Fidati di me

Fidati di me, dice la mamma al suo bambino quando inizia a fare i primi passi lasciandosi andare verso di lei.

Fidarti di me, dice il papà a suo figlio mentre gli insegna a nuotare facendolo galleggiare in mare.

Fidati di me, dice il datore di lavoro ad un ragazzo alla sua prima esperienza.

Fidati di me, dice il carabiniere sporgendosi da un ponte mentre una donna sta per buttarsi.

Fidati di me, dice il pompiere alla persona rimasta sotto le macerie dopo una scossa di terremoto.

Fidati di me, dice il soccorritore in mezzo al mare tenendo la mano al naufrago che scappa dalla povertà e dall’ingiustizia.

Fidati di me, dice il Capitano della nave Trasgressione, navigheremo verso emozioni dimenticate.

Fidati di me, disse Giacomo Leopardi, ti farò amare l’eremo nascosto da alte mura dove poter naufragare in un dolce infinito.

Fidati di me, disse Gesù a Matteo mentre lui contava i denari delle tasse.

Adesso vi fidereste di me?

Salvatore Luci

Cittadinanza Attiva alla Fondazione ClericiReparto LA CHIAMATA

 

 

Salvatore Luci

Un piccolo albero

Personalmente, credo che tutti abbiamo delle fragilità, dovute ad una situazione, ad un periodo della nostra vita o alle paure che ci portiamo dentro fin da bambini.

Siamo fragili quando qualcosa dentro di noi si rompe e ci troviamo in difficoltà, siamo fragili quando diventiamo cattivi ed aggressivi per una sorta di difesa al limite del buon senso. Crediamo di essere noi a decidere, ma il più delle volte sono le nostre insicurezze e fragilità.

La mia fragilità, dalla quale ho sempre tenuto le distanze, mi ha portato a fare scelte di vita sbagliate, esaltando quello che di più brutto faceva parte del mio animo e della mia natura, tutto per non essere un piccolo albero in balia del vento che rischiava di spezzarsi nella foresta della vita.

Sembra un controsenso, ma la fragilità prende il sopravvento su di noi con una forza immensa nei momenti più duri, la vulnerabilità diventa roccia, devi resistere, e così nascondi la fragilità dentro quello che non vorresti essere o dentro quello che vuoi far credere di essere.

Giuseppe Di Matteo

Cittadinanza Attiva alla Fondazione ClericiReparto LA CHIAMATA

Rispondo dunque sono

Durante uno dei miei primi incontri del Gruppo della Trasgressione a Opera, il professor Aparo disse una frase che mi colpì e che, da un po’ di tempo a questa parte, utilizzo anche io per spiegare di cosa si parla al Gruppo: “A questo tavolo non si parla di carcere.” Ricordo che rimasi abbastanza stupita, ero dentro ad un carcere con una decina di detenuti: di cosa potevamo parlare se non di carcere?

In quel periodo però per parlare dovevo emettere fatture e non volendo pesare eccessivamente sull’associazione, decisi che avrei trovato da sola la risposta alla domanda semplicemente ascoltando. Da due anni a questa parte ho ascoltato storie di genitori e storie di figli, storie di terre del Sud e di povertà, storie di potere, di arroganza e di seduzione, storie di morte e di vittime. Ma anche storie di rivalsa e di cambiamento, storie di responsabilità, di conoscenza e di sensi di colpa, storie d’amore, di vita e di libertà.

Storie di libertà, in un carcere. Com’è possibile?

Sempre più spesso mi capitava di sentire i detenuti dire che il Gruppo permetteva di sentirsi liberi e non capivo: come può una persona sentirsi libera quando è in una condizione di restrizione? Quando deve seguire regole in ogni momento e ogni cosa che gli capita dipende da altri?

