Eletti e pidocchi

Manie di protagonismo. Questo termine, declinato in una dimensione non strettamente patologica, va a descrivere e strutturare l’idea del crimine come strettamente connessa con la psiche dell’autore del delitto.

Se in “Delitto e Castigo” viene descritta una realtà come squarciata tra “eletti” e “pidocchi”, ecco che il pidocchio si fa eletto nel compiere un atto, come quello dell’omicidio, che va a sovvertire non solo il diritto positivo, bensì quello naturale. Pur spogliando il diritto alla vita dalla sua lettura religiosa e legata all’ambito canonico (nonostante l’importanza del divino nella lettura del romanzo) – la vita è permeata del senso di intangibilità percepito come tale dalla natura umana, dalla coscienza.

Una coscienza che stando alle parole di Giorgio e Pasquale, appare come soppressa e poi ricostruita. L’idea di una coscienza soppressa e dell’atto delittuoso come impulsivo, per quanto intrinsecamente legato a volontà di elevarsi da un contesto sociale tragico, più che trasformare l’uomo al lato divino, lo avvicina al lato bestiale.

Raskolnikov, dopo la commissione dell’atto, vede il delirio di onnipotenza evolversi, tramutarsi in “altro” vivendo la necessità impellente di raccontare il delitto. Un delitto all’apparenza perfetto.

La scuola di criminologia di Chicago ha indagato da anni e anni sulle relazioni che intercorrono tra il crimine e il contesto sociale del soggetto che va a plasmare, dunque, la coscienza dell’individuo.

Ma se la coscienza è plasmabile, allora, il concetto stesso di diritto naturale dell’uomo, intrinsecamente legato alla sua esistenza, può venir stravolto in maniera decisiva dai primi anni di sviluppo di una persona che sentendosi “pidocchio” trova nel crimine una via d’uscita.

Tuttavia, se si va a guardare una prospettiva di ampio raggio, pur considerando il crimine come legato allo status, una determinata tipologia di delitti appartiene ai ceti più alti.

I crimini dei white collar, per esempio, sono dunque crimini compiuti da eletti? E’ un eletto, il white collar che delinque, che nella commissione di un delitto va per smania di potere a consolidare ancora di più la propria intangibilità? Diventa eletto, colui che la società ha trattato come pidocchio, dopo la commissione del delitto?

Sono convinta che questa divisione sociale, tra pidocchi ed eletti, vada ad essere intrinsecamente criminosa. La decostruzione della concezione dell’essere umano solo come prodotto del proprio ambiente, accompagnata da risorse che fanno percepire come meno iniqua l’esistenza, potrebbe essere punto di partenza per fornire un deterrente all’aprirsi in una strada di delitto.

La soppressione della coscienza e la volontà di elezione, così come il possesso di tale coscienza, sono dunque legate all’essere umano e poi, il contesto sociale e quello psicologico, legato di rimando fanno da quadro in una cornice da mutare.

Tutti desiderano essere visti. Tutti desiderano essere ascoltati. Tutti desiderano qualcosa di più. Qualcosa di meglio. Il delitto è il varcare il confine tra il proprio benessere e il malessere dell’altro.

La volontà superiore di Raskolnikov, che va a giustificare l’omicidio, si può leggere in criminologia come una TECNICA DI NEUTRALIZZAZIONE.
“L’ho fatto per un bene superiore.”
“Lei era un pidocchio, io un eletto.”

Le medesime tecniche di neutralizzazione che vengono associate a Napoleone. Tecniche di neutralizzazione che incidono sulla coscienza e la sopprimono per annientare il senso di colpa (umano e tipico, salvo motivazioni legate a disturbi di natura psichiatrica, per esempio, di natura antisociale).

Ma oltre ad una tecnica di neutralizzazione, è curioso notare come per il protagonista, sia anche il movente. Uno dei moventi.

