon percorso da battere; all’interno di un binario rassicurante l’alunno si può muovere serenamente e poter misurare le proprie potenzialità e/o fallimenti; oppure per esempio un’autorevole descrizione dei criteri di valutazione di un modulo o di un argomento trattato è un momento in cui si possono passare regole, spiegando il significato che l’insegnante vede all’interno della richiesta e comunicando così cosa ci si aspetta da un alunno, spingendolo a dare il suo meglio e poter godere di una valutazione “dignitosa”.

La peggior cosa che possa accaderci, dico come insegnanti, è che qualche ragazzo dica di noi che non c’è nulla che può farci cambiare idea su di lui, del tipo “non c’è speranza, non cambierà mai parere su di me”. Chi fatica a raggiungere dignità a casa deve poter provare a scuola e noi dobbiamo concedere terreno fertile perché ciò avvenga.

La seconda parola è la motivazione, che dobbiamo dare, offrire a tutti: la bellezza. Chi conosce la bellezza del mondo, che ne so della natura o della musica o di un libro, quella bellezza che rapisce e ci porta lontano ma dentro noi stessi e che ci fa dire “voglio questo” non cadrà facilmente in meccanismi regressivi, benché seduttivi.

A casa, a scuola, ovunque dobbiamo essere portatori di bellezza. A volte basta poco per rapire l’attenzione di un ragazzo e trascinarlo al di qua verso il bello. Chi non conosce la bellezza non riesce a desiderarla, s’imbruttisce, non la vede, si chiude e poi finisce per soffrire di una sofferenza profonda, buia che non lascia agganci alla salvezza. Credo funzioni un po’ così.

Penso sempre a me in classe, quando provo a raccontare un passaggio di economia che mi entusiasma, una questione che a mia volta mi aveva rapita quando ero studentessa. Sono lì e spero che accada anche a loro che ascoltano e pensano a ciò che diciamo. Mi è capitato oggi in classe, in uno di questi momenti di vedere Gabriele un po’ perso nei suoi pensieri. Mi sono fermata e mi è venuto di dirgli “ dove sei?” poi un cenno suo e poi io “stai con noi!”. Dobbiamo sempre provare a lanciare tentativi di condivisione di pathos.

Io credo che la “guida” di cui parlavamo debba far respirare dignità almeno a giorni alterni e vedere la bellezza almeno nei weekend. Penso anche che la fragilità è di tutti, tutti si scontrano con una fragilità prima o poi. Credo che la fragilità non sia gestibile se la persona non riconosce il suo valore a priori, la sua dignità intima, e se gli occhiali appannati dalla bruttezza impediscono di vedere il bello.

Ecco quindi che diventa importante investire in progetti di rieducazione nelle carceri che mostrino ai detenuti la loro autentica dignità che va oltre il “commesso” e la bellezza che si deve recuperare, unica dipendenza ammessa. Ecco che diventa importante ragionarci insieme, contaminarci, per poter capire bene e prevenire.

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Volti e voci

Volti e voci, parole e silenzi per aprire gli occhi
Una giornata al carcere di Bollate con il Gruppo della Trasgressione
Gli studenti del Pietro Verri di Busto Arsizio.
Coordinamento di Patrizia Canavesi

Il 7 aprile le classi 5B, 5S e 5V si sono recate al carcere di Bollate. Noi studenti immaginavamo il carcere come una struttura grigia e spoglia, con detenuti in divisa, invece siamo stati accolti in un ambiente colorato con scritte e dipinti, con detenuti vestiti come noi e così, l’ansia e i pregiudizi si sono stemperati. Nel corso della visita al carcere, abbiamo potuto vedere i luoghi dove alcuni detenuti svolgono attività: la serra, i box con i cavalli, il teatro dove i carcerati fanno un’importante preparazione psicofisica e loro stessi diventano attori e poi la lavorazione del vetro, il laboratorio di musica e di arte da cui escono veri capolavori.

