La piccola tigre

Storia della piccola tigre

La piccola tigre aveva delle regole.

Una notte i suoi genitori le dissero “Puoi andare ovunque tu voglia ma non avvicinarti mai al precipizio perché potresti cadere”.

Una notte lei si avvicinò perché più si avvicinava più cose sentiva, più cose vedeva.

Un giorno lei cadde e volò nel Domani.

Beatrice Cauzzi, anni 8

Officina creativa

 

Lettera al mio corpo

Ti ho maltrattato in passato. Ti ho negato il cibo quando avevi fame e te ne ho dato troppo quando non ne avevi bisogno. Mi sono vergognata di te, ti ho nascosto e non so ancora per quale motivo. Pensavo solo alla tua funzione estetica e non mi rendevo conto del male che ti stavo infliggendo.
Solo ora, con tutto il dolore che grazie a te riesco a superare, capisco quanto tu sia straordinario:
Grazie perché la mattina riesco a svegliarmi.
Grazie perché nonostante tutto sono ancora in piedi.
Grazie perché, anche se ti ho odiato, ci sei sempre stato.
Grazie perché, anche se qualche volta ti do la colpa per quello che mi succede, mi permetti di vivere.

 


La colonna rotta di Frida Kahlo

Un buco sulla pancia. Poi tre. Poi quattro e così via. La bocca che fa male, la gola gonfia che brucia e non mi permette di deglutire nemmeno la mia stessa saliva. Le mani gonfie, le vene rotte, i lividi sulle braccia. Il telefono sul comodino che non ho la forza di prendere. Non ho voglia di rispondere a tutti i “come stai?” degli amici e dei familiari preoccupati. Non ho voglia di ripetere altre mille volte quanto sto male. Non ho voglia di far preoccupare mia mamma che ha quella brutta abitudine di soffrire più di me quando sto male.

Ogni tanto penso a Frida Kahlo perché lei ha passato gran parte della sua vita a soffrire fisicamente, era malata e ha avuto un grave incidente. Nonostante tutto la sua produzione artistica fu molto prolifica e forse nacque anche dalla sofferenza.

Gloria Marchesi

Officina Creativa

Silvio Di Gregorio

Silvio Di Gregorio – Intervista sulla creatività

Silvio Di Gregorio è il direttore della Casa di Reclusione di Milano Opera e, come previsto dal ruolo che ricopre, si occupa di esecuzione della pena e di reinserimento sociale dei condannati. Quest’ultimo aspetto, quello relativo al reinserimento sociale, gli è molto caro. Secondo il suo punto di vista, il carcere non deve essere concepito come un mero luogo di contenimento di chi ha sbagliato. Al contrario, deve essere uno spazio di crescita e di evoluzione costante in cui cercare e creare le possibilità per far sì che le persone decidano consapevolmente di cambiare il proprio modo di vivere.

Su Wikipedia si può leggere che all’interno del Carcere di Opera esistono molteplici attività creative messe a disposizione dei condannati: Leggere libera-mente, progetto di lettura e di poesia; Opera Liquida, compagnia teatrale che lavora all’interno del carcere; Il Gruppo della Trasgressione, composto da detenuti, ex detenuti, studenti e liberi cittadini che svolgono svariati progetti, tra cui il Progetto Scuole, in cui i detenuti diventano agenti di prevenzione del bullismo e della tossicodipendenza nelle scuole milanesi, la rappresentazione del Mito di Sisifo, i concerti della Trsg.band e la bancarella di Frutta & Cultura.

 

Anita: che cos’è per lei la creatività?

Silvio Di Gregorio: la creatività si sviluppa nel momento in cui si mette in campo tutto ciò che può essere utile per il raggiungimento di un obiettivo attraverso strade non consuete e prestabilite a priori. È importante notare come nella creatività non si debbano necessariamente rispettare schemi rigidi, altrimenti si parlerebbe di adattamento alla realtà che ci circonda. Se ci si riferisce alla creatività, invece, si deve mettere in conto che tutto ciò che appartiene al mondo circostante può essere utilizzato per raggiungere un obiettivo.

