Banksy

Giulia Sceusa
Per il corso di Cittadinanza attiva alla Fondazione Luigi Clerici








Piccole e grandi rivoluzioni nella storia dell’umanità

Gli altri raccontano di sé e io capisco me stesso

L’impatto che ho avuto la prima volta con il carcere credo di averlo già un po’ scritto, ma sarò più dettagliato. La prima emozione è stata di paura, non sapevo cosa mi sarebbe successo, se essere picchiato dagli agenti stessi o dai detenuti per il reato commesso. Durante il tragitto per arrivare al carcere capii subito che era un posto isolato, ai margini della società.

Credo che il carcere sia il posto peggiore dove stare se si vuole stare soli. Appena arrivati, all’interno del carcere notai subito il cancello chiudersi e la realtà divisa in due pezzi: da una parte la felicità, come una foto di una spiaggia paradisiaca; dalla parte, dove ero io, non era una spiaggia ma una struttura cupa, piena di povertà e tristezza.

Entrato, dopo le pratiche di burocrazia, fui controllato, spogliato e dovetti fare persino dei piegamenti come se avessi qualcosa da nascondere, pur se la mia situazione era nota. In pratica, sin dall’inizio ti tolgono dignità e se chiedi spiegazioni la risposta è sempre la stessa, in primis dicono che è la normativa.

Una volta conclusa questa fase, fui spostato nel reparto di osservazione, furono giorni di desolazione con un logoramento interiore. In quei giorni mi frullava in testa un unico chiodo fisso cioè l’unica via di fuga per il mio pentimento; pur perso nella desolazione, escogitai, se così si può definire, un piano per il raggiungimento del mio scopo, il suicidio. Non sapendo neppure cosa fossero gli psicofarmaci, me li feci prescrivere in modo da averli per poi prenderli tutti; aspettai il giorno decisivo.

Quella sera, aspettai che le guardie facessero il giro e cercai di sfuggire agli sguardi del mio compagno di cella, Quando si spensero le luci mi rifugiai in bagno, iniziai a versare lacrime di disperazione e allo stesso tempo anche di liberazione: finalmente sarebbe finito tutto, tutto il dolore che avevo causato. Presi coraggio mandando giù le pillole e feci una corda, ma si spezzò. Subito dopo giunse l’appuntato che si accorse di tutto, anche delle lettere di addio che avevo scritto prima.

Sfortunatamente per me, il destino, la fortuna o qualcuno dall’alto, aveva deciso che non era il mio momento. Dopo quel fatto, qualche giorno dopo l’isolamento, fui trasferito a San Vittore. Ormai non prendevo in considerazione la possibilità di un riscatto positivo, tanto che anche qui, all’inizio, non pensavo ad altro che a tagliarmi le vene con una lametta da barba. Continuai a passare le notti in lacrime ma stranamente non avevo più il coraggio di suicidarmi.

Nel nuovo carcere trovai una serenità, era strano per me concepire di apparire un “detenuto modello” dopo quello che avevo causato, credo che abbia giocato a mio favore il fatto di essere sincero con me stesso e con gli altri.

A questo punto vengo a contatto con volontari, educatori e psicologi che ogni volta che guardavano i miei documenti, la mia storia, intravvedevo nei loro occhi dello sconcerto, mi guardavano come se si chiedessero “ma davvero ha fatto questo” e, anche se non era verbalizzato dentro di me, scavavo una buca ancora più profonda.

Ma la spinta determinante a intraprendere un percorso è nata dalla mia partecipazione a moltissime attività, con l’ascolto di tante persone diverse e con la voglia di riempire il mio bagaglio, di acquisire termini, concetti, ragionamenti e argomenti su cui poi riflettere. Non solo la mia conoscenza si sarebbe ampliata ma anche le mie relazioni ne avrebbero avuto un giovamento.