Durante la visita la guida ci ha anche mostrato lo spazio in cui i detenuti passano l’ ”ora d’aria”, un’enorme gabbia di cemento che, per risultare meno opprimente, è stata decorata sui muri col disegno di un grande pentagramma, con delle note vuote, completate da frasi belle e profonde.

Lo stabile non accoglie solo detenuti di sesso maschile, ma una piccola ala della struttura è riservata a un centinaio di donne, che vivono con un carico di tensione maggiore rispetto agli uomini la detenzione.

Finita la visita ci siamo riuniti con il Gruppo della Trasgressione guidato dal Dott. Angelo Aparo, tutti in cerchio, mischiati, studenti, detenuti, docenti e universitari.

E’ giusto che i soldi dello Stato vengano spesi per dei carcerati?”…

Così si è aperto il dibattito e un detenuto ha subito risposto sottolineando che la stessa Costituzione italiana dice che il carcerato deve avere un giusto trattamento, in vista poi di un più “facile” reinserimento sociale. Maurizio, uno dei detenuti, ha letto un suo testo che ha colpito molti di noi; non è l’unico che scrive, perché, in questo gruppo scrivere aiuta a pensare, riflettere, tenere impegnata la testa!

Si è parlato di una caratteristica in cui spesso si riconoscono i detenuti: LA FRAGILITA’. Per compensare questa fragilità, vissuta come limite, vergogna e debolezza, manifestavano prepotenza e arroganza nei confronti di chi era più debole di loro. “Mi comportavo da arrogante per poter vedere la fragilità negli altri. Io mi sentivo nel giusto a essere prepotente, non ho mai avuto la sensazione di sbagliare. Ero convinto di fare la cosa giusta. La consapevolezza non è automatica.. deve essere “stanata” Schiacciare la fragilità dell’altro ti fa sentire forte e onnipotente, anche se, in realtà sei solo pre_potente

Rinchiudere e abbandonare a se stessi i detenuti rischia di incattivirli e predisporli a ulteriore violenza e rabbia nei confronti della società. A Bollate, dove si attivano percorsi e attività di recupero, la recidiva è decisamente più bassa: si parla del 17% contro il 67% degli altri penitenziari italiani. Chi esce dal carcere senza “aver pensato” è ancora più pericoloso.

Molti di noi, avrebbero voluto conoscere il passato e il cambiamento dei detenuti, per sapere cosa è migliorato in loro. In questo modo avremmo anche saputo perché si trovano lì, ma forse molti di noi non si sarebbero voluti fermare a parlare con loro perché non avrebbero accettato di condividere dei momenti con chi ha ucciso, stuprato….

L’esperienza è stata comunque positiva per aiutarci a riflettere: la brutta strada porta solo in un brutto posto e all’interno del carcere si può anche non pentirsi e rimanere convinti che ciò che si è fatto è stata la cosa giusta. Alcuni pensano che tenerci nascosto il motivo della loro condanna sia stata una scelta meschina, altri credono che, al contrario, non sia stato fatto perché forse i detenuti non si sentono ancora pronti a confessarsi e si vergognano ancora, oppure per non far scaturire in noi troppi pregiudizi.

L’esperienza è stata forte: chi pensa ‘voglio diventare volontario del carcere’, chi curiosa nei siti, chi dice mai cadrò nella trappola delle tossicodipendenze e nel ‘Virus delle gioie corte’, chi non ha tutta questa sicurezza.

Insomma in classe c’è fermento, si parla, si discute… Abbiamo bisogno anche di questo per crescere. Intanto qualcuno andrà allo spettacolo “ PSYCHOPATIA SINPATHICA” che verrà messo in scena dagli stessi detenuti giovedì 21 aprile alle 21:00.

