Quali requisiti per un risultato utile?

Quali requisiti per un risultato utile?
Maurizio Chianese

Al gruppo si continua a discutere sulla tossicodipendenza. Quel che viene fuori ogni volta fa sorgere domande alle quali io a volte faccio fatica a rispondere. L’ultima è stata: “quali requisiti dovrebbe avere una persona tossicodipendente per uscire più facilmente da questa condizione?”

Sarebbe bello identificare un pacchetto di requisiti che una persona potrebbe fare propri per uscire con sicurezza dalla tossicodipendenza, ma sappiamo bene che, purtroppo per noi, non è così. Uscirne è difficilissimo, ma credo che per una persona tossica sia difficile già il fatto stesso di partire seriamente per un percorso di recupero. Credo che giungere a questa determinazione non è cosa che avviene improvvisamente, c’è bisogno di fermarsi a pensare, facendo i conti con il passato e con il proprio vissuto.

Io sono giunto a questa decisione non solo per essere finito qui, dove si è obbligati a fermarsi, ma anche in conseguenza di un forte trauma, che inizialmente mi ha fatto crollare, ma poi, con l’aiuto di persone competenti in materia, mi ha indotto a ragionare. Oggi sono 4 anni che ci lavoro e che mi sono imposto degli obiettivi, sto facendo i conti con il mio passato, riconoscendo sbagli e mancanze e il dolore causato alle persone a me care. Mi sono anche detto che ora devo costruirmi una nuova vita, solo quando io starò bene potrò pensare di chiedere la fiducia e il riavvicinamento delle persone a cui ho fatto del male.

Cosa sto facendo per raggiungere il mio obiettivo? In questo istituto (Bollate) ci sono molte attività che offrono un aiuto concreto per lavorare sulla propria persona, gruppi che, se presi seriamente, aiutano a riscoprire emozioni, capacità di socializzare, a responsabilizzarsi e ad avere fiducia in sé e negli altri. lo ne frequento diversi: da quello del sert di reparto, dove si tratta e si condividono esperienze di vita, al gruppo “Psicodramma“, dove si mettono in scena eventi vissuti mostrando emozioni. Essendo padre, frequento il “Gruppo genitorialità”, molto importante perché, confrontandomi con altri padri detenuti, colgo riflessioni e spunti da utilizzare nei brevi momenti che hai quando i figli ti vengono a trovare, per non fagli pesare di più la tua assenza. E poi, il “Gruppo della trasgressione“, è quasi un anno che lo frequento; descriverlo è molto complicato, è fuori dagli schemi.

Qui ho trovato persone corrette che m’invogliano sempre a fare qualcosa (come gli scritti). Piano piano, mi sto aprendo, ascolto con molta attenzione ogni cosa che viene detta, a volte per la mia ignoranza non comprendo il significato di qualche parola, ma grazie al potere che c’è nel condividere le storie riesco sempre a comprendere il succo della discussione. Ogni volta che il gruppo finisce torno in cella più convinto di aver preso la strada giusta e di avere la possibilità e la capacità di uscire da questa brutta condizione. So che il tossico in me non sparirà mai, ma è altrettanto vero che se riesco a mantenere questa testa riuscirò a tenerlo in un angolo.

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Le brioches e l’airbag

Le brioches e l’airbag
Veronica La Riccia

Cibo. Ancora cibo. Sempre cibo. Sto male. Dentro di me solo vuoto. Inesorabile vuoto. Nausea. Depressione. Lacrime scorrono sul mio viso, che non cambia espressione. Il sorriso perde all’improvviso il suo valore. Sento questo peso enorme, sulle mie spalle. Tutto troppo grande per me. Sensi di colpa sopraggiungono per ricordarmi quanto sia imperfetta. Triste. Vuota. Altre lacrime scorrono. Sembra che abbia un fiume dentro di me, che necessita spazio, un’uscita. Sento tanta stanchezza. Mi sento sola, lontana dal mondo che vivo ogni giorno, sbalzata in un universo parallelo, dove le emozioni mi travolgono lasciandomi… vuota. Mi guardo allo specchio, sono pallida, lo sguardo è spento, le occhiaie viola accentuano l’espressione malinconica. Tutto sembra senza speranza… Dov’è la via d’uscita? È tutto così buio intorno a me. La nausea aumenta. Il ribrezzo nei miei confronti anche. “Che fatica”, penso.

Questo è lo spaccato di emozioni che mi capita di vivere quando mi lascio controllare, dominare, muovere dal cibo. Arrivo a desiderare la morte piuttosto che sopportare quel dolore. Ma visto che il suicidio non è una scelta che reputo adeguata, mangio di nuovo e tutto torna ad essere più piacevole. Il mondo intorno si colora di sfumature diverse a seconda di quanti grammi di zuccheri abbia ingerito e, come il mondo, così le mie relazioni.

A volte realizzo quanto la solitudine sia la mia migliore amica: lei non mi dice “basta”, non mi chiude il pacchetto di biscotti, non mi fa notare quanto sia esagerata, non mi giudica. Sono così contenta quando arrivo a casa e sono da sola. Con lei posso riempire quel vuoto, me lo lascia fare. Anzi, con quella vocina subdola mi sussurra “mah si, mangia ancora! Che sarà mai! Da domani vedrai che sarà diverso, non lo farai più!”. Poi, all’improvviso, bum. Nero. La solitudine cambia forma, mi soffoca, mi trascina vorticosamente nell’abisso. “Non erano questi i patti!”, le dico. Ma lei stringe ancora di più, facendomi tornare al punto di partenza o addirittura più in basso. In quel momento il mio fidanzato, i miei genitori, i miei amici… li annullo. Li anniento. Io, io e ancora io. Nel bene e nel male.

Ma tutto questo, da dove ha origine?

Ci ho pensato ed è davvero difficile trovare il punto esatto in cui io abbia scelto di mettere in atto questa strategia. Ma alla mente è arrivata un’immagine: mia madre in ospedale, con l’ago nella vena che iniettava il farmaco chemioterapico. Io avevo 13 anni. Una ragazzina che fino a quel momento aveva vissuto sotto una campana di vetro, dove di pericoli non ce n’era nemmeno l’ombra. Però, quando a casa di mia nonna mia madre disse ciò che il medico aveva scoperto, andai in mille pezzi. Da quel momento mi trovai a fare i conti con la paura enorme di perdere mia mamma e con la necessità di crescere, in fretta. E allora, quì torna l’immagine dell’ospedale: lei distesa sul letto e io a mangiare brioches su brioches. I “Buondì” al cioccolato. Me lo ricordo come se fosse ieri.