La parola libertà io me la sono tatuata sulla pelle a ventidue anni, quando ero in Erasmus a Vilnius. Lì mi sono sentita per la prima volta totalmente libera, lontana da tutto ciò che conoscevo e completamente indipendente. Le prime settimane la libertà per me era poter tornare alle cinque del mattino senza dover rendere conto a nessuno, mangiare patatine sul letto guardando un film senza dover pensare a mettere in ordine le mie cose e poter bere alcolici senza dovermi preoccupare di nasconderlo a mia madre. Con il passare del tempo però la libertà è diventata anche l’essere in grado di fare una lavatrice senza tingere tutto di rosso, l’imparare una nuova lingua da zero ed essere in grado di sostenere gli esami, riuscire ad arrivare a fine mese con un budget tirato e, soprattutto, provare piacere nel chiamare la mia famiglia e condividere con loro la mia crescita. La libertà aveva assunto per me un nuovo significato: ero responsabile di me stessa e quindi, ero libera.

Sono stati gli incontri al Gruppo ad aiutarmi a mettere a fuoco la relazione tra responsabilità e libertà. I diversi confronti permettono infatti una crescita della coscienza che, nella maggior parte dei casi, culmina nella consapevolezza della propria responsabilità, individuale e collettiva. Assumersi la responsabilità delle proprie azioni comporta il raggiungimento di una libertà che non è più la libertà fisica di muoversi e fare quello che più ci piace, diventa libertà di conoscere e accettare noi stessi, con i nostri limiti, pregi, difetti e responsabilità, e imparare a conviverci.

Assumersi le proprie responsabilità non coincide solamente con il confessare i propri reati e il male che è stato fatto: è più un viaggio in profondità, che va a zappare, zolla dopo zolla, sulle convinzioni e sull’identità di una persona. È difficile per me, quindi fatico a immaginare come possa essere per un detenuto scavare nella sua identità e lavorare con il conflitto che si crea inevitabilmente quando si rielabora il proprio passato.

Tuttavia, è proprio il conflitto che spinge le persone a farsi delle domande e permette al detenuto di comprende che, forse, la libertà non l’ha mai conosciuta perché, nella vita, è sempre stato schiavo. Schiavo del potere, dell’arroganza, della facilità e della violenza. Schiavo del brivido e dell’adrenalina che porta una rapina compiuta. Schiavo della Mafia, che gli ha impedito di vedere e riconoscersi nell’altro. Perché la Mafia, alla fine, rende tutti schiavi, che tu sia una vittima, un parente, un soldato o un boss. La consapevolezza della schiavitù instilla il dubbio: ma sono stati i reati che ho commesso a rendermi schiavo oppure è stata l’incapacità di riconoscere l’altro?

La difficoltà è proprio nel riconoscere di essere stati schiavi, perché a ognuno di noi piace pensare di avere il controllo della propria vita e di essere consapevoli delle nostre scelte, di essere indistruttibili. Ma per essere liberi bisogna conoscersi e scoprirsi, portando a galla fragilità che nessuno vuole vedere.

Mi piace pensare al Gruppo come a una squadra di palombari che ci aiuta a portare a galla i nostri pensieri più profondi e, attraverso il confronto, li sostiene fino a che non imparano a galleggiare da soli, permettendoci di riconoscerci in essi.

E adesso capisco perché al tavolo non si parla di carcere: il carcere ti permette di restare immobile e in silenzio per anni, per essere liberi bisogna imparare a crescere e a rispondere di sé.

Percorsi della devianzaReparto LA CHIAMATA

È comodo

È comodo dire che è sempre colpa degli altri.

È comodo credere di avere più diritti degli altri, quindi più potere.

È comodo pensare di meritare più potere, quindi permettersi di prendere i diritti degli altri.

È comodo abusare, anche solo a parole: alzare la voce, non ascoltare, fuggire dal confronto.

È comodo negare all’altro la possibilità di farsi conoscere, di esprimersi, di essere: se l’altro non lo conosco non esiste, o se esiste lo fa come decido io nella mia testa. E nella mia testa vinco sempre io.

È comodo pensare che voi siate tutti degli scarti.

Il Gruppo della Trasgressione si chiama così perché si diverte e si impegna a pensarla diversamente.

Per fortuna o per sfortuna, però, esistono delle regole anche per trasgredire, altrimenti è troppo facile crederti tu l’unico paladino della giustizia, della tua giustizia, creata da te, solo per te.

