Ritorno dal nulla

Inizialmente, i miei atteggiamenti e stati d’animo erano dovuti a situazioni che non mi piacevano. L’arroganza ha iniziato a manifestarsi quando, senza il mio volere, mi portavano a casa di mia nonna, dove c’erano regole da rispettare diverse da quelle a casa dei miei. Ricordo che non accettavo i suoi rimproveri, non la riconoscevo come sostituto dei miei genitori.

Era una donna molto autoritaria: le cose, o si facevano come diceva lei oppure si arrivava a uno scontro senza mai dei chiarimenti. Per me ha fatto tanti sacrifici, ma credo che il mio rapporto difficile con lei non è stato solo per colpa mia. Negli anni di scuola, quando c’erano gli incontri genitori-professori, mi ritrovavo spesso senza nessuno, tranne qualche volta quando veniva lei; questo mi faceva sentire diverso, inferiore, emarginato.

Con il tempo ho iniziato a convivere con quel disagio, alzando dei muri per non sentire più nulla. Ho iniziato a fregarmene di tutti e a pensare di poter fare quello che volevo senza dar conto a nessuno. Col tempo questo è diventato naturale, ti abitui a vivere così e non ti accorgi della tua trasformazione. La tua coscienza qualche volta ti manda segnali, ma non l’ascolti, non ti ascolti, non ascolti nessuno.

Per ottenere il riconoscimento di cui avevo bisogno ho iniziato a superare i limiti morali senza averne diritto. Così mi sono trovato imprigionato in un malessere costante. A quel punto, l’unica cosa che fai è cercare giustificazioni, le trovi usando droghe e alcol mentre l’arroganza e l’indifferenza diventano il tuo stile di vita.

La droga ha avuto un ruolo importante nella mia vita sin da piccolo, la vedevo usare in casa mia ed era normale; mia mamma è morta di overdose giovanissima mentre mio padre ne ha fatto uso per molti anni.

Ho iniziato ad usarla per far sentire a mio padre come mi sentivo io nel vedere lui. Ogni giorno morivo per stare vivo, penso che lo sballo non sia nient’altro che scappare dalla realtà, dai problemi o dal semplice fatto che non ti senti all’altezza di quello che ti circonda, hai paura di guardarti dentro e non vuoi sentire il tuo dolore. Ogni giorno è sempre la stessa cosa, ti fai schifo, ti senti una merda, ma non sai come uscirne, non sai e non vuoi vedere oltre a quel malessere da dove non è facile uscire.

Devi scavarti dentro, toccarti l’anima e sentire la tua coscienza ma soprattutto chiedere aiuto senza aver paura di essere giudicato. Solo così puoi realmente vivere la tua vita.

Oggi voglio essere, non avere. È faticoso dopo aver vissuto una vita credendoti un eletto ma è possibile iniziare ad ascoltare la tua coscienza, che ti indica la strada da prendere, che ti porta a casa se la vuoi trovare. Tenerti dentro le tue paranoie e i tuoi stati d’animo non serve a niente e tutte le volte che l’ho fatto mi sono sentito male, sprofondando sempre di più.

Invece bisogna tirare fuori tutto e dissipare la nebbia, solo così si possono vedere i colori che ti circondano. Bisogna prendersi le proprie responsabilità e non scaricarle sugli altri, così facendo si prende in mano la propria vita.

Oggi, con la consapevolezza di quello che è stato, piuttosto che isolarmi e rimanere chiuso nel mio buio, ho deciso di uscire dall’oscurità e di dare un senso alla mia vita. Che strana la vita! Ho iniziato a sentirmi libero qui dentro, cosa che mi permette di migliorare ogni giorno che passa, dando del tempo alla società dopo tutto quello che le ho tolto.

Ringrazio il gruppo della trasgressione che mi aiuta a capire. Nella mia vita ho fatto tanti errori e tanti sbagli, ma può succedere che un giorno mi ricorderanno per quello che sono oggi e non per quello che ho fatto in passato. Grazie.