A questo punto, la domanda del dott. Aparo arriva prepotente alla mente: il legame con l’oggetto-dipendenza impedisce la creazione di altri legami o protegge dal crearne?

Io credo che la risposta sia più vicina alla seconda ipotesi. Io considero questo problema come un rifugio, una base sicura, una strategia per non dipendere dagli altri. Una modalità disfunzionale per non permettere ad altri di farmi del male. Peccato che in questo modo me lo faccia da sola.

E’ come se dentro di me fossi costituita da tanti pezzettini di un puzzle che devo, in un qualche modo, tenere insieme, dargli un senso. E donare qualche pezzettino all’altro significherebbe lasciare dei buchi, perdendo così la mia identità, costruita con dolore, difficoltà e nemmeno tanto bene. E il cibo è proprio una delle colle che mi aiuta a tenere insieme questi pezzettini e trovare una colla più adatta, magari contemplando l’apertura verso l’altro, costa tanta fatica.

D’altra parte, l’esperienza vissuta a Bollate e l’aver raccolto le sensazioni che gli altri hanno avuto nei miei confronti, per un po’ mi ha fatto stare meglio. Credo che l’aver concesso a me stessa di prendere uno dei miei pezzettini e di metterlo sul tavolo abbia permesso agli altri di avvicinarsi e arricchire quel pezzettino che poi ho potuto rimettere dentro di me. Però questo discorso mi rendo conto che mi crea molta confusione, non riesco ad avere un quadro chiaro e nitido. Forse ho bisogno di qualcuno che mi guidi e che mi aiuti a districare la matassa.

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Droga e relazioni viste dall’altro

Droga e relazioni viste dall’altro
Jessica Piccinali

E’ da circa un anno che frequento il gruppo della trasgressione, esperienza che ritengo arricchente ed emotivamente forte. La sua bellezza sta nella possibilità di creare discussioni e confronti costruttivi tra persone che hanno storie di vita diverse, ma che in questa sede hanno la libertà di esprimersi secondo il loro essere, indipendentemente da ciò che hanno fatto. Sono parecchie settimane che, guidando verso casa dopo il gruppo e riflettendo su cosa “porto a casa” dai contributi di ognuno, forniti attraverso gli scritti condivisi, penso a ciò che è stata la mia esperienza e alla curiosità che, da sempre, mi contraddistingue.

Non ho mai fatto uso di sostanze stupefacenti, ma la mia troppa curiosità, forse insieme a un’inconsapevole ingenuità di qualche anno fa, mi hanno indirettamente portata ad un contatto con queste sostanze. Ripercorrere quegli anni non è facile per me, non con la consapevolezza di oggi, ma a volte risulta fondamentale perché riconosco di essere diventata ciò che sono, anche grazie a quelle esperienze.

Era un venerdì sera. Avevo 18 anni e, fresca di patente, andai a prendere un’amica per quattro chiacchiere insieme e, una volta finite le chiacchiere, mi accorsi che era ancora presto per tornare a casa, anche se il giorno dopo sarei dovuta andare al liceo. Perciò pensai di fare una sorpresa a quello che all’epoca era il mio fidanzato e, avendo le chiavi di casa sua, decisi di andare a trovarlo.

Ricordo come fosse ieri, io che infilo le chiavi nella toppa della porta e la apro. La scena che mi si prospettò davanti cambiò ogni cosa. Lui era lì, chinato sul tavolo, con qualche striscia di cocaina a tenergli compagnia. Non si accorse nemmeno della mia presenza, se non quando mi misi di fianco a lui e lo guardai incredula. Sento ancora i miei occhi pulsanti di rabbia e probabilmente lo gelai con lo sguardo, lessi nei suoi occhi terrore, misto a senso di colpa, insieme alla vergogna. Io provavo delusione, senso d’impotenza e ancora rabbia, tanta rabbia. Rabbia perché non sapevo nulla, perché lui giustificava la mancanza di soldi dicendo che la vita costa cara, che doveva pagare l’affitto e la spesa. Rabbia perché a 18 anni mi ritrovavo a passare i weekend a casa perché lui non poteva nemmeno pagarsi il biglietto del cinema, e mi confrontavo con le mie compagne di classe che invece cominciavano ad andare in discoteca per la prima volta. Rabbia perché mi ero sentita stupida di fronte alle sue menzogne e ingenua per non essermi mai accorta di nulla.

Era da tempo che lui mi faceva sentire inadeguata, brutta, aveva ridotto a zero la mia autostima, facendo anche crollare la mia voglia di fare ciò che le coppie normalmente fanno, tanto che i nostri weekend significavano solo una cosa per me: mangiare per tutto il fine settimana. A un certo punto avevo talmente vergogna di me stessa, da evitare persino di guardarmi allo specchio.

Aveva capito la fragilità che mi apparteneva da qualche anno, da quando i miei genitori si separarono e mio padre perse la testa per una “signora” che lo voleva tutto per sé, che aveva priorità sulle sue figlie, quel padre che chiamavo l’”uomo bancomat” solo perché, in quel momento, era totalmente anaffettivo e l’unica sua funzione di padre era quella di mantenermi economicamente.

Lo guardai di nuovo, mi voltai, e me ne andai. Nei giorni successivi lui cercò di giustificarsi, ma continuavo solo a chiedergli “Perché?”. E proprio la ricerca della risposta a quell’unica domanda che gli feci, mi spinse ad andare oltre. Mi raccontò di essere figlio di una donna eroinomane che, fin da quando lui nacque, si prostituiva per mantenere la sua dipendenza. Mi raccontò che per questo, un giorno, sua madre venne uccisa e lui venne affidato alla zia. Aveva 6 anni. Tutto ciò lo travolse, crebbe con il desiderio di vendicare sua madre, questo era l’unico pensiero che lo faceva sentire vivo. Questo causò in lui, però, un senso di protezione assoluta nei confronti delle donne in generale, che diventava possessione verso la fidanzata, che in quel caso ero io. Possessione che veniva gestita in modo subdolo. All’inizio sembrava quasi normale gelosia, “chi è quello che hai salutato?”, “chi è che ti manda i messaggi?”, eccetera, trasformatasi poi quasi in perversione: ad oggi ho capito che lui, screditandomi ai suoi occhi, ha causato il mio non sentirmi adeguata agli occhi del mondo.