È stato il confronto con il gruppo “a farmi capire” che per andare davvero fino in fondo non sarei potuto sfuggire dal fare i conti con me stesso. Ancora non ne ero consapevole, ma quello è stato l‘inizio del percorso di cambiamento di me stesso. Ogni volta che nel gruppo si racconta di qualcosa di Sé, prendo più coraggio e capisco qualcosa in più sul mio passato.

Hamadi El Makkaui

Reparto La CHIAMATA

Se si può dentro, allora anche fuori

Ho scelto di intraprendere il tirocinio curricolare di Scienze e Tecniche Psicologiche in carcere, spinta dalla voglia di essere partecipe di un cambiamento del contesto penitenziario, troppo spesso inadatto alla riabilitazione del detenuto, che collocato nella sua cella, non dispone della possibilità di affrontare un percorso realmente efficace, volto alla reintegrazione nella comunità.

Il Gruppo della Trasgressione si occupa proprio di questo. Si tratta di un collettivo fondato nel 1997 dal Dottor Angelo Aparo, psicologo e psicoterapeuta che tuttora coordina gli incontri nelle carceri di Opera, Bollate e San Vittore, le iniziative come concerti ed eventi di sensibilizzazione sulle tematiche trattate e gli interventi nelle scuole.

La riflessione è l’elemento chiave della riabilitazione, che permette al detenuto di mettersi nella condizione di porsi domande, confrontarsi con gli altri componenti e con le diverse prospettive di pensiero. Inoltre, le emozioni sono il linguaggio universale che permette la vicinanza e la comprensione tra persone con vissuti completamente diversi.

Attraverso questi strumenti il detenuto può comprendere se stesso e il proprio malessere, di cui spesso non è conscio. Questo è il punto di partenza per poter capire che è proprio dalla sofferenza, dal vuoto e dall’insicurezza che nasce l’abuso.

Grazie alla vicinanza con individui provenienti da altri contesti, l’abusante, gradualmente riesce ad entrare in empatia con l’altro, ovvero con la potenziale vittima, prendendo consapevolezza della sua umanità e del dolore che i propri abusi le possono causare e che hanno causato ad altri in passato.

Il gruppo è una sorta di microcosmo composto da detenuti, ex detenuti, tirocinanti, familiari di vittime di reato e liberi cittadini. Grazie a questa eterogeneità, il detenuto si può interfacciare con realtà differenti dalla propria e può gradualmente inserirsi in un contesto diverso da quello criminale, acquisendo un ruolo più costruttivo e prolifico nella società.

L’importanza del ruolo è fondamentale in questo percorso, poiché si tratta di un fattore che porta a rielaborare e ampliare la consapevolezza della propria identità.

L’identità deve essere considerata come dotata di più sfaccettature. L’individuo può decidere di lavorare su determinate qualità della propria personalità rispetto ad altre. L’obiettivo è favorire che ogni singola persona e l’intero gruppo esplorino nuovi tratti positivi di ogni singolo componente, così che questi possano essere esercitati in contesti più stimolanti e creativi rispetto ai contesti del passato.

Qui le emozioni tornano ad essere utili poiché, se incanalate nella giusta direzione, possono produrre ottimi risultati. Degli esempi possono essere gli scritti molto toccanti che i detenuti compongono e poi leggono agli incontri.

Durante il tirocinio ho partecipato a diverse iniziative che mi hanno fatto comprendere quanto l’arte sia un importante mezzo di comunicazione in grado di avvicinare le persone, dare voce ai detenuti e trasmettere emozioni.

Nell’Istituto Clerici di Brugherio, studenti e detenuti hanno avuto modo di collaborare e acquisire consapevolezza delle reciproche storie, condividendo emozioni e vissuti, apprendendo gli uni dagli altri. I ragazzi hanno dimostrato interesse e impegno negli incontri, scrivendo e incidendo delle canzoni che sono state presentate all’incontro finale tenutosi nel teatro del Carcere di Opera.