All’interno del ruolo che ricopro, credo che la creatività trovi ampio respiro poiché devo sempre reinventare un modo nuovo per permettere a chi ha sbagliato di evolversi. Se infatti partiamo dal presupposto che ogni persona è a sé stante ed ha personalità, potenzialità e vissuti diversi dagli altri, comprendiamo che le possibilità di cambiamento che il carcere offre devono essere diverse per ogni detenuto. Ogni giorno vanno inventati modi diversi per toccare le corde giuste del detenuto e per permettergli di trovare la volontà di riscatto personale e la voglia di produrre pensieri e comportamenti che siano in linea con il vivere civile.

 

Elisabetta: cosa fa scattare, come si sviluppa la creatività e in quali condizioni?

Silvio Di Gregorio: credo che la creatività nasca dalla volontà di stupire gli altri e di stupirsi. Prende avvio da un desiderio di ricerca di una strada nuova, non ancora esplorata e che consente di realizzarsi in maniera più gratificante rispetto alla soddisfazione che deriva dal rispetto di stereotipi. La condizione da cui prende avvio la creatività probabilmente è la volontà di superamento di un limite, il quale però viene inserito all’interno di un orizzonte molto più ampio a cui il soggetto aspira.

 

Anita: quali immagini possono ben rappresentare l’atto creativo?

Silvio Di Gregorio: questa domanda mi permette di parlare di un progetto che abbiamo svolto di recente qui nel carcere di Opera. Da più di un anno e mezzo, tutto il pianeta subisce le conseguenze negative dovute alla pandemia e il mondo carcerario, esattamente come ogni altra organizzazione ed istituzione della nostra società, è stato messo a dura prova. In questi ultimi mesi io, i miei collaboratori e i detenuti abbiamo visto crollare tutte le nostre poche certezze. È mutato il modo di vivere e di sperimentare le relazioni, ancor di più all’interno di un carcere in cui, per un lungo periodo, non è stato più possibile far entrare nessuna figura educativa né tantomeno i famigliari dei reclusi.

Il progetto nasce dal bisogno di trovare un nuovo punto di riferimento che ci potesse guidare, una specie di faro nella notte, il quale ci potesse dare la forza per non abbatterci e perseguire per la realizzazione della nostra missione. In linea con questa idea, abbiamo cercato un’opera d’arte che potesse sostenerci nel raggiungimento dei nostri obiettivi e questo prodotto creativo è l’Ultima Cena di Leonardo Da Vinci, appesa all’ingresso della direzione.

L’ultima cena, Leonardo da Vinci

Ecco credo che quest’opera possa essere ben rappresentativa anche del concetto d creatività. Il quadro raffigura un tavolo intorno al quale ci sono già dei commensali. Le persone sedute al tavolo non rispondono agli stereotipi della collettività dell’epoca a cui il quadro si riferisce, ovvero 2000 anni fa. Ci si aspetterebbe di vedere personaggi prestigiosi; al contrario, qui sono rappresentate persone comuni, che per di più stanno programmando e realizzando un progetto religioso e di vita veramente inusuale, basato su una visione nuova del mondo che, a distanza di 2000 anni, risulta essere ancora ben radicata nel pensiero collettivo.

Oltre che su questo aspetto rivoluzionario, ci siamo concentrati anche sul fatto che solo i posti al di là del tavolo sono occupati, ma potenzialmente si potrebbero aggiungere altre sedie per fare sedere più persone. Io, i miei collaboratori e i detenuti ci sentiamo tutti rappresentati dai commensali già seduti, ma siamo ben felici di accogliere la collettività esterna e di farla sedere con noi al tavolo della creatività.

Sedersi ad un tavolo e cibarsi è una delle azioni più naturali dell’essere umano, durante la quale egli, spinto dal clima di convivialità, gratificazione e piacere, è libero di esprimere la sua personalità e di comportarsi in maniera spontanea. Quindi, far sedere allo stesso tavolo collaboratori, detenuti e collettività esterna, implica la creazione di uno spazio in cui ognuno, proprio in funzione del fatto che si comporta in maniera naturale, crea un legame profondo con gli altri commensali.

Questo incontro profondo di anime e di pensieri permette di conoscere, laddove ci fossero, le reali intenzioni di cambiamento del detenuto, e crea la condizione necessaria per fare in modo che gli vengano offerte delle possibilità di evoluzione concrete. È necessario far sedere a questo tavolo anche la collettività esterna in quanto, la volontà del detenuto di intraprendere un percorso di introspezione e di rielaborazione di tutti i suoi vissuti, è sicuramente una condizione necessaria, ma non sufficiente nel caso in cui la società non sia grado di accettare un cittadino nuovo.