E perché stavo con lui? Perché pensavo di non meritarmi nulla, pensavo che solo lui potesse volermi bene, vista la mia inadeguatezza. Passò qualche mese e mia mamma, preoccupata per la mia salute, decise di portarmi da un nutrizionista. Cominciai a perdere peso, ed il mio perdere peso creò in lui agitazione. Era come se stesse perdendo il controllo della situazione. Era come se il mio volermi bene, non gli permettesse di avermi in pugno. Stavo lentamente tornando a guardarmi allo specchio, piacendomi. A quel punto venne fuori la sua vera indole di manipolatore, non voleva che io uscissi con le mie amiche, non voleva nemmeno che andassi in gita con la scuola, mi ricattò più volte affinché io facessi ciò che lui voleva. Io mi ribellai, trovai la forza per farlo: aveva usato la mia fragilità per esercitare una forma di controllo e di potere su di me. Chiusi la relazione senza alcun tipo di rimorso. Lui impazzì. Mi chiamò per giorni interi, all’inizio risposi anche, sentendomi miriadi di insulti gratuiti. Smisi di rispondere, mi si presentò totalmente fatto davanti a casa. Ho ancora impressa quell’immagine. Svenne davanti a me, io chiamai sua zia, nonché madre adottiva, che lo venne a prendere. Quella fu l’ultima volta che lo vidi.

C’è voluto molto tempo per poter affrontare le ferite lasciatemi da quella relazione, ferite che erano sia fisiche a causa del mio ingente aumento di peso, sia psicologiche a causa della mia autostima distrutta. C’è voluto molto tempo anche per tornare a fidarmi di qualcuno.

Passarono diversi anni da quella relazione, anni in cui ho fatto la mia “rivoluzione” ed ho scoperto di avere una forza interiore prima sconosciuta. Mi sentivo piuttosto bene: avevo cominciato l’università, avevo nuovi amici, quelli vecchi erano sempre presenti, il mio percorso dal nutrizionista stava sortendo i suoi effetti positivi, avevo recuperato la mia autostima, insomma ero fiera di me stessa.

Frequentando il locale in cui lavorava la mia amica storica, sono entrata in contatto con una realtà che ho sempre e solo visto da lontano: vedevo strani giri, persone che andavano e venivano, continue strette di mano, gente che faceva la fila per andare in bagno… ma ben presto ho capito cosa succedeva in quel locale. Ero però sicura del mio totale disinteresse e della mia non tolleranza rispetto all’uso di sostanze, vista la mia esperienza precedente.

Una sera, stavo tranquillamente parlando con quella mia amica, quando è entrato nel locale un ragazzotto dalla faccia simpatica che, incuriosito dal discorso, si è avvicinato per chiacchierare. Fondamentalmente sapevo benissimo cosa faceva lui, ma la mia curiosità non mi ha permesso di fuggire, in un certo senso. Lui diceva di non fare più uso di cocaina da qualche mese e diceva anche che era sulla buona strada per smettere totalmente con la sostanza; io, che di cocaina nemmeno ne volevo sentire parlare, ero quindi perfetta per accompagnarlo nel tempo futuro, perché con me non avrebbe avuto la tentazione di fare QUEL passo indietro.

Così diceva. MA… a questo punto c’erano due problemi abbastanza ingombranti: il primo era che lui, oltre ad un onesto lavoro, ne aveva anche un altro, faceva soldi vendendo cocaina. Il secondo era che tutte le persone che lo circondavano avevano in qualche modo a che fare con la sostanza, soprattutto il suo migliore amico e sua sorella che avevano un livello di dipendenza decisamente grave. Inizialmente la relazione andava piuttosto bene, lui non usava la sostanza, non la aveva mai con sé in mia presenza ed era davvero convinto di voler smettere perché troppe persone a lui care si erano rovinate la vita a causa della droga.

Quando era adolescente, suo padre e suo zio vennero processati per traffico di stupefacenti e sua madre, per questo, scappò di casa con un altro uomo. A quel punto il padre divenne un eroe agli occhi dei suoi figli, tanto che gli capitava di fare festini di cocaina con loro. Di fronte ai suoi racconti, io rimanevo sempre più perplessa del modo in cui questo padre veniva giudicato come il padre migliore del mondo, questo padre che morì di infarto proprio a causa dell’uso ingente di sostanze. Cercavo di capire quale fosse il motivo per cui una persona può farsi così condizionare la vita dalla droga, capire perché quella persona non è in grado di smettere con la sostanza nel momento in cui tutto ciò che ha crolla come conseguenza della stessa. Il suo amico non si alzava dal letto, se non grazie ad una riga di prima mattina, la sorella gli rubava una busta ogni sera per chiudersi in camera a fumare e non usciva mai e di lavorare nemmeno ne parliamo! Chiaramente le relazioni familiari erano disfunzionali, sua madre sapeva tutto, ma non era in grado di aiutare i figli, o forse, e sarò cattiva, le faceva anche comodo che lui provvedesse a pagare il mutuo della casa.

Ed io ero assorbita da questa situazione, ero assorbita dalle stesse relazioni disfunzionali che erano per me così bizzarre: ero diventata una sorta di spugna a cui raccontare ogni singola cosa perché sapevano che non avrei giudicato, anzi, avrei cercato un modo per poterli aiutare. Mi sentivo la crocerossina del momento, tentavo di far in modo che le cose migliorassero (soprattutto per sua sorella a cui facevo quasi da baby-sitter nonostante i suoi 30 anni), tentavo anche di difendere la mia opinione contro tutte quelle persone affamate di cocaina che tentavano di convincermi che quello fosse l’unico modo per divertirsi davvero, proprio loro che per una busta erano disposti a fare qualsiasi cosa.

Dopo qualche mese, per motivi di studio, ho deciso di prendere casa a Milano con una mia compagna di università, perciò durante la settimana ero sempre via, tornavo solo per il weekend.. e questo divenne un problema per me, una scappatoia per lui.