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Restauro e recupero

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Progetto: Restauro e Recupero
Proponente: Cooperativa Sociale Trasgressione.net
Indirizzo: Via dei Crollalanza 11 – 20143 Milano
Presidente: Angelo Aparo
Responsabile Progetto: Vittorina Bertuolo
Data inizio progetto: Gennaio 2013

 

OBIETTIVI DELL’INIZIATIVA E CAMPI D’INTERVENTO

Formare, attraverso un breve percorso di studio teorico e, soprattutto, attraverso l’esperienza sul campo, un gruppo di persone eterogeneo, detenuti e non, in grado di operare a vari livelli nell’ambito del restauro. In questo modo le conoscenze e le competenze della squadra di lavoro aumentano e si integrano giorno per giorno, mentre vengono applicate sul campo e mentre si impara a riconoscere il valore di beni abbandonati, a recuperarli dal degrado e a proteggerli.

Data la vastità e complessità del campo in cui si vuole operare, si ritiene opportuno circoscrivere l’ambito d’intervento agli edifici storici e, più precisamente, al recupero degli intonaci, del materiale lapideo e dei metalli.

Lavorare al recupero è, sul piano simbolico e fattuale, l’attività che meglio si sposa con gli obiettivi del Gruppo della Trasgressione: scrostare, recuperare, riattivare risorse e funzioni coincide infatti con i nostri obiettivi primari, a maggior ragione se tali interventi promuovono la collaborazione e il reciproco riconoscimento fra cittadini di diversa provenienza; implementano le competenze del gruppo di lavoro in campo storico e artistico, oltre che sotto il profilo tecnico.

 

FASI PROPEDEUTICHE E OPERATIVE

Le squadre di lavoro vengono formate all’interno degli istituti penitenziari. Con immagini e brevi filmati, sono presentati in carcere i vari tipi di intervento, i materiali, le modalità di applicazione, ecc.

La formazione vera e propria, tuttavia, avviene sia sul piano pratico che teorico soprattutto con l’esperienza in cantiere.

Condizione fondamentale per la riuscita del progetto è l’acquisizione dei cantieri che, inevitabilmente, passa attraverso l’appoggio delle istituzioni e degli alleati del gruppo.

 

PRIMI RISULTATI

A distanza di tre anni dall’avvio, ecco i primi risultati tangibili del laboratorio di restauro. Accanto a questi, pur se più difficili da quantificare, vanno conteggiati benefici in termini di formazione professionale e umana maturati dai detenuti che hanno preso parte all’iniziativa nonché la ricaduta di tale maturazione sui loro figli e sulla società in generale.

 

 


 

 


 

 

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Sulla pena – Bollate 07/04/2016

Incontro sulla pena con gli allievi dell’Istituto Verri di Busto Arsizio Patrizia Canavesi

Studente: E’ giusto che lo stato spenda soldi per recuperare persone che hanno causato disastri e dolore o addirittua morti?

Giampaolo: Innanzitutto è previsto dalla costituzione; in secondo luogo, rinchiudere e abbandonare a se stessi i detenuti rischia di incattivirli e predisporli a ulteriore violenza e rabbia nei confronti della società. A Bollate, dove si attivano percorsi e attività di recupero, la recidiva passa dal 67% al 17%. Chi esce dal carcere senza “aver pensato” è ancora più pericoloso.

Isaia: Sono soldi investiti nella prospettiva di un reinserimento. E’ una spesa che può essere considerata un “investimento sociale”

Alberto: La persona, come individuo, può anche non preoccuparsi di aiutare chi è in difficoltà o chi si è macchiato di un delitto; una società civile no, non può esimersi dal provare a recuperare chi ha rotto il patto sociale. La società civile deve costantemente tentare di realizzare modelli positivi dove sia possibile percorrere strade di costruzione della libertà.

Studente: Esistono modi che possano “garantire” l’emancipazione, l’evoluzione del detenuto? E, se esistono, quali sono e come riconoscerli?