Cristian Silvagna

I Sentieri dell’arroganza

 

Istituto Barbara Melzi

Da IL BUSTESE del 4 maggio 2024

Daniele Mencarelli al “Barbara Melzi”
Gli studenti dell’istituto di Legnano si confrontano con il poeta e scrittore sul tema dell’adolescenza. Martedì 7 incontro “Sui sentieri dell’arroganza” con il “Gruppo trasgressione” che lavora nelle carceri di Opera e Bollate

Daniele Mencarelli al “Barbara Melzi”

Al grande pubblico è noto per la serie di Netflix “Tutto chiede salvezza” e gli studenti dell’istituto Barbara Melzi lo incontreranno giovedì 9 maggio (ore 10). Saranno gli alunni delle classi terze, quarte e quinte delle superiori a dialogare con il poeta e scrittore Daniele Mencarelli. «Gli studenti hanno letto i suoi libri e l’incontro vuole essere un confronto sui grandi temi dell’adolescenza, della salute mentale e del desiderio come motore di una vita bella, giusta e vera», commenta il dirigente Flavio Merlo.

Ma due giorni prima i ragazzi del Barbara Melzi sono coinvolti in un altro evento. Martedì 7 maggio alle 10 gli studenti di terza media portano avanti il progetto di educazione civica con la partecipazione del “Gruppo della trasgressione” che lavora da anni nelle carceri di Opera e Bollate.
Titolo dell’incontro “Sui sentieri dell’arroganza”. Parteciperanno i referenti del Gruppo (psicologi, giornalisti, magistrati), alcune persone detenute al Carcere di Opera e dei parenti di vittime della criminalità organizzata. La proposta si inserisce anche nelle azioni avviate per la costituzione di un presidio scolastico di “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”.

Il Gruppo della trasgressione

Il Gruppo della Trasgressione comprende un’associazione e una cooperativa, costituite da detenuti, studenti universitari e comuni cittadini. Il gruppo agisce nelle carceri di Bollate e Opera e all’esterno con l’obiettivo di rendere riconoscibili i sentimenti e gli stati d’animo che caratterizzano i percorsi della devianza.

Il gruppo studia, progetta e lavora con chi ha commesso reati: questo giova all’equilibrio sociale e protegge la salute e il bene pubblico più della separazione garantita dalle mura del carcere.

All’interno dell’attività di sensibilizzazione e di mediazione fra carcere e società, gli incontri tra il Gruppo della Trasgressione e le scuole offrono agli studenti di scuole medie inferiori e superiori un’esperienza utile alla prevenzione del bullismo e delle dipendenze, ma anche e soprattutto a vivere in modo tangibile il piacere della responsabilità.

Dunque l’obiettivo della prevenzione viene combinato con la rieducazione del condannato: gli incontri favoriscono il percorso evolutivo dell’adolescente permettendogli di svolgere una positiva funzione sociale nei confronti del detenuto e, allo stesso tempo, aiutano i detenuti a riappropriarsi della loro identità di adulti, intanto che forniscono un servizio alla collettività.

Marisa Fiorani e il gruppo Trsg

Credo che la giornata di ieri sia andata bene e che gran parte dei presenti sia stata contenta delle 3 ore spese insieme.

È stato benevolmente notato, tuttavia, che nel corso dell’incontro si è prodotto uno sbilanciamento, essendosi tanto parlato dei percorsi di chi ha praticato il male e molto meno di chi lo ha subito.

A me sembra, tuttavia, che tale sbilanciamento (che nella quantificazione dei tempi è netto) può risultare spiacevole se Marisa Fiorani viene pensata come rappresentante del polo delle vittime e i detenuti come rappresentanti del polo dei carnefici (pur se “redenti”).

Dal mio punto di vista, è invece opportuno presentare Marisa e i detenuti come due poli che si arricchiscono vicendevolmente mentre vanno verso la luce di cui parlava Don Gianluigi, una luce che, per come ho inteso io, completa il suo lavoro quando i poli si ricongiungono.

In altre parole, quando Marisa viene presentata come componente attiva del gruppo più che come parte offesa, lo sbilanciamento non c’è più. Nella mia ottica, la funzione di Marisa e di Paolo Setti Carraro all’interno del gruppo della trasgressione è quella di lievito della coscienza più che di memoria della colpa e della ferita, cosa che ieri Matteo Manna ha espresso in modo chiaro e toccante.

Forse io, essendone il coordinatore, esalto troppo il ruolo e il lavoro del gruppo, una cosa è però certa: la coscienza di Matteo, come lui stesso dichiara, è stata chiamata dalle voci di Marisa e di Paolo e dal lavoro di tutto il gruppo.