A volte le telefonate erano strane, cambiava atteggiamento, modo di parlare, evitava le domande scomode ed io avevo subito capito cosa stava succedendo: quando il gatto non c’è, i topi ballano. Quando tornavo chiedevo sempre spiegazioni, ma venivo rassicurata dalle sue promesse a cui, però, non credevo fino in fondo. E le bugie, di nuovo bugie, hanno aperto nuovamente quelle ferite da cui pensavo di essere guarita.

Nel momento in cui viene meno la fiducia, si sa, le cose non vanno per il giusto verso ed era proprio così che stava andando e con la fiducia se ne andavano anche la mia comprensione e la mia sensibilità: ero diventata intollerante a qualsiasi tentativo di fingersi vittime della sostanza, ero diventata scontrosa e mal disposta nei confronti di chi cercava di farmi pena.

Un giorno eravamo ad un pranzo a casa di amici a cui hanno partecipato anche QUEGLI amici, dopo pranzo ricordo che si è alzato per andare in bagno e mi ha rivolto uno sguardo strano, come se volesse controllare che io non stessi pensando a nulla, ma io ormai conoscevo il pollo. Infatti, appena uscito dal bagno, ho notato quel famoso tic che gli veniva ogni volta che sniffava anche solo una riga. È calato il silenzio. L’ho guardato e me ne sono andata. Non avevo intenzione di fare alcuna scenata davanti a quegli ipocriti.

Lui non stava tentando di smettere perché davvero non voleva fare la fine di quelli che conosceva, lui non voleva smettere, pensava che mentirmi sarebbe stata la scelta giusta, per tenermi buona. Come se gli avessi chiesto io di non farne più uso, stava fingendo di rigare dritto per non farmi arrabbiare, come se stesse facendo un favore a me. Forse gli facevo anche un po’ comodo perché, non avendo alcun tipo di interesse nei confronti della cocaina, non avrebbe dovuto finanziare la mia dipendenza come aveva fatto con la sua ex e come stava facendo con sua sorella.

Da quel giorno lui non è più stato lo stesso ai miei occhi, era la prima volta che concretamente vedevo la sua vera natura: chi nasce rotondo non può morire quadrato, mi diceva per giustificare il suo stile di vita. Io a quel punto ha capito di essermi illusa di aver visto in lui una persona che nessun altro aveva mai visto e mi sono totalmente distaccata da quella realtà. Tutte le amicizie che aveva erano false, erano suoi amici solo perché lui era generoso, ma se avesse avuto davvero bisogno loro non sarebbero mai corsi in suo aiuto.

Ho capito che il mio desiderio di stargli accanto era vanificato ogni volta dalla cocaina, veniva prima quella roba. Prima di me, prima di tutto il resto, anche prima di lui: la droga gli ha provocato anche danni fisici, ma a lui questo non importava. Tutta la sua vita girava intorno a quello, per soldi, per dipendenza, ma anche per essere importante per qualcuno, per sentirsi voluto bene, per imitare quel padre tanto amato, per l’incapacità di tirare fuori le palle e di affrontare la vita, con i suoi pro e i suoi contro. Era più semplice rifugiarsi in quel mondo, nella disfunzionalità delle sue relazioni, nell’illusione di essere davvero una persona che conta qualcosa per gli altri solo perché hai “ciò che li fa felici”, piuttosto che rinunciare ai soldi facili e a quell’identità fasulla che si era costruito.

Da tutto questo ho preso le distanze quando ho capito che non avrei potuto fare nulla perché ero solo un ostacolo per lui, in quel momento, qualcosa che gli creava problemi nel raggiungimento immediato del suo desiderio e mi sentivo totalmente svuotata. Svuotata perché avevo impiegato tutte le mie forze per sostenerlo nella sua scelta di smettere, per poi essere presa in giro. Svuotata perché supportavo sua madre disperata per la sorella, tanto da portarmela ovunque pur di non farla stare a casa da sola altrimenti faceva ciò che non doveva fare, per poi sminuirmi dicendo che lui aveva ragione perché io volevo cambiarlo ingiustamente. Svuotata perché avevo capito di non contare poi così tanto per lui, dopo tutto quel tempo speso.

Ci siamo lasciati. Successivamente è stato arrestato per spaccio.

E quando qui al gruppo sento dire che il tossicodipendente non riconosce l’altro se non come oggetto, mi sento tirata in causa. Quando sento dire che il tossicodipendente non è in grado di mantenere relazioni sane, avverto ancora quel senso di svuotamento.

I momenti di debolezza li ho avuti anche io, momenti in cui mi sentivo inadeguata, momenti in cui la mia fragilità era talmente forte che evitavo di guardarmi per non riconoscerla, nemmeno quando mi sono sentita inutile per qualcuno, nemmeno quando ho capito che una sostanza potesse avere più importanza di me, ma il pensiero della droga non mi ha mai sfiorata e questo non perché sono wonder woman.

La forza di rialzarmi, la forza di riconoscere di avere un problema, la forza di perseverare, di aspettare prima di ricevere una gratificazione, l’ho sempre trovata nelle persone che avevo accanto e negli obiettivi che volevo raggiungere nella mia vita. E l’ho trovata anche in me stessa, perché è quando il tuo impegno viene ripagato attraverso evidenti risultati, e questi risultati sono solo frutto della tua perseveranza, che ti senti piena di orgoglio per te stessa.

È vero che cambiare i modelli disfunzionali con cui una persona è cresciuta credendoli giusti, non è facile, ma è soprattutto doloroso. È anche vero che il contesto gioca un ruolo fondamentale nelle decisioni che il soggetto compie e nelle scelte che compie nei confronti della guida. Bisognerebbe fare in modo di riconoscere l’altro che ci sta di fronte non come oggetto, l’altro su cui possiamo investire per costruire quella guida positiva che, comprendendo le nostre fragilità, ci aiuti a costituire quel senso d’identità smarrito o mai trovato. Quell’identità che ci permette di riconoscerci tra gli altri, dando a ciascuno la consapevolezza che è la relazione con l’altro che rende l’essere umano straordinario.