Studente: Quali sono le condizioni che permettono alla persona di orientarsi nella direzione giusta, delle gratificazioni emancipative e non cadere nella trappola della seduzione?

 Alberto: Innanzitutto sono importanti il rapporto con la guida e la fiducia che si pone nella figura di riferimento. Cercare una guida e poi provare a sceglierla. Riconoscere la fragilità e provare a orientarla nella giusta direzione, valorizzando le spinte costruttive e non dare spazio a quelle regressive. Solo in presenza di una guida valida è possibile scovare e “fare i conti” con la propria fragilità.

Antonio: Io ero fragile, molto più dei miei fratelli. Mi vergognavo di scoprirmi debole e imperfetto, quindi diventavo prepotente e arrogante. Mi comportavo da arrogante per poter vedere la fragilità negli altri. Io mi sentivo nel giusto a essere prepotente, non ho mai avuto la sensazione di sbagliare. Ero convinto di fare la cosa giusta. La consapevolezza non è automatica.. deve essere “stanata

Maurizio: solo se hai una guida sicura che ti sostiene, la fragilità viene contenuta.. e sei meno attratto dalla seduzione della via più facile per risolvere la sofferenza… della vita.

Alberto: La fragilità è una risorsa.. permette di cercare alleanze e collaborazioni per una progettualità costruttiva. Riconoscere la propria fragilità, permette di cercare tra le persone che hai accanto alleati per poter costruire qualcosa insieme.. ti permette di non vedere nelle persone “deboli” delle vittime designate, da umiliare e schiacciare per esercitare il tuo falso potere. Schiacciare la fragilità dell’altro ti permette di sentirti forte, potente, anche se in verità sei solo pre_potente e arrogante… nella tua stessa fragilità e insicurezza.

Massimiliano: mi sento brutto, debole, incapace.. inconcludente… per non stare male, mi ribello, reagisco con violenza, abuso, droghe, senso di onnipotenza.. non è possibile stare male con se stessi e non fare niente per reagire. Riconoscere la propria Fragilità è necessario per poter riconoscere anche il bisogno degli altri. Negare la propria Fragilità è negare il bisogno dell’altro.

Diouf: avevamo molti dubbi sul carcere e sui detenuti… adesso ci sembra di capire che siete delle persone normali, che hanno sbagliato ma che ci stanno pensando su.

Isaia: avete visto dei delinquenti, che in realtà sono persone non poi tanto diverse da voi.. persone che hanno bisogni, desideri, emozioni.. il suggerimento è “non avere paura di accettare la vostra fragilità e imparare a viverla come una risorsa e non come un problema”, una spinta per cercare aiuto, alleanze e collaborazioni.

Massimo: se la famiglia ti dà delle basi solide.. riesci a stare in piedi. Io non posso dire di non aver avuto una buona famiglia.. Mi ha sedotto la ricchezza, la bella vita, la vita facile..

Manar: mi sembra di capire che in fondo anche i detenuti sono delle brave persone..

Aparo: I detenuti sono brave persone? Forse. In ogni caso, anche le “brave persone” possono perdersi e danneggiare il prossimo. E’ necessario affinare strumenti per far emergere il lato positivo che c’è in ciascuno di noi, costruire relazioni positive e provare a realizzare progetti comuni. Per rieducare è necessario identificare e dare spazio a percorsi che siano riconoscibili, attendibili, verificabili.

Jin Lai: E’ più facile punire una persona che recuperarla! La consapevolezza di sè e del reato commesso, è una conquista, non si realizza automaticamente con la reclusione! La privazione della libertà non basta, non è sufficiente a innescare il cambiamento e la consapevolezza del proprio errore.