La vocazione di San Matteo, Caravaggio

Per finire, ieri Marisa ha avuto meno tempo a disposizione di Matteo, Antonio, Adriano, Raffaele. Certo che sì, ma credo che Marisa e la figlia che porta nel cuore vincono soprattutto quando i detenuti parlano come hanno saputo parlare ieri e riconoscono Marisa come madrina della loro coscienza. Non a caso, chi ha partecipato all’iniziativa su Dostoevskij che abbiamo svolto nel carcere di Opera non ha avuto difficoltà a riconoscere in Marisa la Sonia di “Delitto e Castigo”.

Caravaggio in cittàGiustizia Riparativa

Noi, figli del ghetto

Mi chiamo Montenegro Vito e voglio per prima cosa ringraziare Aparo e tutto il gruppo di studenti che ci dedicano il loro tempo, così da poterci mettere in gioco.

Inizio questa mia umile storia spiegando che io, personalmente, mi sono accorto solo dopo un lungo percorso di carcerazione di essere stato arrogante. Faccio presente che nasco e trascorro tutta la mia infanzia, come anche la gioventù, in un quartiere a rischio, dove regnava molta delinquenza e dove praticamente tutte le famiglie provenivano dal Sud, le case erano dormitori.

Stiamo parlando di Corsico, dov’era molto facile credere di avere il diritto di prendere la bici oppure il motorino a chi stava meglio di noi. Nella mia famiglia eravamo in 5 e lavorava solo mio padre, quindi la mia infanzia è stata abbastanza povera, anche se devo ammettere che i miei genitori hanno fatto tutto il possibile per non farci mancare niente. Proprio per il contesto che era Corsico, anche la scuola era una scuola di arroganza e prepotenza: c’era la supremazia  delle prime bande di quartiere e poco tempo per studiare perché, se non stavi attento, ti rubavano il giubbotto, la bicicletta, ecc…

Quindi dovevi per forza difendere il tuo e gli esempi che avevamo erano persone più grandi di noi che stavano bene proprio perché rubavano o rapinavano: avevano macchine belle e tante ragazze e noi li ammiravamo, crescendo con questi esempi.

Personalmente, mi sono accorto tramite il lungo percorso di carcerazione, di essere stato prepotente e arrogante, ma voglio spiegare tramite la mia esperienza che quando nasci in certi contesti il confine che separa la legalità dall’illegalità è talmente sottile che non ti rendi conto, sei giovane e ti senti pieno di te. Quindi, diventa normale prendersi il diritto di prevalere sugli altri. Sei molto arrabbiato perché basta spostarsi di pochi chilometri e uscire dal quartiere e vedere che ci sono tuoi coetanei a cui non manca niente e pensi che non sia giusto e così. Allora vai con prepotenza gli togli quello che hanno, perché a te serve. Così, continui il tuo percorso, facendo reati sempre più grossi perché credi di poterlo fare, ti metti pure in mostra tornando in quartiere con i soldi e una bella macchina, pensi che tutto ti sia dovuto.

Ciao solo adesso ho capito che ogni persona ha il suo percorso e può cambiare, come è successo a me. Devo ringraziare anche la scuola durante la mia prima carcerazione: nel 1998 il professore mi spronò a prendere la licenza di scuola media e iniziare a leggere. E’ stato bellissimo, ho finito le scuole e sono stato trasferito in Piemonte, dove regnava ancora l’arroganza, ma dopo qualche anno sono riuscito ad andare per motivi scolastici a Prato, dove ho studiato ragioneria. Lì la cosa era diversa perché non ero più arrogante, mi impegnavo con la scuola di ragioneria e anche gli assistenti sociali erano bravi. Lì mi sono accorto che se fai qualcosa di buono alla fine vieni premiato.

Successivamente fui trasferito a Bollate dove continua il percorso, la direttrice Castellano era bravissima e mi mise in biblioteca, così ebbi l’opportunità di leggere molto e senza nemmeno accorgermi mi trovai a cambiare.