Nel parlare di persone conosciute, in ogni caso, non ho riscontrato l’uso di tecniche di neutralizzazione bensì consapevolezza e rammarico nella commissione delle proprie azioni. Che sia dunque la consapevolezza ciò che porta alla formazione e all’evoluzione della coscienza?

 

Angelica Falciglia

Delitto e Castigo

Noi, la sorte e la scelta

Credo non ci sia nulla di più lontano della criminalità dal mio mondo, dal mio vissuto e dalla mia infanzia.

Eppure, forse, proprio perché è un mondo così lontano e sconosciuto (ignoto), ho sempre voluto conoscere i meccanismi e il perché di certe scelte di vita.

Ascoltando i detenuti e gli interventi dei compagni, ho potuto riflettere sul fatto che forse la mia sia stata solo fortuna, che quella criminalità per molti è stata la quotidianità, la ‘normalità.’

Allora mi sono domandata se davvero fosse solo fortuna, se chissà chi, un Dio per chi crede, avesse dunque deciso già dalla nascita cosa ci spettasse, in quale ambiente nascere e che da li’ non ci si potesse scostare più di tanto, che i ‘pidocchi’ sarebbero dovuti rimanere tali e la brava gente anche (una sorta di criminalità da generazioni).

Io però non voglio credere che una persona non sia fautrice del proprio destino, voglio pensare che tutti possano scegliere cosa e chi diventare, indipendentemente dal passato e dal vissuto.

Noi siamo le nostre esperienze e soprattutto i nostri traumi, ma questi non possono determinare le nostre sorti. Possiamo sempre scegliere da che parte stare, pur avendo avuto e ricevuto una certa educazione.

Alice Garovo

Delitto e Castigo

Polisemia

Un dipinto per molte interpretazioni

Ognuno di noi osserva e coglie della realtà aspetti differenti. Anche nell’arte un’unica opera riesce a trasmettere emozioni diverse, in quanto viene letta da ognuno secondo le proprie lenti di interpretazione.

Così è accaduto al Gruppo per la Vocazione di San Matteo di Caravaggio. In questo quadro molto realistico l’autore ci regala una scena incredibilmente nitida: partendo da destra, Gesù, seminascosto da San Pietro, indica San Matteo al tavolo; quest’ultimo è accerchiato da altri personaggi: due sulla sinistra, intenti a contare dei soldi, e due a destra, che sembrano osservare interdetti l’arrivo di Gesù e del Santo.

Secondo un’altra interpretazione del quadro, San Matteo potrebbe essere la figura a capotavola intenta a contare i soldi, se così fosse l’uomo con la barba lo starebbe indicando come per chiedere conferma che si tratti di lui.

Nel caso in cui il Santo fosse quel personaggio, Matteo non si sarebbe reso conto dell’entrata di Gesù e di San Pietro. in questo caso sarebbe interessante chiedersi come la scena potrebbe proseguire. Io immagino Matteo che, assorto nei suoi pensieri, magari anche grazie al mormorio dei presenti, si sbalordisce di essere illuminato da una calda luce e, alzando lo sguardo, si trova davanti a delle figure senza tempo che lo indicano. Ecco, mi sembra quasi di percepire lo stupore e la meraviglia nello sguardo di Matteo.

Osservando, invece, la scena nella sua lettura comune, ovvero quella in cui San Matteo è rappresentato dall’uomo seduto al tavolo con la barba lunga, personalmente vedo Matteo stupito riguardo alla visione dei due personaggi, ma non rispetto al fatto che sia lui ad essere chiamato.

Mi appare, infatti, un Matteo sereno, come se stesse aspettando quella Chiamata, come se vedere Gesù e San Pietro che lo indicano fosse già una conferma di questa vocazione, tanto che il dito che lui punta verso sé stesso potrebbe essere visto come un gesto eseguito per riflesso come a dire “sì, sono io colui che stai chiamando.”