 

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La scelta della scopa e quella del pacco

La scelta della scopa e quella del pacco
Giampaolo Monaco

Sono il terzo di sei figli, cresciuto con la nonna materna sino all’età di otto anni; questo perché mio padre è stato un delinquente. Poi, quando aveva compiuto i quarantacinque anni, diede un taglio netto a quella vita che da sempre conosceva. Iniziò a lavorare come operatore ecologico e allora, non solo gli amici si meravigliarono per la fine che secondo loro aveva fatto, ma sua madre stessa si vergognava di vedere suo figlio che puliva le strade. Un giorno arrivò a dirgli di lasciare quel lavoro e di non portare più il disonore a casa e che alla sua morte gli avrebbe assicurato l’eredità. Mio padre non solo non diede retta a quello che sua madre gli disse, ma dichiarò che l’onore lo aveva raggiunto prendendo una semplice scopa in mano per ripulire la città.

Questo radicale cambiamento di vita, portò mio Padre a pensare che, dopo otto anni da mia nonna, fosse anche ora che io iniziassi a vivere in casa sua con il resto della famiglia. Vi dico con molta onestà che, quando mi portò via da mia nonna e mi mise a vivere in un posto che non aveva affatto il calore di una famiglia, iniziai a odiare mio padre sia perché non mi aveva lasciato dalla nonna sia perché non capivo quell’arbitrio di riappropriarsi di me come se fossi stato un pacco.

Il risultato fu che io facevo tutto il contrario di quello che lui imponeva. Iniziai a scappare da casa e a stare anche giorni senza dare mie notizie, sino a quando la polizia o i carabinieri riuscivano a trovarmi. Per procedura, essendo io minorenne, chiamavano i miei genitori per darmi in affido. Già da quando avevo circa undici anni, i reati erano all’ordine del giorno, spinelli, alcool erano la ciliegina sulla torta.

Mi ritrovai, senza avere la cognizione di cosa significasse, eroinomane a tredici anni. Ancora non lo sapevo ma decisi di ammalarmi! Evidentemente (ipotizzo ancora oggi), non riuscendo ad affrontare mio Padre e a dirgli quello che pensavo di lui, sfogavo la mia rabbia in questo modo assurdo, convinto di fargliela pagare per quello che mi aveva fatto. Quando iniziai a capire, pur essendo ancora minorenne, mi resi conto di quanto fosse sbagliata la mia scelta e quanto ormai quella malattia si imponesse sempre di più su di me. Mi rendevo conto che negli anni erano cambiate tante cose, mi sentivo privo di forza sia fisica che psicologica, mi guardavo allo specchio e mi sentivo invecchiato, non avendo nemmeno vent’anni.

Abbiamo parlato del conflitto. Voglio raccontare quello che ho vissuto io. Ricordo che, i miei genitori mi portarono, facendo tanti sacrifici (mio padre si fece anticipare parte della pensione) al San Raffaele di Milano, per una nuova terapia di disintossicazione. Quello fu il mio primo conflitto: ero obbligato ad andare e a dire che volevo, ma dentro di me non volevo disintossicarmi, tant’è vero che, come già sapevo, fu un fallimento.

Dopo anni di terapie con metadone, farmaci, e diversi ricoveri, decisi finalmente di risalire dalle sabbie mobili. Con tutta la convinzione e la fermezza di questo mondo, mi chiusi a casa per ben quattro mesi, scalando giorno dopo giorno il metadone, arrivai a scalare anche tutti i farmaci che assumevo per stare calmo, (Roipnol, Darchene, Catapresan ecc.). Tutto questo avveniva paradossalmente a casa mia, avevo capito che mio padre non si era mai posto il problema se suo figlio potesse soffrire così tanto la separazione dalla nonna. Questa sua mentalità, sono sicuro che fosse dovuta all’ignoranza e alla vita che aveva condotto. Mio padre anche oggi a settantasei anni è un uomo tutto di un pezzo e non incline a fare come dicono gli altri, ma con assoluta certezza posso dire che ha sempre amato la sua famiglia e per la famiglia darebbe la vita.

Per esperienza e senza presunzione, posso dire che nella fase della tossicodipendenza non hai nessun potere, o semmai puoi solo illuderti di averlo. Il vero potere, e questo lo posso dire solo oggi, è quello che ha avuto mio padre, ossia abbandonare il senso di onnipotenza, e crescere sei figli con il più umile dei lavori, ma con onore.

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In ritiro nel disordine

In ritiro nel disordine
Claudio Marotto

Sono figlio di emigranti, i miei genitori lavoravano in Svizzera per poter dare a me e ai miei fratelli un avvenire. Purtroppo mio padre era dedito all’alcol, questione per la quale il compito di educare e di accompagnare i figli era totalmente delegato a mia madre; a scuola e alle manifestazioni sportive era sempre mia madre ad essere presente.

Il rapporto con mio padre, già conflittuale, si complicò ulteriormente a seguito della mia decisione di ritirarmi dagli studi. Iniziai a lavorare come commesso e quasi nel contempo a usare la sostanza. Da lì, una vita sregolata tra feste ed eccessi, con l’inevitabile conclusione dell’arresto per spaccio.

Dopo una lunga trafila di reati arresti e scarcerazioni e sempre vivendo all’insegna del disordine totale, in questo marasma che era la mia vita ho fatto due figli, che adoro e che non vedo da due anni per problemi di compatibilità con la mia ex compagna, che peraltro ha trascorsi con la sostanza come me.

Io penso che la tossicodipendenza sia una malattia di cui ognuno sceglie di ammalarsi, inconsapevole del degrado e del disastro cui si andrà incontro, una malattia che può risolversi solo attraverso un’analisi del proprio vissuto e con l’aiuto di tutti coloro che vogliono aiutare. Non so esattamente cosa bisogna fare, ma so per certo che è necessario provare, provare e ancora provare ed è quello che io sto provando a fare.

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Angeli Ribelli

Angeli ribelli
Andrea Mammana

Angeli ribelli
Calvalcano fulmini
Dalla vita breve

L’oblio non li spaventa
Si nutrono di eccitazione

Con luci colorate
addobbano i ricordi
sul viale della morte

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Bello scherzo

Bello scherzo che m’hai fatto
Gabriele Rossi

Bello scherzo che mi hai fatto…
Vent’anni rubati… o da me regalati
Sprecati a rincorrerti,
 senza mai
avere la pace di saperti mia.

Sono vent’anni ormai…
vent’anni che imbroglio, mento, rubo
che compro e rivendo…

E dove sono i tuoi occhi?
Chi li ha mai visti?

Vorrei sentirti dire che mi liberi,
ma tu non parli,  non dici…
però
sei lì in ogni cosa che dico …
e cambi il senso di ogni cosa che ascolto.