Oltre te però c’è l’altro, lo stesso altro che ti tende una mano non per beneficenza o per desiderio di una coscienza pulita, ma perché crede in un progetto comune: dare un senso al vostro tempo qui, rendere il carcere utile, un posto che faccia crescere le persone invece della loro rabbia.

Quella mano tesa è pronta ad accogliere una mano volenterosa, una mano attiva, non una mano svogliata, non una mano che si comporta da pugno, non una mano pronta a mollare la presa perché vuole solo prenderti in giro. Decidete voi a chi assomigliare.

Quella mano tesa è una Chiamata all’impegno e alla responsabilità. È una Chiamata al fare la tua parte, che però puoi fare solo se sai qual è la parte dell’altro.

E da che parte sta l’altro, cosa pensa, cosa vuole fare, come vuole collaborare e crescere con te, lo scopri solo se lo lasci parlare, se lo ascolti, se non fuggi per paura di qualcuno che ti vuole aiutare solo se ti impegni anche tu, soprattutto tu.

Esisti solo se l’altro ti riconosce, quindi solo se tu lo riconosci.

Vivi davvero solo se lo rispetti.

Elena Tribulato

Reparto LA CHIAMATA

Gli altri raccontano di sé e io capisco me stesso

L’impatto che ho avuto la prima volta con il carcere credo di averlo già un po’ scritto, ma sarò più dettagliato. La prima emozione è stata di paura, non sapevo cosa mi sarebbe successo, se essere picchiato dagli agenti stessi o dai detenuti per il reato commesso. Durante il tragitto per arrivare al carcere capii subito che era un posto isolato, ai margini della società.

Credo che il carcere sia il posto peggiore dove stare se si vuole stare soli. Appena arrivati, all’interno del carcere notai subito il cancello chiudersi e la realtà divisa in due pezzi: da una parte la felicità, come una foto di una spiaggia paradisiaca; dalla parte, dove ero io, non era una spiaggia ma una struttura cupa, piena di povertà e tristezza.

Entrato, dopo le pratiche di burocrazia, fui controllato, spogliato e dovetti fare persino dei piegamenti come se avessi qualcosa da nascondere, pur se la mia situazione era nota. In pratica, sin dall’inizio ti tolgono dignità e se chiedi spiegazioni la risposta è sempre la stessa, in primis dicono che è la normativa.

Una volta conclusa questa fase, fui spostato nel reparto di osservazione, furono giorni di desolazione con un logoramento interiore. In quei giorni mi frullava in testa un unico chiodo fisso cioè l’unica via di fuga per il mio pentimento; pur perso nella desolazione, escogitai, se così si può definire, un piano per il raggiungimento del mio scopo, il suicidio. Non sapendo neppure cosa fossero gli psicofarmaci, me li feci prescrivere in modo da averli per poi prenderli tutti; aspettai il giorno decisivo.

Quella sera, aspettai che le guardie facessero il giro e cercai di sfuggire agli sguardi del mio compagno di cella, Quando si spensero le luci mi rifugiai in bagno, iniziai a versare lacrime di disperazione e allo stesso tempo anche di liberazione: finalmente sarebbe finito tutto, tutto il dolore che avevo causato. Presi coraggio mandando giù le pillole e feci una corda, ma si spezzò. Subito dopo giunse l’appuntato che si accorse di tutto, anche delle lettere di addio che avevo scritto prima.

Sfortunatamente per me, il destino, la fortuna o qualcuno dall’alto, aveva deciso che non era il mio momento. Dopo quel fatto, qualche giorno dopo l’isolamento, fui trasferito a San Vittore. Ormai non prendevo in considerazione la possibilità di un riscatto positivo, tanto che anche qui, all’inizio, non pensavo ad altro che a tagliarmi le vene con una lametta da barba. Continuai a passare le notti in lacrime ma stranamente non avevo più il coraggio di suicidarmi.

Nel nuovo carcere trovai una serenità, era strano per me concepire di apparire un “detenuto modello” dopo quello che avevo causato, credo che abbia giocato a mio favore il fatto di essere sincero con me stesso e con gli altri.