Purtroppo, nei lunghi anni di carcerazione mi lasciai con mia moglie perché La galera logora gli affetti ma per fortuna mi portavano mio figlio che ancora adesso non mi ha abbandonato perché quando ero fuori ho dato tutto me stesso e gli ho fatto capire quanto lo amavo. Però, quando sono uscito e sono tornato in quartiere, mi servivano i soldi e quindi, pur consapevole sono ricaduto in galera ma lui e tutta la mia famiglia non mi hanno abbandonato, perché hanno capito che non ero più quel rapinatore spavaldo e arrogante.

Ormai, anche se è tardi, mi sono sensibilizzato rendendomi conto che c’è chi sta peggio di me. Sono anche consapevole che a giugno entrerò in dialisi e questo mi ha mandato un po in depressione. In ogni caso, io sto combattendo e ho fatto questo mutamento grazie alle persone che mi sono state vicine e tramite anche la consapevolezza che lo studio è tutto, ti aiuta a superare la presunzione e l’arroganza, aprendoti agli altri.

In un’altra vita vorrei fare il professore per spiegare a tutti i ragazzi che la libertà è tutto e che il resto è solo un fuoco di paglia, io ho perso tanto in questa vita. Anche se credevo di avere tanto, alla fine la vita ti presenta il conto.

Adesso compirò 56 anni e faccio i conti con me stesso, mi rendo conto che tutta la mia arroganza e la prepotenza era dovuta a una rabbia che avevo già da ragazzino, era dovuta allo scontento e durante tutto il mio percorso verso la criminalità che ho fatto nella gioventù non me n’ero mai accorto. Fino a quando, nel carcere di Prato mi hanno aperto una porticina e io l’ho tenuta aperta; allo stesso modo anche a Bergamo come a Prato ho fatto volontariato con la Caritas e i ragazzi Down. È stata un’esperienza bellissima che mi dava molto piacere perché mi sentivo utile.

Penso che nessuno nasce cattivo o arrogante ma in certi contesti sei obbligato a diventarlo e ti viene naturale per cercare di uscire dal ghetto. Quando ero ragazzino ricordo che andavo con il pullman a Milano e verso sera guardavo le luci soffuse delle case in zona Duomo, pensavo cosa succedeva in quelle case signorili e mi dicevo che da grande volevo anch’io abitare in quelle case. Infatti così feci, sono riuscito ad uscire dal quartiere ma con i soli mezzi che sapevo usare: la via più breve, quella dell’arroganza e della prepotenza. Tutto sembrava normale, non mi sono mai posto il problema che, per stare bene io, magari sottraevo o mettevo a rischio altre persone.

Mentre ero latitante è nato mio figlio, la cosa più bella che mi è rimasta della vita movimentata che ho avuto. Lui non ha preso la mia strada e questo mi rende molto fiero. Spero che presto riuscirò a migliorare la mia famiglia vicina. Ho capito che fuori è pieno di brava gente, basta cercarla.

Volevo ancora ringraziarvi per il vostro tempo perché con il gruppo adesso posso di nuovo rimettermi in gioco, potendo parlare e confrontarmi con delle persone che cercano di capire il perché di tanta cattiveria e arroganza. Spero che con questo mio umile scritto sono riuscito ad esprimere il mio punto di vista.

Vito Montenegro

I Sentieri dell’arroganza

L’altra giustizia possibile

Quanto coraggio ci vuole ad incontrare se stessi, quando tutto questo deve passare attraverso l’incontro con l’altro che ci ha ammazzato l’esistenza?

Credo di aver iniziato a pormi questa domanda solo 8 anni fa, accompagnando Marisa Fiorani, madre di Marcella di Levrano, uccisa dalla Sacra Corona Unita, ad un incontro al carcere di Opera con alcuni detenuti del Gruppo della Trasgressione, un tempo appartenenti alla criminalità mafiosa.

Prima, nella mia testa, abitava solo il ricordo di poche parole che un ragazzo mi confidò – in un campo profughi a Novo Mesto quando entrambi avevamo 22 anni – per cercare di spiegarmi cosa avesse provato ad uccidere un proprio simile. Avevo del resto affrontato tutto il percorso universitario incentrando la mia attenzione esclusivamente sul reo. E anche durante la tesi di laurea quello che mi aveva più appassionato, nella mia indagine presso il Tribunale per i Minorenni, era il dilemma di optare tra una giustizia rigorosamente punitiva, e pertanto definita paternalistica, e una che – in quanto più remissiva – era più simile ai tratti materni. Con una sintesi sicuramente oggi discutibile ma ancora viva nell’immaginario comune, avevo scelto di arruolarmi tra i fautori della prima tesi, salvo iniziare a ricredermi grazie a due eventi che come una benedizione hanno segnato profondamente, e quasi contestualmente, la mia esperienza di vita: essere diventato padre ed aver iniziato a camminare a fianco dei familiari delle vittime della criminalità organizzata.