Ora spero che il vento ti spazzi via
ora bado che non ti porti troppo lontano…
e io non ho la forza
nemmeno di quel soffio che mi libererebbe…

Bello scherzo che mi hai fatto.
Mi sento svuotato della forza
che la vita mi aveva dato,
della volontà e della capacità
di dire sì o dire no.

Non mi hai cercato tu, ma sapevi
che la mia presunzione ti avrebbe sfidato…

Ti fa onore alleviare il dolore dei malati
ma non di rapire la vita dei giovani sfrontati.

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Relazione di tirocinio

TIROCINIO PRE LAUREA PRESSO “ASSOCIAZIONE TRASGRESSIONE.NET”

Manuela Matrascia, Matricola: 768178
Corso di studio: SCIENZE E TECNICHE PSICOLOGICHE
Periodo: dal 26/01/2016 al 24/03/2016

 


Caratteristiche generali dell’attività svolta: istituzione/organizzazione o unità operativa in cui si svolge l’attività, ambito operativo, approccio teorico/pratico di riferimento

Ho svolto l’attività di tirocinio presso l’associazione trasgressione.net. Ho svolto il tirocinio di cento ore principalmente in tre sedi: nella sede dell’ATS (ex ASL Milano) di Corso Italia 52, presso il carcere di Bollate e presso quello di Opera. Il tirocinio richiedeva la partecipazione a incontri di gruppo tra studenti, detenuti ed ex detenuti, al fine di creare un ponte tra realtà diverse e per favorire uno scambio di opinioni su svariate tematiche. Il Gruppo della Trasgressione è inoltre impegnato, all’interno delle scuole, sulla prevenzione del bullismo e delle tossicodipendenze e sulla promozione della legalità. Il coordinatore del Gruppo della Trasgressione nonché tutor del tirocinio è il Professor Angelo Aparo.

 

Descrizione dettagliata del tipo di ruolo e mansioni svolte

L’attività di tirocinio che ho svolto presso il Gruppo della Trasgressione prevedeva che partecipassi agli incontri con un ruolo attivo e paritetico con quello degli altri componenti. Fra i miei compiti vi è stato anche prendere appunti per la successiva stesura dei verbali relativi agli incontri svolti; in previsione di un prossimo convegno sulla tossicodipendenza, è stato richiesto ai tirocinanti anche di effettuare ricerche sul tema e di trascrivere i testi dei detenuti sulle loro esperienze.

 

Attività concrete/metodi/strumenti adottati

Il gruppo della trasgressione mira principalmente a fare ricerca e ad accrescere le potenzialità dell’individuo detenuto affinché, una volta conclusa la detenzione, non ricada negli errori commessi in precedenza. Il percorso all’interno del gruppo è assolutamente di crescita sia per il detenuto sia per lo studente che vi partecipa. Si discute su argomenti, come l’autorità, la fragilità, il limite, la tossicodipendenza, per far emergere i diversi aspetti di questi temi, per cercare di farli propri e per poterli poi applicare nella vita di tutti i giorni. Il tutto è arricchito dagli scritti dei detenuti, frutto dell’interiorizzazione e rielaborazione dei concetti trattati e del loro vissuto.

Esiste un notevole confronto tra detenuti e studenti; si mettono sul tavolo le proprie esperienze e il dibattito avviene in modo diretto, disinvolto e senza filtri, dato dalla voglia di condividere il proprio vissuto e far sì che questo diventi un’importante occasione di riflessione.

Nella prima parte del mio tirocinio, con il gruppo del carcere di Bollate è stato molto discusso il tema dell’autorità e da parte di un detenuto è stato proposto di preparare un’intervista da fare ai propri compagni al fine di esplorare il modo in cui questi vivono il rapporto con le autorità e cosa realmente sia per loro l’autorità. E’ stata una ricerca molto interessante in quanto mi ha dato modo di indagare i diversi modi in cui il detenuto vive la sua esperienza di detenzione e il rapporto con le figure che lo circondano.

Inoltre, in questa occasione ho potuto indagare le modalità di svolgimento di un’intervista, grazie anche al contributo della prof.ssa Nuccia Pessina, la quale ha preparato prototipi di domande, e ha condotto diverse interviste fatte a coppia con detenuti, ad altri detenuti, cercando di “scavare a fondo” nel loro vissuto, con domande sempre più dettagliate, soprattutto se le risposte non appagavano la sua “curiosità”. È stato un momento di arricchimento poiché sono emerse diverse reazioni che mi hanno permesso di osservare personalità e svariati modi di rispondere alle domande.

Un’altra importante parte del tirocinio è stata dedicata al tema della tossicodipendenza. Il tema è stato affrontato sotto diversi aspetti (scelta, conflitto, potere) e il Professor Aparo ha richiesto ai tirocinanti e ai detenuti di scrivere riflessioni e fare ricerche riguardo all’argomento, al fine di realizzare un convegno (che avrà luogo a giugno) a cui parteciperanno diverse figure professionali, per discutere del problema della tossicodipendenza, forse ancora troppo poco esplorato..

Il Gruppo della Trasgressione è ampiamente “volto all’esterno”, ossia finalizzato a far conoscere il lavoro svolto e il percorso di detenuti ed ex detenuti nei vari contesti della società. Organizza concerti, convegni e testimonianze aperte al pubblico e alle autorità, al fine di diffondere il lavoro di crescita che il detenuto compie grazie alle attività suddette.

 

Presenza di un coordinatore/supervisore e modalità di verifica/valutazione delle attività svolte

 Il Gruppo della Trasgressione è stato fondato ed è ancora oggi coordinato dal Professor Angelo Aparo, nonché tutor del mio percorso di tirocinio, che ha saputo spronarmi ad essere riflessiva, a pormi domande e a non essere presuntuosa con me stessa. In alcuni momenti, soprattutto all’inizio è stata una “lotta”: vivevo le sue domande come una “presa di mira”, mi sentivo sempre sotto esame, vivevo male la partecipazione agli incontri e non capivo perché si ostinasse tanto ad infierire con le sue richieste anche quando era evidente che l’ansia di parlare davanti ad un gruppo di persone, mi impediva di esprimere pensieri sensati. Tuttavia dopo una serie di “scontri” ho iniziato ad avere più fiducia in me stessa e nei miei pensieri e il mio impegno è stato riconosciuto. Penso che nonostante la personalità un po’ particolare, il Professor Aparo è stata un’ottima guida e un punto di riferimento in tutto il mio percorso.