A questo punto vengo a contatto con volontari, educatori e psicologi che ogni volta che guardavano i miei documenti, la mia storia, intravvedevo nei loro occhi dello sconcerto, mi guardavano come se si chiedessero “ma davvero ha fatto questo” e, anche se non era verbalizzato dentro di me, scavavo una buca ancora più profonda.

Ma la spinta determinante a intraprendere un percorso è nata dalla mia partecipazione a moltissime attività, con l’ascolto di tante persone diverse e con la voglia di riempire il mio bagaglio, di acquisire termini, concetti, ragionamenti e argomenti su cui poi riflettere. Non solo la mia conoscenza si sarebbe ampliata ma anche le mie relazioni ne avrebbero avuto un giovamento.

È stato il confronto con il gruppo “a farmi capire” che per andare davvero fino in fondo non sarei potuto sfuggire dal fare i conti con me stesso. Ancora non ne ero consapevole, ma quello è stato l‘inizio del percorso di cambiamento di me stesso. Ogni volta che nel gruppo si racconta di qualcosa di Sé, prendo più coraggio e capisco qualcosa in più sul mio passato.

Hamadi El Makkaui

Reparto La CHIAMATA

Da costo a risorsa

Come si può cambiare il carcere se noi stessi detenuti non siamo in grado di metterci d’accordo su delle piccolezze! Ho visto tante persone che aspettano che uno sbagli per poter prendere il loro posto di lavoro invece che fargli capire che quello che sta facendo è sbagliato; lo si incita ancora di più a commettere l’errore. In questi anni di detenzione non ho sentito parlare d’altro che di processi, di educatori, di relazioni non chiuse, di chi è dentro per rapine, spaccio, omicidi, mai una volta che si parlasse di come potremmo cambiare in meglio le condizioni carcerarie.

Grazie ad un altro detenuto ho conosciuto il Gruppo della Trasgressione, in questi pochi mesi ho continuato ad arricchire sempre più il mio bagaglio culturale, ascoltando con attenzione il parere di tutti.

Grazie al dottor Aparo ed ai suoi collaboratori ho imparato a guardare con occhi diversi un dipinto del Caravaggio, cercando di capire il messaggio che il pittore ci ha voluto lasciare. Prima di partecipare al gruppo un dipinto per me era o bello o brutto, non andavo ad analizzarne il contenuto con le sue sfumature.

Il Gruppo della Trasgressione è l’inizio del progetto di come possiamo cambiare il carcere. Il Comune o l’istituzione dove risiede l’istituto penitenziario dovrebbe prendere come esempio le grandi aziende che fanno investimenti con guadagni a lungo termine. Si dovrebbe investire di più sui detenuti, stanziando finanziamenti per corsi di formazione professionale, in modo che il detenuto che abbia scontato la pena abbia più possibilità di entrare nel circuito lavorativo normale.

Si dovrebbe poi informare la popolazione che tenere per lungo tempo le persone chiuse in carcere ha un costo economico pesante per lo stato e quindi per la popolazione.

A mio parere, insomma, se, mentre sono detenuto, vengo aiutato ad istruirmi, diventerò un guadagno sia per la società sia per me stesso, non gravando più come un costo ma divenendo una risorsa. Un vecchio proverbio insegna che se prendi una persona che non ha nulla da mangiare e le dai un pesce si sazierà per un solo giorno, se gli insegni a pescare potrà mangiare sempre.

Salvatore Luci

Reparto LA CHIAMATA

 

San Vittore, Reparto La Chiamata

A San Vittore  nasce il ‘Reparto La Chiamata’ per i ragazzi reclusi, mai così tanti

Giovani tra i 18 e i 25 anni hanno presentato nel carcere milanese i frutti del primo mese di un progetto nato nel momento in cui registra “il record assoluto” di presenze dei giovani adulti 

di Manuela D’Alessandro – Da AGI > AGENZIA ITALIA

AGI – Hamadi ha poco più di 20 anni, è alto, indossa una felpa nera e i pantaloni bianchi. E’ qui perché ha ucciso una persona. Ma è qui anche perché è il “capostipite” del reparto ‘La Chiamata’ di San Vittore, un luogo che non c’è ancora fisicamente e non si sa se un giorno sarà davvero ritagliato nei raggi del carcere ma esiste da 10 settimane, ogni giovedì mattina, quando una decina ragazzi tra i 18 e i 25 anni si ritrova per immaginarlo e, di fatto, a costruirlo.