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Purgatorio

Una pena per chi è punito, un dolore per chi la commina
Nuccia Pessina

Giovedì scorso, nel corso dell’incontro fra il Gruppo della Trasgressione e l’Istituto Verri di Busto Arsizio,  ho sentito Jin Lai paragonare il carcere a un luogo di transito che può dare l’opportunità sia all’individuo sia alla società di riflettere sulle proprie imperfezioni e di giungere a una mediazione che possa costituire per entrambi una crescita. E allora non ho potuto fare a meno di pensare che anche nella Commedia dantesca esiste un luogo di transito in cui provare pena e riflettere per arrivare all’emancipazione: il Purgatorio. Il percorso è faticoso: prevede la scalata di una montagna; è lungo: ogni balza conquistata testimonia il superamento di un comportamento fallace, di una convinzione sbagliata, di un’inclinazione discutibile. La meta è il Paradiso: la felicità assoluta.

Le parole di un cinese sono a loro modo espressione dello stesso convincimento della religione cattolica, di cui la Commedia è un potente riflesso. Come è possibile? Forse, se questo accade, è perché in ogni parte del globo, qualsiasi sia la cultura, l’essere umano percepisce la sua esistenza come un transito e vede come meta la felicità.

Tale transito, diversamente dal carcere, è obbligatorio per tutti. Ma questa non è l’unica differenza: chi è in carcere ha una meta macroscopicamente riconoscibile, un riferimento certo, la fine della detenzione; chi vive da libero il riferimento lo deve cercare, individuare, costruire e, prima ancora, deve avvertirne la necessità in sé e per sé. Ma forse questa meta, non è solo una necessità e non solo un dovere, forse si tratta di un privilegio al quale per varie ragioni non tutti giungono.

Da ciò che ho sentito dire, molti detenuti non ci sono riusciti. Poiché le imperfezioni degli esseri viventi e delle relazioni da questi poste in atto sono molteplici e variegate e assumono le forme più diverse e spesso non sono né prevedibili né controllabili, le spinte regressive hanno avuto il sopravvento e si sono generati comportamenti deleteri.

Dunque è mancato qualcosa. O si sono imposte presenze non sopportabili. Quali le mancanze all’origine del percorso deviante? Sicuramente la mancanza di una guida autorevole. Un genitore, un insegnante, un allenatore, un prete, qualcuno che si accorge che esisti e che sei tu, proprio tu, diverso dagli altri; qualcuno che presta attenzione a te, proprio a te; qualcuno che dimostra di conoscerti e che ti dà il consiglio giusto, adatto a te. Altre mancanze poi possono segnare la strada: la mancanza d’amore, la mancanza di senso.

Le mancanze sono anelli che si congiungono e formano una catena che imprigiona la libertà morale dell’individuo, soprattutto se tra di essi manca l’anello della punizione. Non una punizione qualsiasi e a qualunque costo. La punizione giusta, adeguata allo sbaglio, comminata al momento giusto e da una persona amata. Una punizione che sia pena, che porti dentro di sé il concetto del risarcimento e del dolore provato da chi la subisce ma anche da chi la commina.

Solo da una punizione così scaturisce il senso morale, il concetto di giusto e sbagliato, il maggior avvicinamento possibile tra legge e giustizia, insomma l’introiezione della giustificazione della pena a garanzia del rispetto del diritto. Se questo non accade la sofferenza dilaga e nella percezione del soggetto diventa legittimazione ai suoi abusi e quasi viatico per il suo percorso deviante.

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Conversando su autorità e limiti

Roberto Cannavò: La realtà della finitezza è la nostra realtà. C’è chi lo riconosce, e chi invece non lo riconosce e si ritrova con l’ergastolo. Se non mi avessero arrestato, io non avrei mai capito i miei limiti. Fuori dal carcere, non ho mai riconosciuto le mie finitezze.

Gemma Ristori: (riferendosi ai grandi personaggi citati che hanno fatto la storia dell’arte, della letteratura e della scienza) Lavoro e fatica hanno fatto sì che le loro scoperte rimanessero nel tempo e che noi oggi ce ne possiamo servire per il nostro benessere quotidiano, come la lampadina. Altre mire invece, aumentano solo il senso d’eccitazione, che se fine a se stessa, non è utile alle generazioni future, ma solo a se stessi.