 

Conoscenze acquisite (generali, professionali, di processo, organizzative)

L’attività di tirocinio che ho svolto mi ha dato l’opportunità di accostarmi a un contesto che mi ha sempre incuriosito e in cui mi piacerebbe lavorare in futuro. Il confronto con detenuti o ex detenuti al gruppo esterno e, in particolare, la partecipazione e il contatto con i detenuti del Carcere di Bollate mi ha permesso di conoscere sia le pratiche tecniche che riguardano il detenuto sia gli aspetti più delicati ed intimi della sua vita.

L’insicurezza mi ha molte volte impedito di esprimere il mio pensiero su quanto veniva trattato agli incontri, tuttavia questo non mi ha trattenuta dal pensare individualmente su quanto veniva riportato. Sono stati spesso espressi pensieri o raccontate esperienze che mi hanno colpita profondamente. A volte ho sofferto, e credo che ogni parola detta sia stata per me motivo di crescita, di riflessione, di rielaborazione delle mie idee sulle persone detenute.

 

Abilità acquisite (tecniche, operative, trasversali)

Al primo colloquio con una psicologa del gruppo, la dott.ssa Silvia Casanova, mi era stato consigliato di partecipare agli incontri del gruppo di Bollate in quanto contesto più affine con il lavoro futuro che vorrei svolgere (lavoro d’équipe). Benché non abbia potuto constatare da vicino quali mansioni svolge una psicologa all’interno del contesto carcerario, ho avuto modo di seguire come si svolge il lavoro di gruppo con tutte le sue implicazioni: saper ascoltare, aspettare il proprio turno per prendere la parola, interagire, essere presenti ed interessati.

A me personalmente piace molto osservare (più che parlare) e sicuramente la presenza e la partecipazione di tante persone al gruppo mi ha consentito di osservare diversi modi di esporre i propri pensieri, di muoversi, di guardare. Nonostante le mie resistenze iniziali, grazie a questa esperienza, sono riuscita ad andare oltre il reato commesso e ad avvicinarmi alla persona in quanto tale. Ho anche imparato che un sorriso, un piccolo gesto o una parola di conforto non sono mai sprecati.

 

Caratteristiche personali sviluppate

All’interno del gruppo mi sono confrontata con una realtà per me nuova. Ho cercato di superare le mie diffidenze e resistenze, aprendomi al rapporto con gli altri membri del gruppo, anche se non è stato facile. Caratteristiche che mi appartengono sono la capacità osservativa e il saper ascoltare; la partecipazione al gruppo ha consentito di accrescere e migliorare questi due aspetti, seguiti naturalmente dalla mia meditazione e rielaborazione individuale.

Lo stato di empatia che si è creato in molte situazioni, ascoltando i trascorsi e le storie di vita delle persone, mi ha concesso di scoprire il mio lato fragile. La potenza con cui le parole a volte riescono ad entrarti dentro non possono lasciarti indifferente e inevitabilmente affiorano sfumature del tuo carattere che magari tendi a tenere nascoste.

 

Altre eventuali considerazioni personali

Non è stato facile! La difficoltà più grande è stata poter condividere con pochi quello che stavo vivendo, o quello che provavo dopo gli incontri. Purtroppo intorno a me ho trovato persone che quando dicevo che stavo svolgendo il tirocinio in carcere rispondevano con: “Quelli hanno sbagliato ed è giusto che stiano li.” Quindi ho un po’ perso la voglia di comunicare con chi non vuole sentire ragioni e ho capito che superare un limite mentale è difficile, soprattutto se non conosci e non ti avvicini a un mondo che dai per scontato.

Gli argomenti trattati al gruppo spesso mi hanno impedito di esprimere la mia opinione, non perché non mi piacessero, ma perché spesso avvertivo la sensazione che il mio pensiero sarebbe stato nettamente inferiore a quello espresso da un detenuto o da qualche membro che fa parte del gruppo da più tempo rispetto a me. Posso dire tuttavia che questo tirocinio mi ha permesso di riflettere su temi e questioni cui non avevo mai pensato o semplicemente davo per scontati. E invece ho imparato a pormi delle domande. E’ stata un’esperienza utile e di arricchimento innanzitutto per la mia persona, oltre che per la mia formazione.

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Il convegno sulla tossicodipendenza

Cari compagni di ricerca sulla tossicodipendenza,
le difficoltà che incontriamo nell’individuare i confini del campo, i collegamenti che andiamo scoprendo con esperienze e patologie diverse dalla tossicodipendenza mi motivano ogni giorno di più verso l’avventura che abbiamo iniziato. Le aree del convegno sulla tossicodipendenza, come abbiamo detto, verranno definite strada facendo; gli obiettivi dell’iniziativa già partita e che, se tutto va bene, dovrebbe concludersi col convegno di giugno, mi sono chiari da tempo:

  • promuovere una camera di gestazione capace di attivare riflessioni e ipotesi sulle cause, sugli sviluppi e sulle cure della dipendenza che reggano alle osservazioni di chi questa realtà ha vissuto, ha sofferto, ha costruito con le proprie mani;
  • attivare e consolidare, intanto che i detenuti parlano con gli operatori come stiamo facendo in questo periodo, un rapporto fra paziente e terapeuta tale da favorire una effettiva, duratura e sentita alleanza contro la schiavitù della droga (cosa ben diversa da quanto avviene nella relazione tradizionale fra detenuto e operatore penitenziario);
  • alimentare, fra i componenti del gruppo, intanto che il tossicodipendente diventa protagonista attivo dell’indagine, il piacere e l’orgoglio di far parte di una squadra dove detenuti, studenti e operatori si dedicano insieme allo studio del problema;
  • coltivare un fermento che sia utile alla formazione degli studenti tirocinanti, alla implementazione delle competenze degli operatori e, soprattutto, a stuzzicare, nutrire e fare circolare fra i detenuti ricordi, emozioni, relazioni che li motivino a ribellarsi alla perversa relazione fra “burattino e burattinaio”.