“Il record assoluto di ragazzi detenuti”

A consegnare ad Hamadi il ruolo di ‘primo’ è Juri Aparo, lo psicologo inventore del ‘Gruppo della Trasgressione’, un ‘sarto’ visionario che da decenni prova a cucire strappi: quelli tra chi commette reati e chi li subisce e tra i colpevoli per la giustizia e il mondo fuori, a cominciare dalle scuole. I primi frutti della ‘Chiamata’ ancora acerbi ma promettenti sono stati mostrati sul palco della ‘Rotonda’ di San Vittore, la ‘piazza’ da cui si dipanano i raggi della prigione, dove sono arrivati dalle celle Hamadi e i compagni.  Il direttore Giacinto Siciliano spiega: “Ci sono tantissimi giovani adulti a San Vittore, siamo al record assoluto e molti sono alla loro prima esperienza in carcere. Ci siamo chiesti: come possiamo esserci?”.

“Un fiore al posto del dolore”

Ed ecco Francesco Cajani, magistrato che con un sorriso dice di essersi “un po’ stufato di mandare in carcere le persone” che estrae da una borsa gli ‘strumenti’ del giovedì mattina per raccontare cosa succede a metà di ogni settimana di pene lunghe o brevi da scontare. Ci sono un leggio di cartone, “per valorizzare i lavori”, uno “specchio magico” “per guardarsi dentro scavando sempre più in profondità la propria buca” e una candela “per fare luce” in tutta quell’oscurità.

E i ragazzi uno a uno, affiancati dai volontari di ‘Libera’ e degli scout di Milano e dintorni, hanno portato in dote il loro raccolto poetico. Versi come schegge che tagliano l’aria claustrofobica riempiendola di scintille  mentre li declamano. “Me ne fotto del calmante/ e di una vita barcollante/. Non mi basta un’altalena/mano buona sulla schiena. /Vorrei l’alba chiara e un fiore/al posto del dolore/. “Delinquo e quindi sono, non mi servono/catene/. Ho ammesso i miei reati e il carcere non mi appartiene”.

Aparo ha scelto Hamadi come ‘primo’ perché in lui scorge “la mostruosa polarità tra l’intensità della sua intelligenza e quello che ha fatto”. E lui non si tira indietro: “Attraverso un percorso psicologico ho acquisito la conoscenza di me stesso e preso le mie responsabilità. Nel reparto della ‘Chiamata’ il mio compito sarebbe quello di aiutare i giovani detenuti”.

La moneta dei talenti

Ai ragazzi spetta mettere in fila le richieste per il Reparto al direttore Siciliano, al magistrato Cajani, alla comandante della polizia penitenziaria Michela Morello, alla presidente della Sorveglianza Giovanna Di Rosa, al cappello del carcere minorile ‘Beccaria’, don Burgio, che ha vissuto la rivolta di qualche mese fa. Sono tutti in ascolto nella ‘Rotonda. Hamadi lo sa: “Io vorrei che l’offerta culturale non fosse un optional e che si potesse dialogare per conoscersi e farsi conoscere”.

Di Rosa osserva che “il denominatore comune” nei primi incontri “è la ricerca di una guida e poi anche il bisogno di dare un ‘senso’ al reato’”.

Nella borsa dei giovedì c’è anche una moneta: “la moneta dei talenti”, se la gira tra le mani con cura Cajani perché è la carta che può cambiare il destino. Oggi si sono visti brillare tanto da ricevere il ringraziamento dei familiari di tre vittime della mafia che, il giorno prima della giornata in memoria dei caduti, hanno sentito nelle loro giovani voci la speranza, semplice ma enorme, “di un mondo migliore”.

AGI -Agenzia ItaliaL’evento nella registrazione di Radio Radicale

Reparto La Chiamata  – Inverno e PrimaveraLo StrappoLibera

Gli occhi parlano

È tra gli occhi dei giovani detenuti che oggi mi ritrovo; quegli occhi così tanto acerbi che rendono difficile pensare che possano essere di già testimoni di orrori vissuti e sbagli commessi.