Sempre nel teatro di Opera, si è svolto il cineforum del film “La parola ai giurati“, in collaborazione con Extrema Ratio, un’associazione culturale che si occupa di giustizia riparativa. I detenuti hanno avuto l’occasione di commentare la pellicola e portare un punto di vista alternativo rispetto a quello giuridico.

Presso il Museo Universitario delle Scienze Antropologiche di Milano, ho assistito alla proiezione del documentario realizzato da Lo Strappo e alla discussione di tematiche relative al crimine, da parte di alcune figure tra le quali il dottor Aparo, Antonio Tango e Paolo Setti Carraro (componenti del gruppo).

Al Cimitero Monumentale di Milano ho partecipato all’itinerario ideato e condotto da Antonio Tango. Tramite le opere da lui scelte, ha raccontato la storia della sua vita e le sue emozioni.

Presso la Fabbrica del Vapore di Milano ho partecipato alla proiezione del video di Sandro Baldoni “Eravamo cattivi”, alla proiezione del video del Liceo Artistico di Brera “Il Teorema di Pitagora” e al concerto Trsg.band con le canzoni di Fabrizio De André combinate con le riflessioni dei componenti del Gruppo della Trasgressione.

Infine, ho assistito all’incontro con gli Scout e Francesco Cajani, nel quale i ragazzi sono rimasti molto colpiti dalle parole dei detenuti di Opera che, attraverso i loro scritti sul tema “L’infinito senza stelle”, hanno portato le proprie esperienze di perdizione e di rinascita.

Durante questi mesi, l’esperienza che ho intrapreso negli incontri esterni e interni al carcere è stata arricchente a livello professionale ma anche e soprattutto a livello umano.

L’opportunità di toccare con mano la realtà penitenziaria mi ha permesso di capire da vicino le dinamiche, purtroppo ancora disfunzionali, che impediscono la riabilitazione; allo stesso tempo, ho avuto modo di osservare la metodologia terapeutica che il professor Aparo utilizza e l’enorme potenziale che l’approccio del gruppo potrebbe avere nelle carceri italiane.

Ho conosciuto persone eccezionali che mi hanno accolta e fatta sentire in una grande famiglia. Per la prima volta ho sperimentato l’appartenenza ad un gruppo di persone pronte ad ascoltarsi ed aiutarsi a vicenda, con l’obiettivo comune di migliorare sé stessi e, nel loro piccolo, il mondo.

Non nascondo di aver avuto momenti di sconforto. La voglia di partecipare e di mettermi in gioco si è scontrata con la timidezza, la paura del giudizio ed il timore di non essere all’altezza.

Inoltre, spesso mi sono trovata ad ascoltare le storie dei detenuti senza il giusto distacco emotivo che la professione per cui sto studiando dovrebbe richiedere. A volte la rabbia, il dolore e la tristezza hanno preso il sopravvento al punto da restare turbata per giorni.

Altre volte, i racconti dei detenuti, che gioivano per situazioni ai miei occhi banali, mi hanno fatto apprezzare le piccole cose che davo per scontate e mi hanno fatta gioire a mia volta della loro rinascita, della loro contagiosa voglia di vivere e della sensazione di libertà totale, nonostante la condizione di reclusione.

Non pensavo che potesse realmente esistere un gruppo come questo e devo dire che da quando ne faccio parte il modo in cui vedo il mondo sta cambiando. Se anche in carcere c’è la speranza di poter riparare le cose e la voglia di vivere e costruire, allora ci deve essere anche fuori.

Voglio ringraziare il professor Aparo per gli insegnamenti e per la grande opportunità che mi ha concesso di poter affrontare questa difficile, ma straordinaria esperienza di vita e ringrazio anche tutti i componenti del Gruppo della Trasgressione per la generosità ed il coraggio con cui condividono le loro storie, esperienze e pensieri, che sono costanti stimoli a crescere e migliorare.

 

Giulia Sceusa

Relazioni di tirocinioNote sul metodo