Elisa Parravicini

Caravaggio in città

“Non devi trattenere il dolore per trattenere la memoria”

“You don’t have to hold onto the pain to hold onto the memory”
[Janet Jackson, Memory]

 

Il cammino con Marcella e Marisa, passato nel 2016 attraverso l’incontro con il Gruppo della Trasgressione al carcere di Opera, ci porterà il 21 Novembre 2022 a Pavia (ore 18, Collegio Santa Caterina da Siena).

Ci vediamo là! [qui la locandina completa]

Il nuovo inizio

Il dipinto raffigura il momento nel quale Gesù chiama Matteo e lo invita a seguirlo.

Secondo l’interpretazione tradizionale di alcuni storici, Matteo sarebbe l’uomo con la folta barba che indica con l’indice rivolto a sinistra. L’altra ipotesi invece, è che Matteo sia proprio il ragazzo seduto a capotavola, ricurvo nell’intento di contare le monete sul tavolo. Di Matteo infatti si dice che era un esattore delle tasse, legato ad un’attività materiale e molto poco interessato alla spiritualità.

Un elemento fondamentale, sul piano simbolico e della struttura compositiva dell’opera, è la luce che proviene dall’alto che, passando sopra la testa del Cristo, si irradia da destra a sinistra. È una luce ultraterrena, proveniente da una fonte divina, ed è la principale chiave di lettura della direzione della scena: da destra a sinistra.

Personalmente mi sembra si possa dire, per ragioni di ordine formale e di significato, legate alla struttura compositiva dell’opera, che Matteo sia il giovane ricurvo sul tavolo all’estremità sinistra del dipinto.

All’interno della composizione del quadro, il giovane ricurvo si trova all’estremità opposta della fonte di luce che si irradia a partire da destra, sopra la testa del Cristo. La figura del giovane è, sul piano puramente strutturale compositivo, il punto di arrivo di un percorso di lettura che va da destra a sinistra e che, a sua volta, rimanda nuovamente all’estremità opposta, alla fonte di luce originaria.

Queste due estremità sono il contenitore spazio temporale, spirituale e materiale, all’interno del quale si costruisce la narrazione formale e di senso di tutta la composizione con i suoi diversi personaggi. Personaggi che hanno anch’essi la funzione di tramite, come “catena di trasmissione” che procede dal Cristo al giovane Matteo e viceversa, quasi fossero il contraltare terreno della luce divina. La bellezza del dipinto è proprio in questa intima connessione formale e di senso che si intreccia al movimento e al dinamismo dell’insieme, alle sue lucialle sue ombre, tra finito e infinito.

La struttura compositiva dell’opera, così intesa, suggerisce già di per sé una immediata lettura sul piano del significato. Il giovane ricurvo è colui che si trova all’estremità opposta del Cristo, ancora totalmente immerso nella sua dimensione unicamente materiale: è il contraltare della spiritualità e ad essa complementare.

La chiamata del Cristo non può che essere rivolta a colui che vive assorbito in questa condizione. La chiamata non può che essere un radicale stravolgimento dell’esistenza sin lì vissuta, la sua fine totalenon può che essere destabilizzante, spaventosa, comportare un completo abbandono di ciò a cui si è più attaccati e identificati (il denaro, i beni materiali).

Il giovane Matteo sa che cosa lo aspetta e vorrebbe sottrarsi al destino che lo attende; rimane ricurvo sul tavolo, la chiamata lo terrorizza, ne sente il terribile peso, non osa alzare gli occhi; fissa ossessivamente il denaro sul tavolo come a volervi rimanere disperatamente attaccato.

Il nuovo inizio, di cui sente il richiamo da qualche parte nel suo profondo, lo attende. La chiamata risuona al di là della volontà di autoconservazione egoica, risuona nel radicale e intimo desiderio di andare oltre. È stato chiamato e non potrà che rispondere.

Adriano Avanzini

Caravaggio in città

Tra picciotti e discepoli

La riflessione di Beatrice mi ha colpito perché è molto in sintonia con le considerazioni che ho fatto in occasione dell’incontro ad Opera con il Prof. Zuffi.