Attraverso quegli sguardi ho scorto fragilità, paure, limiti, dolore, caratteristiche che accomunano tutti gli esseri umani, eppure, se contestualizzati nella stanza a sinistra, in fondo ad un corridoio lungo e scarno, acquisiscono una intensità più consistente.

Penso, sono solo dei ragazzi.. ragazzi che hanno commesso reati per i quali le loro esistenze saranno segnate per sempre, ma sono comunque ragazzi i quali, una volta riconosciuta la responsabilità relativa agli errori compiuti, potranno permettersi di guardare al futuro con occhi diversi, arrivando a concepire la pena inflitta come possibilità di redenzione. Perché se è vero che questi giovani oggi smarriti vivono in preda alla fragilità esistenziale che avvolge totalmente le loro menti, è altrettanto vero che possono imparare a riconoscere dove hanno peccato.

D’altronde, entrano in carcere nel periodo in cui ci si accinge ad erigere quella che successivamente diventerà l’identità adulta. Non sarà evidentemente possibile ripartire dal punto zero, ma è ancora possibile una loro evoluzione attraverso il riconoscimento e l’accettazione di ciò che ha portato all’errore, arrivando anche a fare proprio il naturale timore che il rischio dell’ignoto comporta e scegliendo di ricominciare da se stessi.

Affinché questo processo possa attuarsi penso sia necessario guarire emotivamente, provando e acconsentendo a sapersi perdonare.

Lo smarrimento trapelato dal loro modo di comunicare è stato forte tanto quanto il timore e la voglia di volersi imporre, di voler esistere. La mancanza di ossigeno era viva quanto la ricerca stessa di aria pulita, della quale probabilmente da tempo avvertono l’assenza.

Forse in questo modo, quei sentimenti imprigionati possono finalmente essere liberi di germogliare; il delirio e l’onnipotenza ricercati e poi saggiati con feroce voracità potranno lasciare il posto al perdono ed alla richiesta di aiuto.

Gli intenti di questi giovani detenuti sono privi di dietrologie; quello che prevale è piuttosto l’esplosione dell’impulso che porta alla devianza.

Personalmente, posso dire di aver percepito una differenza sostanziale con i detenuti adulti: per questi ultimi ciò che predomina e risalta è la consapevolezza e l’accettazione della condizione che si sta vivendo; mentre per i giovani, pur pervasi dalla paura di quello che prima o poi per forza di cose sarà, prevale l’intenso desiderio di riprendere tra le mani quello che in questo momento manca loro più di ogni altra cosa, la vita.

Giorgia Olivadese

Reparto LA CHIAMATA

Non lasciarlo mai solo

Io credo che un giovane al suo primo ingresso in carcere, a maggior ragione se ha commesso un reato grave come un omicidio, non debba mai essere lasciato da solo, soprattutto nel primo periodo. Il ragazzo deve sapere che c’è qualcuno disponibile ogni volta che lui ha bisogno di essere ascoltato.

Dico questo per esperienza personale. Io sono entrato in galera la prima volta a 46 anni per omicidio e voi non potete capire come una persona si senta. Volevo farla finita, mi sentivo vuoto, non avevo più emozioni, fissavo sempre il soffitto della cella, su un letto, non avevo sentimenti, sentivo troppo il peso che mi schiacciava per ciò che avevo fatto, mi domandavo come ero potuto arrivare a togliere la vita ad una persona che credevo di amare.

Per questo dico che il detenuto nuovo va seguito, va ascoltato, va preso per mano e va motivato a seguire un percorso individuale per far sì che si senta un po’ meglio con se stesso.

Altra cosa importante è la famiglia, in questa fase il detenuto giovane ha bisogno di sentirsi amato. Questo gli darà forza per affrontare le conseguenze e le difficoltà del suo percorso.

Queste sono le cose primarie per un ragazzo che entra per la prima volta in carcere soprattutto per un grave reato come l’omicidio. Deve trovare per prima cosa un suo equilibrio psicofisico, poi, dopo, viene il lavoro, poi la scuola, poi lo sport, poi i gruppi.