Voler superare i limiti non è necessariamente qualcosa di negativo, ma solo se viene accompagnato dal lavoro e dalla dedizione. Il detenuto e lo studente vogliono arrivare lontano, ma lo studente lo fa lavorando duramente, il delinquente fa come Icaro: punta al sole direttamente. Vi è nel delinquente il desiderio di arrivare in fretta, dimenticandosi che l’unico modo per arrivare da qualche parte è studiare.

Roberto Cannavò:  Se avessi avuto un papà non avrei sconfinato i miei limiti, perché lui mi avrebbe indirizzato verso la scelta giusta. L’ignoranza mi ha portato a essere l’opposto della normalità per la gente comune. Ero spregiudicato in questo, superavo tutti i miei limiti. Da ragazzino non avevo nessun recinto e nessun limite. Oggi a pensare a ciò che sono stato, beh ho paura di quel ragazzino.

Massimiliano De Andreis: Da giovane non vedevo una continuità in quello che facevo; quindi arrivavo alla cresta e pensavo: che senso ha tornare indietro? Io ero arbitro della mia vita, le regole le mettevo io e proprio per questo le istituzioni erano escluse dalla mia vita.

Ivano Moccia: Il ruolo dei genitori è molto importante. La mia barca era carica di odio e alla fine ho ridotto a pezzi tutta la barca e sono affondato. I genitori ti consegnano la conoscenza che dovrai dare poi ai tuoi figli.

Mario Buda: Io non avevo nessuno che mi desse una carezza. La prima rapina che ho fatto è stata a 16 anni, avevamo paura. Ma dopo la prima rapina in banca ci abbiamo preso gusto e ho provato il delirio di onnipotenza. Mi sono bruciato la vita, mi sono costruito la mia gabbia. Voi ragazzi mi state aiutando tantissimo a crescere. La mia disperazione è che mio figlio faccia i miei stessi errori, e faccia delle scelte sbagliate.

Massimiliano Rambaldini: per me qualsiasi regola mi fosse imposta era un limite. Anche i segnali stradali. Tutto. E quindi bisognava combatterla.

Massimiliano De Andreis: Io superavo i limiti per raggiungere i miei obbiettivi, ma non ne ho raggiunto nemmeno uno. Mio padre si faceva di cocaina, picchiava mia madre, spacciava.. potevo scegliere se seguire la strada di mio padre o non farlo. Ho scelto di seguire la sua stessa strada perché il mio obiettivo era essere riconosciuto in famiglia; ma non ci sono riuscito. Oggi i limiti mi fanno crescere. L’autorità però deve essere credibile, per me oggi l’autorità credibile è importante.

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L’autorità: le nostre domande

Buccinasco: le domande dei ragazzi sul tema dell’autorità

  • Quali richieste legittime può farmi un’autorità?
  • Quando il limite imposto è un argine necessario?
  • Quando è uno sbarramento alle mie possibilità di crescita?
  • Quando è necessaria una punizione?
  • Cosa distingue una punizione da una vendetta?
  • Quanto è importante essere imitabile per una guida che vuole essere credibile?
  • Quanto una guida deve essere vicina a colui che vuole guidare?
  • Quale importanza positiva e negativa può avere il complesso di inferiorità rispetto alla guida?
  • Che ruolo ha l’affettività nel rapporto con una guida?
  • Chi limita l’autorità?
  • Qual è il rapporto tra l’autorità e il limite?
  • La trasgressione è un atto di accusa contro l’autorità?
  • Come faccio a diventare adulto e guida credibile se non ho avuto una guida che mi mostrasse il percorso da seguire?
  • La mancanza o incapacità dell’autorità può giustificare la trasgressione?
  • Qual è il confine tra la responsabilità del singolo e di ciò che gli sta intorno?