Sono giganti, quest’ultimi, ai quali la vita ha lasciato in pegno – dopo la morte, per mano di altro essere umano, degli affetti più cari – un macigno di dolore, grande come una montagna. C’è stato un tempo, diverso per ciascuno di loro, durante il quale l’incontro con frammenti illuminati della Chiesa e della società civile ha offerto l’occasione per ricevere in dono scarponi e corde. Ma loro, quei doni, li hanno utilizzati non tanto per arrivare in cima alla montagna quanto per calarsi, ancora più in profondità, in quello che Dostoevskij definirebbe il sottosuolo dentro ciascuno di noi.

Come Margherita Asta, che proprio in un passaggio del nostro documentario “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine” identifica l’esatto momento in cui ha iniziato a dare un senso alla morte dei suoi due fratelli gemelli: alla prima udienza del processo ai mandanti della strage di Pizzolungo, quando decise di ritrovare i tratti dei loro volti, sia pure trasfigurati, dentro lo squallore di un album fotografico. E proprio quel momento l’ha portata poi a voler incrociare anche il volto di chi, quei fratelli insieme a sua madre, aveva annientato per sempre.

Il coraggio delle donne non è, dunque, quello di affrontare il nemico in un campo di battaglia. Come voleva fare Giorgio Bazzega nell’alimentare la lista delle persone, legate all’uccisione di suo padre, che avrebbe dovuto – allo stesso modo – ammazzare. Fino a cambiare idea nell’incontro con Manlio Milani che era andato fino in Giappone perché voleva, lui invece, parlare con chi poteva essere responsabile della morte di sua moglie.

Prende forma, quel coraggio, con Daniela Marcone quando supera gli orizzonti di un dolore strettamente personale, e per questo necessariamente unico, per indicare con forza la necessità di costruire una memoria collettiva delle vittime delle mafie pugliesi.

Il coraggio delle donne passa dal saper fare i conti prima di tutto con i colori più scuri delle proprie emozioni, con quella loro capacità di saper dare a ciascuna di esse un nome esatto e, così, iniziare a lasciarsele dietro il cammino. Come Agnese Moro, in una delle pagine più dense del Libro dell’incontro, quando rilegge il referto dell’autopsia eseguita sul corpo di suo padre per essere certa di non averne tradito la memoria andando ad incontrare chi aveva contribuito ad ucciderlo.

Porta dentro di sé come elemento imprescindibile, il coraggio delle donne, il dono dell’accoglienza, capace – per loro stessa natura – di generare altra vita. E’ interessante che Paolo Setti Carraro abbia paragonato la sua esperienza di familiare di vittima di reato, attivo nei percorsi trattamentali in carcere, come simile alla attività di una ostetrica che aiuta – al più – a far nascere l’uomo dentro un criminale. Prendendolo per mano.

La giustizia riparativa ha bisogno delle mani di Marisa, Margherita, Daniela, Agnese e di tutte le altre donne che in tutti questi anni hanno tratto ispirazione dal loro coraggio. Ma ha bisogno anche delle mani di Manlio, Giorgio, Paolo e di tutti gli altri uomini che hanno deciso di scongelare il proprio dolore per provare a farne qualcosa di diverso.

Dentro di me e nella mia testa, ora, tutto torna: del resto Rembrandt regala alla sua più famosa immagine di accoglienza misericordiosa le mani di un uomo e di una donna.

Ma la giustizia riparativa ha bisogno che anche le nostre mani si uniscano alle loro: per accompagnare quella danza – come nel quadro di Matisse – affinché sia in grado di restituire un poco di senso a tutto questo sangue versato e, come in una trasfusione vitale, generare esperienze di pace.