Un altro aspetto importante di questo reparto, per permettere al detenuto di avere idea di cosa lo aspetta, è la presenza in reparto di detenuti con alle spalle una certa esperienza della detenzione; bisogna scegliere detenuti in grado di aiutarlo ad inserirsi in questo reparto e di affiancarlo nei momenti di difficoltà. Devono essere detenuti responsabili, consapevoli del reato commesso, con un cammino alle spalle, ragazzi e uomini che credono nel cambiamento, che possono dare qualcosa in più ai giovani che entrano in carcere.

Io credo che noi detenuti che stiamo facendo tanti anni di carcere abbiamo il diritto ed il dovere di dare anche noi qualcosa in più ai giovani ragazzi che entrano per la prima volta in carcere.

Reparto La Chiamata

Educare a evadere

Educare. Dal latino “ex+ducere”, condurre fuori. In sostanza, educare significa condurre fuori, guidare il vero io di una persona alla realizzazione di sé.

Evadere. Dal latino “ex+vadere”, andare fuori. In sostanza, evadere significa uscire, andarsene, liberarsi di ciò che ti tiene chiuso dentro.

È un’idea che mi fa sorridere quella di unire questi due concetti pensando al carcere. Educare a evadere, però, è l’unica soluzione che vedo a tanti problemi.

Nei corridoi del carcere di San Vittore ho visto diverse facce, per quel poco che ho visto. Tante tristi, arrabbiate e strafottenti; alcune inquietanti; poche con il sorriso. Queste ultime le ho viste durante gli incontri con il gruppo de La Chiamata. Non so cosa abbia portato questi ragazzi in carcere e non so se lo voglio sapere, perché sento che potrei cambiare lo sguardo con cui li guardo. So solo, che se vengono tutti i giovedì mattina hanno qualcosa che li spinge, qualcosa che li fa stare meglio di come stanno quando non sono con noi. Lo dico non per superbia, ma perché quando arrivano hanno sempre il muso, gli occhi incazzati e tutto sommato poca voglia di sentire me, o altri, fare queste riflessioni filosofiche sulla galera. Però, alla fine di tre ore di sproloqui, questi sorridono. Sorridono tra di loro e sorridono a noi. Sorridono persino al magistrato che fa parte del gruppo. E se ci fosse una guardia, sorriderebbero anche a lei, sicuro.

Io non so cosa gli facciamo di bello, perché io spesso torno a casa incupito e con un sacco di pensieri ingombranti. Ma magari il senso del Reparto La Chiamata è proprio questo: creare relazioni. E come in tutte le relazioni favorire lo scambio di sé stessi. Io do a te, tu dai a me. Quello che hai, quello che sei.

Il detenuto mi dà un po’ di fatica, io gli do un po’ di normalità. Lui mi dà il suo senso di colpa, io gli do il mio senso di inadeguatezza nel non sapere come aiutarlo. E così andiamo avanti, tutti e due cercando di costruire un mondo, fuori e dentro dalla galera, migliore e che valga la pena di essere vissuto.

Costruiamo insieme una relazione che ci educa, che ci conduce fuori da noi stessi, per diventare altro, per diventare meglio. Per evadere, finalmente, dalle nostre gabbie personali e diventare persone libere.

Si, liberi. Noi e loro. Perché per quanto noi siamo fuori, siamo spesso in gabbia, presi come siamo dalla routine perdiamo il contatto con il reale e ci inscatoliamo dentro una così detta “vita normale”. E quando entriamo in carcere, parlo per me almeno, mi rendo conto di cosa voglio che nella mia vita sia diverso, che cosa mi renderebbe felice. Che cosa mi farebbe evadere dalla prigione in cui mi trovo io.

La galera, il Reparto La Chiamata e il gruppo mi stanno educando a evadere. Vorrei che questo diventasse un modus operandi non solo mio, non solo nostro, ma di tutta la società.

Evadere dalle galere deve essere il nostro obiettivo. Sicuramente è il mio.

Reparto La Chiamata