Ho avuto modo di vedere quest’opera dal vivo a maggio, a Roma, dove mi trovavo insieme al Gruppo in occasione del nostro convegno in Senato: “Una mappa per la pena”.

La cappella di San Luigi dei Francesi si trova proprio di fianco al palazzo del Senato. La Chiesa è poco illuminata poiché l’unica fonte di luce naturale è costituita da una piccola finestra e confesso che, un po’ a causa di questo ed un po’ a causa dei miei problemi alla vista, non sono riuscita a cogliere come avrei voluto le sfumature di questa opera.

Ammiravo il quadro, seguivo i commenti di Paolo e di Francesco e mentre lo guardavo pensavo alle parole del Dottor Aparo. Pensavo al contrasto tra la “chiamata della Mafia a diventare dei picciotti” e la “chiamata di Gesù che invitava San Matteo a diventare uno dei suoi discepoli”. Mi sentivo privilegiata ad essere a Roma in quel momento, appena prima del convegno al quale avrebbero partecipato da lì a poco anche l’ex Ministra della Giustizia, Marta Cartabia e il capo dell’Amministrazione Penitenziaria, Carlo Renoldi.

Nonostante fossi consapevole da un lato che quella opportunità in Senato non ci avrebbe “cambiato la vita” dall’oggi al domani, dall’altro, non potevo non cogliere l’importanza che rivestiva l’essere lì dopo 17 anni di cammino all’interno di questa realtà che è il Gruppo della Trasgressione.

Lo sguardo di San Matteo, il cui dettaglio ho ammirato con più attenzione a Opera, mi colpisce molto perché lo vedo anch’io come felicemente stupito e contento di essere stato notato e di essere stato chiamato proprio da lui, da Gesù, che rappresentava per San Matteo una persona carismatica dalla quale era fortemente attratto.

 

Mi sono immedesimata anch’io in lui, come dice Beatrice. Mi sono ricordata del momento esatto in cui sono arrivata a lezione del corso di diritto di penitenziario, tenuto dalla Professoressa Mariella Tirelli. Mi ero iscritta a quel corso, che era facoltativo, scegliendolo di proposito.

Confesso che all’inizio ero lì seduta a lezione anche con aria di sfida perché mi domandavo se la Professoressa ci avrebbe rappresentato la realtà in modo veritiero o meno; da parte mia, ero a conoscenza di cosa significava essere la persona che si siede dall’altra parte del divisorio dei colloqui familiari in carcere. Erano passati pochi anni da quell’esperienza che mi aveva segnato a vita e che mi aveva lasciato dentro un sacco di domande senza risposta e un grande caos emotivo.

Fu in quell’occasione che conobbi il Dottor Aparo e i primi membri esterni del Gruppo della Trasgressione, che all’epoca erano studenti di Psicologia.

Dopo aver visto il modo in cui la Prof.ssa Tirelli affrontava le sue lezioni, sentivo molta ammirazione per lei e avrei desiderato avere ogni giorno lezione con lei per conoscere sempre di più quella realtà. Iniziai a confrontarmi dapprima in classe e poi ci venne data in seguito anche la possibilità di entrare in carcere e di conoscere gli altri membri del Gruppo, i detenuti.

Finché non detti l’esame, non raccontai né scrissi nulla riguardo la mia personale esperienza. Dopo l’esame, che fu il primo trenta della mia carriera universitaria e dopo il convegno sull’Autorità, chiesi di poter entrare a far parte del Gruppo della Trasgressione e iniziai a partecipare regolarmente anche agli incontri che si tenevano all’epoca nel solo carcere di San Vittore.