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Trasgressioni e conquiste

Trasgressioni e conquiste, Buccinasco 02-02-2016, Gemma Ristori

L’incontro di martedì 1° Marzo nella scuola media di Buccinasco ha un antefatto. Ore 8:40, casa del dott. Aparo, tre ragazze ancora assonnate, subito dopo il buongiorno, vengono colte di sorpresa da domande del tipo:
Prof: quando è stata scoperta l’America?
Noi: 1492
Prof: e.. quando è stato scritto l’infinito?
Noi: Ah, boh!
Prof: Beh, cercatelo!

E così, passando dal salotto di casa Aparo al viaggio in macchina, cominciamo a prendere appunti su alcuni passi cruciali della storia dell’uomo. Arrivati a scuola, ci viene svelato il piano: lo scopo della giornata è effettuare una ricerca sul rapporto con il limite di studenti e detenuti. Come per ogni ricerca che si rispetti vengono dichiarate le fasi e le modalità che la caratterizzano:

  1. Esposizione di alcuni passaggi significativi nella storia dell’uomo;
  2. Collaborazione attiva fra studenti della scuola che ci ospita e detenuti e studenti universitari del gruppo;
  3. Esplorazione dei sentimenti verso la trasgressione, la conquista, lo sconfinamento nella mitologia e nella letteratura;
  4. Confronto fra le emozioni più comuni fra studenti e detenuti;
  5. Eventuali correlazioni tra atteggiamenti verso il limite e stile del rapporto con l’autorità.

Inizia l’incontro e il dott. Aparo fa accomodare sul palco studenti e detenuti del Gruppo della Trasgressione insieme ad alcuni studenti della scuola. Siamo nella prima fase e la domanda che apre le danze è: “Cosa vi viene in mente in relazione al superamento del limite nella storia o nella mitologia?”, poi richiama, a mo’ di esempio, la mela di Adamo ed Eva e chiede cosa suggerisce.

A questa sollecitazione risponde Matteo, un metro e 50 di curiosità e dolcezza condita da un pizzico di timidezza; il suo intervento è integrato da quello di Roberto Cannavò, che sottolinea come Adamo ed Eva caddero in tentazione perché ottenebrati dal desiderio di diventare come Dio.

Il dott. Aparo si rivolge nuovamente ai piccoli e ai meno piccoli presenti sul palco, chiedendo altri esempi di superamento del limite. E’ ancora Matteo a intervenire citando il viaggio di Ulisse oltre le colonne di Ercole, limite estremo del mondo conosciuto. Il prof., dopo aver sottolineato la pertinenza dell’esempio, ricorda che anche Dante Alighieri nella Divina Commedia cita il viaggio di Ulisse in relazione al desiderio insaziabile di conoscenza, ma condanna l’eroe in relazione all’arroganza con cui amministra tale desiderio.

E così, la ricerca condotta da studenti e Gruppo della Trasgressione assume sempre più le forme di un viaggio spinto dal vento della curiosità, un itinerario che coinvolge mitologia, letteratura, arte, scienza e storia, la cui mappa viene tracciata grazie al contributo di persone con età e vissuti molto distanti tra loro.

Viene citato dal Dott. Aparo il mito di Prometeo, che rubò il fuoco (strumento di conoscenza ed emancipazione) a Zeus per permettere agli uomini di avere la luce; Manuela, un metro e trenta di tenerezza e curiosità, ricorda come tappa importante nel cammino dell’umanità i primi voli in aereo e illustra, su sollecitazione del Prof, il mito di Icaro. Alberto Marcheselli sottolinea come inizialmente Icaro usi le ali di cera per emanciparsi, per fuggire dal labirinto di Dedalo, ma poi, preso dall’ebbrezza del volo, si spinge sempre più vicino al sole (avvicinarsi a Dio), così che le ali si sciolgono e Icaro precipita.