[un estratto di questo contributo è stato pubblicato oggi su Avvenire, p. 4, a corredo di un intervista di Viviana Daloisio a Daniela Marcone dal titolo Fare pace con il dolore”. Daniela Marcone e le vittime di mafia]

Giustizia Riparativa

Fino alla 5° elementare

In risposta ai temi degli ultimi incontri, ho piacere di raccontare come ho vissuto la mia infanzia. A scuola ho frequentato fino alla quinta elementare, provengo da una famiglia composta da 9 figli, mio padre si occupava di una impresa di trasporti e logistica, e mia madre, casalinga, accudiva tutti noi.

Volendo realizzare i miei sogni con i mezzi più veloci, sono arrivato a possedere delle armi, motivo per il quale venni arrestato all’età di 13-14 anni, e successivamente rilasciato.

Continuavo con la mia testardaggine e arroganza non dando ascolto ai miei genitori, che vedevo come impedimento e quindi entravo continuamente in contrasto con loro.

Da lì a pochi mesi vengo nuovamente arrestato per una rapina commessa in banca all’età di 14-15 anni. Entro quindi nel carcere minorile dove, per evitare di subire, mi dovetti adeguare e talvolta anche usare violenza.Torno in libertà all’età di 21 anni, con la voglia finalmente di poter vivere la mia vita.

Inizio a frequentare una ragazza che poi diventerà mia moglie. Nonostante il nostro amore, io non riuscivo a capire che la mia arroganza creava solo del male ad entrambi e alle persone che ci circondavano.

All’età di 24-25 anni vengo nuovamente arrestato e mi vengono contestati numerosissimi reati che sto ancora espiando. Nei primi 10 anni di carcere ha prevalso in me quella mentalità arrogante.

Piano piano grazie all’amore che i miei genitori mi trasmettevano ed anche grazie a mia moglie che, nonostante tutto, mi è stata sempre accanto, dentro di me maturavano sensi di colpa. Vedevo i miei figli crescere e mi vergognavo di raccontar loro perché mi trovavo in carcere.

Quindi nonostante i regimi di isolamento in cui sono stato per 5 anni, ho voluto riprendere a studiare, e così pian piano ho arricchito il mio bagaglio culturale, nei limiti del possibile.

La mia vita da uomo libero è stata molto breve. Se oggi mi ritrovo a riflettere sul mio trascorso è anche grazie agli incontri settimanali con il gruppo della trasgressione che mi ha indotto a guardarmi dentro e a prendere consapevolezza dei miei errori.

Anche se non posso rimediare al male fatto, mi auguro di poter essere d’aiuto al fine che altri giovani incerti possano anche, riflettendo sul mio passato, cercare una vita virtuosa per il loro futuro.

“Questo è il mio teorema di Pitagora”. Sempre grato per il vostro supporto morale, cordialmente vi saluto.

Alessandro Strano

I sentieri dell’arroganza

I palazzi e il mio castello

L’arroganza è un tema che in questo ultimo periodo si sta trattando al gruppo e che mi porta a fare una ricerca su di me e i miei trascorsi. Io per primo penso di aver esagerato, anche perché un tempo non davo alla parola lo stesso significato che le do oggi. Infatti l’attribuivo a un personaggio arrogante, scorbutico, maleducato e fastidioso, senza accorgermi che nella descrizione rientravo anche io.

Quando ero giovane, a fine anni 80, mentre nell’hinterland milanese crescevano i palazzi, a Corsico-Buccinasco arrivavano famiglie nuove. Noi ragazzi di strada -dico così perché purtroppo io l’educazione l’ho appresa lì- facevamo capire a tutti che eravamo noi a comandare, con le buone o con le cattive maniere.

Quando ero piccolo mi domandavo perché gli altri avevano le cose e io no. Qualsiasi cosa, materiale o no, quando la volevo, dovevo averla punto e basta. Ditemi se non era questa arroganza! Durante l’adolescenza mi sentivo maturo e forte, in un modo sbagliato dico oggi, tanto che andavo in giro con persone molto più grandi di me. A 15 anni già avevo un’auto mia e, facendo il furbo, mi vestivo con gli abiti di mio padre per apparire più grande ed evitare i posti di blocco.

Gli anni passavano e la mia arroganza cresceva: avevo acquistato “rispetto” dagli altri, mi sentivo superiore e potente su tutti e questo era ciò che volevo. Oggi la vedo con altri occhiali, un tempo era pura ignoranza: parete dopo parete, mi ero costruito un castello, non sapendo che stavo tirando su la stanza dove sto chiuso da 20 anni.