Non ci misi molto a tirare fuori. Il mio primo scritto dove mi “svelavo”. Ricordo ancora la strizza tremenda che mi accompagnava il giorno che il Prof mise sul tavolo lo scritto col quale parlavo della detenzione di mio padre. Temevo più che altro il giudizio dei miei compagni di corso e un po’ anche la reazione della Prof.ssa Tirelli, pur se, in cuor mio, sapevo che sarei stata “accolta” e che finalmente, almeno con loro, avrei potuto essere me stessa fino in fondo.

Ciò che avvenne fu proprio questo e tutte le mie paure svanirono all’istante perché mi sentii finalmente a casa, accudita, seppure si trattasse in fondo di un gruppo di sconosciuti.

La sensazione che ho provato quel giorno credo sia la stessa che provò San Matteo quando finalmente Cristo va da lui per chiamarlo a dare il meglio di sé. Anch’io, come San Matteo non aspettavo altro: qualcuno che mi chiamasse a dare il meglio di me, che non mi facesse sentire sbagliata e che mi accompagnasse nel cammino per diventare adulta. E di questo sarò per sempre grata a tanti membri del Gruppo della Trasgressione.

Oggi mi sento anche di condividere uno scritto che ho elaborato dopo il convegno di Roma. Il Ministro della Giustizia italiano è oggi cambiato, ma desidero rivolgere al Prof. Carlo Nordio le parole che ho scritto a maggio perché è bello sentire di poter comunicare con chi ha la facoltà di orientare il prossimo futuro dell’istituzione nella quale lavoriamo.

Alessandra Cesario

Caravaggio in città

Nostalgia dell’Infinito

Guardo ancora il quadro di Caravaggio e fantastico che l’idea del peccato originale possa corrispondere al senso di colpa dell’uomo per avere estromesso se stesso, attraverso la parola, dalla dimensione dell’Infinito.

Con la parola, l’uomo distingue, misura e identifica le cose e se stesso. Senza, saremmo dentro un Tutto senza separazioni e senza alcuno che possa averne nostalgia.

Con la parola l’uomo smette di essere parte inerte del Tutto da cui egli prende origine, ferisce l’Infinito e lo costringe a partorirlo. Da questo, io credo, il peccato originale, ovvero, la nostalgia dell’Infinito dal quale ci siamo staccati e il senso di colpa per averlo fatto.

Nell’immagine dell’Eden mi pare di intravedere il mito di una lotta e, allo stesso tempo, di una collaborazione fra Dio e il seme dell’uomo che non è ancora tale perché non ha e non può ancora avere esperienza del Divenire.

La Ubris, l’arroganza con cui l’uomo si sottrae al volere divino, comporta la sua espulsione dall’Eden (il Mondo che non muta) e gli permette di accedere alla condizione del Divenire, nella quale egli potrà dare nome alle cose e a se stesso, accedere al mondo della misura, alla dimensione del Finito, portandosi dentro la nostalgia del mondo senza misura e senza confini.

In un certo senso, il peccato originale è il segno di un parto impossibile! Da un Infinito, senza soluzione di continuità e senza ferite che gli permettano di sapere di esistere, nasce la dimensione del Finito, l’unica nella quale può aver luogo la Coscienza: una Coscienza di sé, dolorosa e felicemente “intenzionata“, ricordo confuso di un’offesa alla dimensione dell’Infinito e nostalgia di quella dimensione, perduta per sempre a causa della nobile arroganza di tentare la scalata alla coscienza.

Tale nostalgia, a me sembra, è all’origine della brama di potere e dell’arte, di Hitler e di Messner, della superstizione e della scienza, del delirio di avere raggiunto la meta e del lavoro per ampliare i confini della coscienza di noi stessi e della nostra relazione col mondo.

Il Sarto Ardito di questa cucitura paradossale è stato identificato come il portatore del peggiore oltraggio all’ordine costituito e crocifisso per questo.

Per certi versi (tre, in particolare), è  come dire che il nostro seme contiene una indicazione (la missione a effettuare la cucitura impossibile tra Finito e Infinito, tra la dimensione del Divenire e quella dell’Immutabile) e la condanna per chi prova a farlo.