Viene così raggiunta la prima meta del viaggio: ogni volta che l’uomo punta a superare un limite, coesistono in lui due spinte, una miscela fra: da una parte, il desiderio di emancipazione, di crescita, di autonomia; dall’altra, quello di sfidare l’autorità, con la conseguente vertigine data dall’illusione di superare colui che ha posto il limite o addirittura di ucciderlo.

Il tragitto continua… Mohamed cita il nostro mito di Sisifo e il suo disprezzo per le divinità dell’Olimpo; un ragazzino della scuola cita il Simposio di Platone e la divisione dell’uomo in due metà costrette a cercarsi per tentare di recuperare l’antica forza che era stata tolta all’androgino da Zeus per timore che potesse minacciare lo status degli dei; Alessandra cita il ritratto di Dorian Grey e il desiderio dell’eterna gioventù; Gemma parla di Edison e dell’invenzione della lampadina; Alberto parla del delirio del dott. Frankestein di Shelley.

Conclude la carrellata il Dott. Aparo che sottolinea come anche nel progresso scientifico e nello sport ci sia un confine labile tra il desiderio di crescere e migliorarsi e la vertigine di sentirsi in cima al mondo. E cita la voglia di conoscere di Marco Polo e Colombo; il Faust di Goethe che, in nome della conoscenza, stipula un patto col diavolo per riceverla tutta e subito; la tragica spedizione sull’Everest dove, a causa della voglia di esibire e consumare risultati ed emozioni, persero la vita 19 persone; infine ricorda il primo uomo sulla luna, con il senso di trionfo, ma anche con il lavoro e le allenze necessarie per arrivarci.

E siamo alla seconda tappa del nostro viaggio: il desiderio di superare il limite, la spinta verso l’infinito è una caratteristica insita nell’essere umano; ma solo se questa spinta è accompagnata dal progetto, dal lavoro, da alleanze appropriate potrà portare a traguardi costruttivi e duraturi. Edison, Franklin (l’inventore del parafulmine) e molte altre personalità che hanno scolpito la storia, hanno raggiunto traguardi e contribuito all’evoluzione dell’uomo e al nostro benessere odierno; ma cosa permette di raggiungere mete così straordinarie senza farsi vincere dalla vertigine del senso d’onnipotenza?

Il Dott. Aparo suggerisce, a questo proposito, un confronto fra due modi di procedere: uno puntato al miglioramento di sé e/o al perfezionamento dell’oggetto cui ci si dedica; l’altro basato sulla ricerca del potere e/o dell’eccitazione. Nel primo caso, ogni gradino è un’esperienza e un arricchimento; nell’altro, si punta a conquistare trofei, che spesso vengono consumati molto velocemente, senza saziarne la fame.

Questa differenza nel rapportarsi con i limiti non prescinde dall’immagine dell’autorità che ciascuno di noi ha interiorizzato. La relazione emotiva con il limite, infatti, cambia significativamente se il viaggio verso la meta viene effettuato all’insegna del rancore e dell’opposizione o se, invece, viene sostenuto da un’autorità accuditiva.

Come il mito, la letteratura e le storie di molti componenti del gruppo della trasgressione documentano, raggiungere la meta per chi sente dentro di sé che ogni conquista equivale a una battaglia vinta contro un genitore castrante porta con sé la fantasia di distruggere il genitore stesso (e questo induce a rimettere perennemente in scena atti di sopraffazione e di autodistruzione); procedere invece in sintonia con una guida che indichi la strada permette di orientarsi, di crescere e di nutrirsi di quanto si incontra nel cammino e dei propri risultati.

La conclusione del nostro itinerario, partito da Adamo ed Eva e giunto all’allunaggio, viene suggellata dagli interventi del piccolo Matteo e della piccola Manuela che ribadiscono l’importanza della guida per raggiungere mete appaganti.

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