Viste le mie esperienze negative passate e la consapevolezza di adesso, oggi cerco di non trascurare più nulla, apro le orecchie e ascolto gli altri e soprattutto me stesso, ho un nuovo modo di vedere la realtà e cerco di usare gli strumenti che un tempo avevo lasciato sotto la polvere.

Ho deciso di scrivere del mio passato perché penso che molte fasi della mia vita rispecchiano i temi che trattiamo al gruppo, qui in carcere e agli. incontri con i ragazzi delle scuole. Ad ogni modo, sono convinto che un briciolo di arroganza noi tutti l’abbiamo, ma sta a noi come utilizzarla. Ad esempio il proprietario di una ditta potrebbe usare la sua arroganza e il suo potere con i suoi dipendenti: ognuno ha il suo tasto o bottone di arroganza, se vuole lo preme, altrimenti no; anche qua in carcere può succedere e qui mi fermo.

Potrei andare avanti con tanti altri paragoni, però quello che mi dà fastidio è vedere tanti ragazzi insoddisfatti della vita, rovinarsi per niente, molti dei quali inconsapevoli di quello cui vanno incontro, proprio come la maggior parte di noi qua.

Tornando a parlare di me e della mia vita, anche io ho cominciato con il bullismo, cosa comune tra i ragazzi di oggi. Dopo un po’ il bullismo non basta più perché diventa la normalità e allora si passa a combinare cose più grandi che non ci si rende conto. E secondo te, uno da giovane si ferma a pensare? Macché!

Ogni giorno ne fai una più grossa. Ma oggi questo posso paragonarlo a un castello fatto di sabbia che con una semplice onda viene spazzato via, e così arrivi qua dove sto io, messo di fronte alle scelte sbagliate che sono state prese nella vita.

Se scrivi “carcere” e sposti due vocali, la parola diventa “cercare”, ed è proprio questo che sto facendo da qualche anno a questa parte, anche con l’aiuto del gruppo: cerco cosa mi ha spinto dentro questa cruda realtà che vivo ogni giorno. Oggi me ne rendo conto: un’adolescenza molto burrascosa, senza dare valore a quello che avevo davanti, tutto era normalità, dove sono cresciuto era così, l’arroganza regnava, la strada era quella, ho preso il vicolo sbagliato e si vede, e purtroppo tutt’oggi è ancora così per altri ragazzi.

Posso provare rammarico per il passato ma non per il mio presente. Se penso ai valori che ho acquisito durante questi anni, mi riprometto di non provocare dolore a chi mi è vicino, compresi voi membri del gruppo.

Ciao a tutti,
Nunzio Galeotta

I sentieri dell’arroganza

Come credere in chi è morto?

Di fronte a quanto accaduto al Beccaria inorridisco ma non provo stupore.

Dio è morto. L’hanno cantato i Nomadi, ma Friedrich Nietzsche li aveva preceduti di oltre un secolo. La religione non rappresenta più un centro di irradiazione di principi e comportamenti socialmente condivisi. Ognuno sembra essere Dio di se stesso, capace di decidere che cosa è giusto e che cosa sbagliato e agire di conseguenza.

Il padre è morto. L’autorità in famiglia, a scuola, nello Stato non riesce più a stabilire criteri condivisi di comportamento e tanto meno a farli rispettare. Sempre più spesso chi ha un potere non lo esercita in maniera illuminata ed equanime.

Il risultato è che i deboli (socialmente o moralmente), gli infelici (per sorte o per colpa), gli ultimi (per provenienza o per responsabilità propria) si sentono autorizzati a comportamenti abusanti. L’autorità poco degnamente esercitata e volta all’abuso genera comportamenti abusanti ad ogni livello.

Come ridare credibilità a un’autorità ormai svilita?

È una domanda che tutti, ad ogni livello, dovrebbero porsi, autorità comprese. Credo che la risposta sia molto difficile, ma sono convinta possa essere trovata a condizione che l’affermazione di partenza sia condivisa e che la sua costruzione sia frutto di una collaborazione di  intenti da parte di uomini capaci e di buona volontà.

Nuccia Pessina

I sentieri dell’arroganza