Considerate la vostra semenza
Fatti non foste a viver come bruti
Ma per seguir verture e canoscenza

L’infinito

Caravaggio in città

Materiali per Delitto e castigo

Abbiamo trovato 43 studenti/esse di giurisprudenza per dare forma – dentro le mura del carcere di Opera – ad una singolare ricerca sul delitto e le sue molteplici conseguenze, dialogando insieme a chi ne ha già commessi parecchi e chi ne ha subiti alcuni.

Dopo la nostra lettera di invito, sono giunte moltissime candidature anche grazie ad un articolo di Luigi Ferrarella pubblicato sul Corriere della Sera.

Siamo, allo stesso tempo, ugualmente soddisfatti per avere ricevuto il dono delle copie di Delitto e castigo necessarie al progetto e destinate alle persone detenute: merito della sensibilità di molti tra i quali gli amici di Caterpillar (RAI RADIO2).

 

Mercoledì 2 novembre abbiamo iniziato … ecco i materiali per seguire la nostra ricerca anche fuori dal carcere:

Il resoconto dell’incontro del Gruppo della Trasgressione con il Prof. Fausto Malcovati su Dostoevskij  (5.7.2005)

Le suggestioni visive tratte da una trasposizione televisiva RAI del romanzo di Dostoevskij in 5 puntate

Le versioni di Delitto e Castigo per i piccoli lettori [di Abraham B. Yehoshua e Osamu Tezuka]

INTRO_SCHEDA MATERIALI_delitto e castigo al carcere di Opera_nov22

PRIMO INCONTRO_SCHEDA MATERIALI_delitto e castigo al carcere di Opera_nov22

SECONDO INCONTRO_SCHEDA MATERIALI_delitto e castigo al carcere di Opera_nov22

TERZO INCONTRO_SCHEDA MATERIALI_delitto e castigo al carcere di Opera_nov22

QUARTO INCONTRO_SCHEDA MATERIALI_delitto e castigo al carcere di Opera_nov22

QUINTO INCONTRO_SCHEDA MATERIALI_delitto e castigo al carcere di Opera_nov22

E – per chi volesse comprendere qualcosa di più sulla complessità della nostra ricerca – ecco lo sguardo attento, discreto e rispettoso di Maria Chiara Grandis per il suo reportage televisivo  [tratto da Tg2 Storie, puntata del 27.11.2022]:

Delitto e Castigo (contribuiti dei partecipanti)

Cosa vedo sulla tela

Che cosa vedo sulla tela, dopo aver ascoltato le riflessioni di tutti?

Vedo una luminosità non omogenea: la parte sinistra è illuminata, la parte destra è buia. La luce proviene da almeno due fonti: una collocata in alto che fa scendere la luce obliquamente, un’altra altrettanto non definibile (forse la porta  aperta da cui sono entrati Cristo e Pietro) che illumina il fianco destro dell’uomo con la spada.

Vedo uno spazio fisico anch’esso non chiaramente definito: è un interno o un esterno?

Vedo Cristo e Pietro, nella zona oscura. Sono vicini e l’uno è nascosto dal corpo dell’altro. Solo il volto del Cristo è visibile.

Vedo un gruppo di figure disomogenee per età a sinistra.

Vedo figure vestite secondo l’uso seicentesco a sinistra e figure vestite astoricamente a destra.

Vedo un gruppo di uomini nella parte illuminata. Sono uomini comuni, seduti intorno a un tavolo, ma nulla li coinvolge l’un altro. Ciascuno sembra far parte per se stesso: chi guarda dei fogli, chi guarda distrattamente in giro, chi è assorto, chi è di schiena. La vicinanza è solo fisica. E nessuno si accorge di quel che sta accadendo.