Quindi, dal nostro punto di vista, quest’opera d’arte rappresenta bene la creatività poiché tutti, detenuti, amministrazione e comunità esterna si siedono al tavolo, portano il loro contributo e, dall’incontro delle nostre idee e competenze, nasce un progetto nuovo, talvolta rivoluzionario ed inevitabilmente creativo.

 

Elisabetta: che conseguenze ha l’atto creativo nel rapporto con se stessi e con gli altri?

Silvio Di Gregorio: l’atto creativo stravolge l’immagine della propria persona, sia nel rapporto con se stessi sia con gli altri. Nel rapporto con se stessi permette un arricchimento di carattere personale, consolida la propria autostima, fornisce una percezione di utilità della propria vita e afferma l’immagine di sé. Anche nel rapporto con gli altri la creatività costituisce una possibilità di evoluzione e di crescita personale. Questo perché, quando noi entriamo in relazione con un altro essere umano che è creativo, innovativo e portatore di una ricchezza, veniamo messi nella condizione di potere arricchire anche la nostra persona e lo stesso rapporto con l’Altro.

 

Anita: quanto è importante il riconoscimento degli altri per l’artista?

Silvio Di Gregorio: l’artista ha una responsabilità molto importante in quanto, proprio perché opera ed agisce nell’area di tutto ciò che viene considerato esteticamente bello, è destinato a toccare le corde più delicate dell’essere umano, gli anfratti più profondi che fanno vibrare l’anima delle persone. Quindi l’artista non deve solamente realizzare un prodotto accettabile e comprensibile, ma ha anche la responsabilità di dare vita a qualcosa che sia in grado di colpire nel profondo lo spettatore. Quando il creativo riesce a portare a termine questo compito e a suscitare nel pubblico una reazione di stupore, vive egli stesso una sensazione di appagamento che nutre la sua creatività e gli permette di iniziare un altro progetto creativo.

 

Elisabetta: Esiste un modo ideale di fruire del prodotto creativo e chi sono i suoi principali fruitori?

Silvio Di Gregorio: Io non penso che ci sia un modo ideale da seguire per interpretare un atto creativo. Se un prodotto è creativo e deve stimolare la fantasia delle persone non è possibile spiegare le funzioni della creatività come se fossero istruzioni per l’uso. La creatività è destinata a toccare ogni singola persona in modo diverso, un po’ come un trattamento: l’artista ci mette il suo ma anche chi si accosta all’opera d’arte deve metterci la volontà di lasciarsi stupire e coinvolgere. Di conseguenza credo che chiunque possa essere destinatario dell’atto creativo.

 

Anita: La creatività ha o può avere una funzione sociale e, se sì, quale?

Silvio Di Gregorio: Certamente, la creatività ha il compito di ispirare le azioni umane e di spronare le persone ad emulare ciò che è stato visto. La creatività, soprattutto nel campo dell’arte, stimola le persone a spingersi oltre i limiti di quelle che sono le proprie conoscenze ed è un modo per spostare l’asticella sempre più lontano, sia nell’arte che nella cultura generale.

 

Elisabetta: Parliamo dell’atto creativo nelle diverse età. Cosa è per il bambino, per l’adolescente, per la persona adulta?

Silvio Di Gregorio: Io credo che l’elemento che accomuna tutte e tre le fasi sia lo stupore, che è molto evidente nel bambino e meno nell’adulto. Probabilmente se anche l’adulto riuscisse a mantenere vivo il bambino che è in lui e quindi a utilizzare la voglia di scoperta del bambino durante le sue fasi di crescita, potrebbe riuscire a mantenere alta la capacità di stupirsi e di inventare.

 

Anita: e in che modo può incidere nelle relazioni sociali del soggetto?

Silvio Di Gregorio: Approcciarsi a ogni relazione con lo stupore e con la voglia di conoscere, di apprendere è un atteggiamento molto positivo e denota apertura nella relazione con l’altro. Sottolineerei che lo stupore e la voglia di apertura permettono un approccio migliore nel relazionarsi con gli altri e l’arricchimento della relazione stessa.