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Letteratura, punizione e vergogna

Ascoltare le testimonianze dei tossicodipendenti mi ha ricordato il romanzo di Stevenson “Lo strano caso del Dr. Jekyll e del Sig. Hyde”
Nel romanzo, un rispettabile dottore della Londra benestante di fine secolo XIX inizia ad assumere una sostanza a titolo sperimentale, per vedere “l’effetto che fa”, come scherzosamente recita una popolare canzone di Jannacci e molto più macabramente la cronaca dei giorni scorsi sul delitto Varani a Roma.

Ma, iniziata per essere studiata scientificamente, l’assunzione della sostanza sfugge di mano al dottor Jekyll, che a un certo punto, anche senza più volerlo, si trasforma nell’essere ripugnante e senza freni morali che la sostanza risveglia in lui. Ciò lo porterà alla morte, ma ancor prima all’abdicazione di sé.

Il romanzo viene scritto in epoca vittoriana, in cui la moralità viene perseguita ad ogni costo fino a diventare un’ossessione, al punto da rivestire tavoli e sedie fino a terra in quanto le gambe degli stessi potevano essere percepite come simboli fallici. La rigidità delle regole cui attenersi genera una pressione tale da suscitare insofferenza e stimolare il desiderio di trasgredire e di vivere più liberamente. Il personaggio simbolo di tale moralità è mister Utterson, il legale, uomo ligio e ordinato per eccellenza, ma non privo di tentazioni cui talvolta indulge.

Le due anime che albergano nel dottore, Jekyll e Hyde, sono entrambe percepite come trasgressive dal perbenismo della società vittoriana. Infatti, anche il dottor Jekyll ha impulsi trasgressivi, pur se il più delle volte tenuti a freno.

Uno degli aspetti salienti, nel romanzo, è che la trasgressione viene messa in atto da uno scienziato, a scopo di studio. E non è un aspetto da poco, perché ben rappresenta il dibattito culturale che la diffusione del Positivismo aveva generato nella seconda metà del XIX secolo. Alcuni intellettuali, attribuendo alla scienza un primato culturale che fino a pochi anni prima era stato esclusivo appannaggio di una cultura religiosa e dogmatica e sui cui paradigmi si erano modellate la società e la morale vigente, si attirano le critiche di coloro che sono rimasti ancorati a una cultura tradizionale e che ritengono che la scienza non debba superare certi limiti, pena una punizione esemplare. Lo scienziato Jekyll, osando una sperimentazione oltre i limiti considerati consentiti, muore.

Su che cosa induce a riflettere il romanzo di Stevenson?

  1. Sul fatto che in ogni uomo ci sono componenti buone e cattive. La legge e la morale hanno il compito di tenerle a freno.
  2. Sul fatto che dare spazio alle componenti cattive può instaurare un meccanismo di progressivo potenziamento delle stesse a scapito delle buone, rompendo in modo irreversibile (?) l’equilibrio.
  3. Sul fatto che la caduta dei freni inibitori ad opera di strane sostanze libera nell’uomo comportamenti ancestrali senza che ci siano motivi o giustificazioni per metterli in atto. E così si assapora la crudeltà di un delitto completamente gratuito. E poi di nuovo. E poi ancora, e ancora.
  4. Sul fatto che i valori o i disvalori della cultura dominante svolgono un ruolo primario nell’indirizzare i comportamenti dell’essere umano, soprattutto se ancora giovane e in formazione.

Che cosa ricavare da queste riflessioni?
Comincerei col dire che le problematiche sollevate da Stevenson mantengono inalterata la loro validità anche ai giorni nostri. Alla luce delle testimonianze dei tossicodipendenti, pare che dare spazio al male effettivamente riduce spazio al bene e porta al potenziamento dell’uno e all’indebolimento dell’altro.

L’altra riflessione importante riguarda i freni di cui la società si serve per favorire un’armoniosa convivenza: la morale e la legge. Entrambe funzionano se, almeno in parte, vengono sollecitate da un’emozione umana di cui ultimamente si parla assai poco: la vergogna.

Che fine ha fatto la vergogna? Quella che dopo il morso al frutto proibito ha spinto Adamo ed Eva a coprirsi, loro che erano sempre stati beatamente nudi? Senza provare vergogna si può smettere un comportamento malvagio? E mi viene da pensare che, forse, il peccato originale sia importante non solo per la pretesa dell’uomo di divenire uguale a Dio appropriandosi della conoscenza, ma per insegnare che alla trasgressione fa seguito la vergogna. Oggigiorno non siamo più nell’Eden (ci siamo mai stati?), di trasgressioni se ne commettono tante ma non si sente parlare di vergogna. Perché non se ne parla? Perché la si cela o perché non la si prova? Credo che se la risposta fosse quest’ultima il genere umano avrebbe un problema.

L’altra direzione presa dalle mie riflessioni riguarda la punizione.
In molte testimonianze si legge che l’essere stati arrestati ha reso possibile un inizio di percorso di salvezza. Allora ciò che manca oggigiorno alla nostra società è la capacità di punire la mancanza commessa, nei tempi e nei modi adeguati.

La punizione è un argomento rovente. Ricordo molto bene che a scuola durante una discussione con gli allievi di una quarta (17 anni circa) a seguito delle lamentele dei docenti del consiglio di classe per un comportamento inappropriato durante la proiezione di un film nell’auditorium comunale, mi sono sentita chiedere: perché non ci punite?

Dunque è l’essere umano in formazione che sente la necessità di essere punito. Dunque è vero che porre delle asticelle da non superare serve, e che se vengono superate è opportuno punire. Se non si punisce, il livello della trasgressione aumenta e diventa incontrollabile, deleterio sia per l’individuo che per la società. Nella nostra società la certezza della pena è una chimera, nel nostro sistema scolastico la punizione non è usata o è usata in modo inappropriato, in famiglia sempre meno spesso accade che i genitori insegnino ai figli a far fronte alle proprie responsabilità e che li puniscano quando i loro comportamenti lo richiedano.

Anni di insegnamento hanno generato domande cui non è facile dare una risposta. Però ho maturato la ferma convinzione che un giovane in formazione ha bisogno, anche se non lo sa, di un punto di riferimento, di una figura con cui scontrarsi per scoprire se stesso, di una guida che lo aiuti a… rendere gli orizzonti meno vaghi, a individuare mete credibili raggiungibili con vie lineari e non contorte, a scegliere ideali che non si rivelino illusioni antiche e non risolte, a ricercare piaceri che non si riducano solo a gioie corte. A volte, quando si è giovani, tutto questo da soli non si riesce a farlo.

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