Eppure qualcosa sta accadendo, se il il viso di Matteo è caratterizzato da un’espressione di forte sorpresa. La comunicazione, assente tra gli uomini al tavolo, avviene tra Cristo e Matteo, è un dialogo a distanza mediante gesti.

Che cosa ce lo fa dire? Cristo, raffigurato nella parte destra della tela, in una zona buia, dove i lineamenti si colgono a fatica, dove il suo corpo  è quasi interamente celato dal corpo di Pietro, punta il dito verso Matteo e sembra di  sentire la sua voce “Tu!”. Matteo usa un gesto della mano per schermirsi, per interrogare, e sembra di sentire la sua risposta stupita “Chi? Io? Proprio io?”

Ma la sorpresa è gioiosa o enfatizzata ad esprimere la reticenza a rispondere all’invito? E l’invito è un’amorevole chiamata o un’accusa? E, in ogni caso, chiamata o accusa che sia, perché Cristo è al buio, seminascosto, identificato grazie a un’aureola appena accennata per rendere riconoscibile una fisiognomica molto lontana dalla norma?

Osservando meglio, qualcuno ha supposto che in realtà Matteo sia l’uomo con gli occhiali che non solleva nemmeno la testa dal tavolo, e che in realtà il dito dell’uomo sorpreso forse non si rivolge verso di sé ma indica, appunto, l’uomo alla sua sinistra e par di sentirlo dire “Matteo è lui”

E, ancora, osservando la postura della mano e dell’indice di Cristo sembra di poter escludere che si tratti di un gesto duro, accusatorio, inflessibile ma allora perché qualcuno vi ha letto così chiaramente un’accusa? Ciò riconduce alla funzione dell’arte, la cui ricchezza sta non tanto e non solo nel comunicare il messaggio dell’artista, ma nel suscitare emozioni in chi guarda anche se non  in linea con quanto l’artista intendeva.

Vedo una sola finestra sulla tela, angusta e con i vetri incrostati e polverosi, che non può proiettare nessuna luce. Il fascio di luce che illumina obliquamente le figure proviene da una sorgente luminosa collocata fuori dalla tela. E’ la luce di Dio? E’ la luce metafisica di una trascendenza in cui si crede per dar migliore significato a un’immanenza che lascia non comprese troppe cose?

Nella tela non c’è centro, non c’è armonia; il contatto avviene tra due realtà disomogenee, non è chiaro nei termini in cui viene posto. Molti sono gli interrogativi che chi guarda si pone e le risposte, se e quando ci sono, non sono certe e univoche. Comunque una cosa la sappiamo, anche se non dalla tela: Matteo ha risposto

Carcere di Opera, 26 ottobre 2022

Nuccia Pessina

Caravaggio in città

Caravaggio e il contenitore

Non sono sicura di avere pienamente a fuoco ciò che il dipinto di Caravaggio (Vocazione di San Matteo- la Chiamata), mi s-muove dentro. Avevo già visto sui libri questa opera, ma non l’ho mai veramente guardata.

Il carcere di Opera, contesto nel quale questo dipinto è stato discusso, i detenuti e il gruppo della trasgressione come interlocutori, il Professor Zuffi in qualità di esperto e il Professor Aparo hanno fatto si che questa esperienza fosse perfetta!

Perfetta per imparare, perfetta per conoscersi gli uni e gli altri, ma soprattutto perfetta per guardarsi dentro e chiedersi se durante il cammino di vita di ciascuno di noi una “chiamata” abbia potuto dare valore o disvalore alla nostra esistenza.

Per quanto mi riguarda, a seguito dei sommovimenti interni indotti dal dipinto, la sensazione che ho provato è stata di una complessiva umiltà:

Umiltà nel Cristo, che indica Matteo con il timore nel dito ma con il braccio teso dalla determinazione: “Ti scelgo, ma non ti voglio per forza. Sta a te decidere”.

Umiltà negli occhi e nel modo di indicare se stesso di Matteo: “Io? Perché io?, Chi sono io?”