 

Elisabetta: La creatività è un dono naturale privilegio di pochi o si tratta di una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

Silvio Di Gregorio: Credo che la creatività sia qualcosa che appartiene a tutti, ma necessita di essere allenata come tutte le altre doti e virtù umane. Nell’adulto forse questo senso innato deve essere riscoperto perché molto spesso lascia il posto ad altri tipi di filtro che possono essere la ragione, l’esperienza, la delusione e via discorrendo. La creatività è una dote che ognuno di noi ha e che può essere coltivata e accresciuta attraverso l’allenamento.

 

Anita: A scuola che ruolo e quali effetti potrebbero avere delle ore dedicate alla creatività?

Silvio Di Gregorio: La scuola offre momenti di creatività, soprattutto nei confronti dei più giovani, arricchendo la cultura generale e permettendo di ampliare i propri orizzonti. Non penso che debbano essere dati periodi di tempo aggiuntivi, piuttosto la scuola dev’essere in grado di far percepire agli allievi che attraverso i processi di apprendimento è possibile aumentare la propria creatività. Lo studio deve essere un momento che arricchisce perché offre degli spunti di riflessione che ognuno ha poi il compito di rielaborare.

 

Elisabetta: Pensa che la creatività possa avere un ruolo utile nelle attività di recupero del condannato?

Silvio Di Gregorio: Sicuramente, senza creatività non si va da nessuna parte. Sarebbe riduttivo pensare di poter catalogare una persona attraverso caratteristiche fisiche o comportamentali. Attraverso la creatività, infatti, l’uomo si scopre continuamente e ha la possibilità di interrogarsi su se stesso. Non si può definire un’attività più creativa di un’altra, ogni cosa che si fa è creativa. La vita offre in ogni occasione opportunità di crescita e di miglioramento personale continuo: se una persona affrontasse la propria esistenza nell’ottica di migliorarsi probabilmente si arricchirebbe ogni giorno.

 

Intervista ed elaborazione di
Anita Saccani ed Elisabetta Vanzini

 Silvio Di GregorioInterviste sulla creatività

La bancarella di Viale Papiniano

Sabato 19-06-2021 – Milano

Alice Viola

Adriano Sannino, Maddalena Baù

Adriano Sannino, Alice Viola, Anita Saccani, Elisabetta Vanzini, Roberto Cannavò, Arianna Picco,

Adriano, Alice, Anita, Elisabetta, Roberto, Arianna, Khaled Al Waki

Adriano, Arianna, Elisabetta, Angelo Aparo, Alice, Roberto Cannavò, Anita Saccani

Adriano Sannino, Alice Viola, Arianna Picco, Roberto Cannavò, Elisabetta Vanzini

Fabrizio D’Angelo

Fabrizio D’Angelo – Intervista sulla creatività

Fabrizio D’Angelo è consigliere di Municipio 5 a Milano e, all’interno di questa carica, svolge anche il ruolo di presidente della commissione per la gestione dei rapporti istituzionali tra il municipio stesso e gli istituti di pena presenti sul territorio milanese.

 

Elisabetta: cos’è la creatività?

Fabrizio D’Angelo: Parto da una premessa: L’essenza dell’uomo è costituita da due entità opposte, due facce della stessa medaglia potremmo dire: un lato razionale e uno creativo. In alcuni individui prevale l’aspetto più legato al raziocinio, altri invece si esprimono maggiormente secondo il lato creativo. Dei due tratti innati dell’essere umano, la creatività è quello che lo spinge e lo stimola a costruire, creare e comporre elementi che trova nella realtà. Lo scopo di questa azione creativa è il miglioramento della realtà che ci circonda, così da renderla più confacente alle nostre esigenze.

 

Arianna: cosa fa scattare, come si sviluppa la creatività e in quali condizioni?

Fabrizio D’Angelo: Credo che le condizioni che permettono l’espressione della creatività siano da ricondurre a un generale stato di insoddisfazione, curiosità e voglia di migliorare la propria persona e di crescere sempre. Quando è presente questo stato di insoddisfazione, l’uomo analizza ciò che ha intorno, si ingegna, e da qui cerca di realizzare tutti i prodotti creativi possibili, siano essi immaginari o concreti, con lo scopo ultimo di ottenerne giovamento e per godere del risultato finale. Credo che questo valga quando si tratta di un’opera, un disegno, una scultura, ma anche della realizzazione di un gruppo che si unisce per coltivare gli interessi della collettività o i propri.