Una conversazione fatta di sguardi e gestualità, come spesso accade quando non si trovano le parole, o forse non servono.

In qualche modo la nostra vita è costellata di chiamate. Le più importanti e significative parlano una lingua difficile, o che in qualche modo ci sforziamo di non voler capire perché quando lo facciamo ci causano affanno, fatica, a volte sofferenza. Ad esempio nel mettersi in gioco in un rapporto umano, dove lo scambio tra donare e ricevere è a volte fonte di frustrazione.

Non siamo in grado di comprenderci gli uni e gli altri forse perché pecchiamo di mancanza di umiltà, che a mio parere, invece,  è così ben rappresentata da Caravaggio. Questa mancanza fa si che arriviamo a rispondere ad altri tipi di “chiamate”, che si presentano dentro di noi urlando a squarciagola, che ci fanno sobbalzare e ci mandano in confusione, non ci permettono di avere la lucidità di ponderare la scelta, mentre appagano il bisogno di avere un posto nel mondo e di colmare i nostri vuoti.

Mi riferisco, ad esempio, ai richiami del denaro e del potere e, perché no, anche a quello dell’amore.

Caravaggio è stato un rivoluzionario per la sua epoca, ha cercato di sovvertire i canoni del tempo che imponevano agli artisti regole e un solco nel quale muoversi.

Il “contenitore” famigliare nel quale è nato lo ha protetto e lasciato libero di esprimersi e di dare spazio alla sua creatività. Gli ha dato fiducia e gli ha permesso di intraprendere la sua strada di artista. Questa libertà ha fatto a botte con i vincoli che la società del tempo gli imponevano, rendendolo un ribelle e un trasgressore. Così la sua arte nasce pregna di anticonformismo e ribellione, ma libera, nonostante il rispetto (quasi sempre) delle regole imposte.

Mi trovo quindi, mentre scrivo, a stupirmi, perché appena sopra ho detto di averci visto umiltà e mi domando come possano conciliarsi le due cose: umiltà e ribellione.

Rifletto un attimo e cerco in me una risposta: si può riconoscere l’umiltà dentro di noi quando si ha avuto la possibilità, grazie a contenitori avvolgenti e credibili, di esprimere la propria libertà. Tutt’altro rispetto a quanto riconosco essere accaduto a me.

Il mio contenitore famigliare non ha generato quella fiducia in me stessa che solo l’amore permette di sviluppare e, al contrario,  mi ha indotto a investire gran parte delle mie energie nel tentativo di farli ricredere, per farmi accettare… che pessimo modo di usare il mio tempo e le mie risorse emotive! Questo ha fatto sì che anche io ho avuto bisogno di ribellarmi e trasgredire, ma a differenza di Caravaggio (poco umile il paragone), che lo ha fatto a viso aperto, con tenacia e consapevolezza, io ho sempre dovuto indossare una maschera per avere il coraggio di andare alla ricerca di quella fiducia e dell’amore mancato.

Questo abito mi ha esposto a molteplici “chiamate urlate”, poco coerenti con ciò che veramente io ero… ma che ho ascoltato nella speranza di colmare quel vuoto che causava sofferenza. Per questo forse, oggi, pur riconoscendo l’umiltà quando la vedo, spesso la confondo con senso di inadeguatezza.

Ma non fa niente, ce l’ho fatta, adesso riesco a scegliere, a volte con un po’ di cinismo, lo ammetto, “contenitori” che mi regolano l’esistenza senza opprimerne la creatività, ma facendomi crescere tutti i giorni.

Il più importante è quello saldo, pacato e silenzioso di mio marito, che da quasi trent’anni mi accetta, incredibilmente, per quella che sono. Un altro, più terremotante e rumoroso, in questo caso con accezione positiva, è quello del Prof Aparo e del Gruppo della Trasgressione, che, senza troppi complimenti, ti scombussolano e alimentano l’anima.

Ludovica Pizzetti

Caravaggio in città