D’altra parte, la creatività si contrappone alla spinta alla distruzione. A partire da quest’ultima, non può nascere un prodotto positivo e utile, e in questo senso si può dire che la distruttività esprime il senso negativo delle cose e dei fenomeni.

 

Elisabetta: quali immagini possono ben rappresentare l’atto creativo?

Fabrizio D’Angelo: trovo che sia molto difficile per me, individuo maggiormente legato al lato raziocinante, trovare un’immagine che possa ben calzare con l’atto creativo. Comunque, l’atto creativo mi fa pensare a qualcosa che nasce dall’unione e dalla composizione di tutti gli elementi che, secondo l’autore, sono necessari per raggiungere il risultato finale. In concreto, mi immagino la tela bianca di un quadro che, man mano che il creativo procede, si riempie dei colori e delle immagini che egli vuole comporre, fino a raggiungere la raffigurazione finale che si era prefissato.

 

Arianna: che conseguenze può avere l’atto creativo nel rapporto con se stessi e con gli altri?

Fabrizio D’Angelo: dato che la creatività nasce da uno stato di insoddisfazione, una volta che l’autore realizza il suo atto creativo vive una sensazione di appagamento, di soddisfazione e di piacere e, di conseguenza, si sente in pace con gli altri e con il mondo che lo circonda. Tale pace interiore deriva dal fatto che si è riusciti a raggiungere l’obiettivo che ci si era prefissati, lasciando la propria creatività libera di esprimersi.

Sicuramente si può creare anche all’interno di un percorso caratterizzato da regole che vanno rispettate e da un percorso a priori prestabilito. Tuttavia, quello che ne consegue sarà solo un benessere relativo, in quanto derivante da un contesto in cui l’autore non ha avuto modo di esprimere tutto il suo estro creativo e ha dovuto rispettare ciò che gli altri gli hanno imposto di fare.

 

Elisabetta: quanto è importante il riconoscimento degli altri per l’artista?

Fabrizio D’Angelo: il riconoscimento degli altri è fondamentale, in quanto l’arte fine a se stessa è sterile. Sicuramente la creazione di un’opera creativa soddisfa il suo autore ma è una fonte di appagamento non profondo come potrebbe esserlo quando c’è anche il riconoscimento degli altri.

 

Arianna: esiste un modo ideale di fruire del prodotto creativo e chi sono i suoi principali destinatari?

Fabrizio D’Angelo: è il creatore che decide il modo ideale di fruire del prodotto creativo. È egli stesso a stabilire il modo in cui si utilizza l’oggetto da lui creato.

Inoltre, l’autore ha anche il dovere di educare alla comprensione e all’apprezzamento dell’opera il pubblico che ne fruirà. Pensiamo ad esempio ai Promessi Sposi. Il messaggio che l’opera tramanda e le varie identità dei personaggi sono stati stabiliti da Manzoni. Vero è che il lettore può dare in minima parte una sua interpretazione personale, ma fino ad un certo punto, in quanto l’identità, la personalità e le vicende dei personaggi sono già state date dall’autore.

Anche i destinatari del prodotto creativo vengono individuati dal creatore stesso. Egli assegna una funzione alla sua opera e, in conseguenza ad essa, vengono definiti anche i destinatari.

Tuttavia, non tutti siamo nella condizione di poter apprezzare un’opera creativa, che sia un dipinto o un ponte. Per esempio, io fruisco del ponte ma, non avendo conoscenze che mi permettano di apprezzare l’opera ingegneristica che vi è alla base, ne fruisco da mero utilizzatore. L’utilità del ponte, quindi, termina nel momento stesso in cui esso viene utilizzato. La responsabilità della persona che crea è anche quella di educare i destinatari all’utilizzo, alla comprensione e all’apprezzamento della sua opera.

 

Elisabetta: la creatività ha o può avere una funzione sociale e, se sì, quale?

Fabrizio D’Angelo: sicuramente la creatività ha una funzione ed è quella di aiutare a comprendere meglio e ad organizzare la società. Avere in mente un progetto o un’idea è già esso stesso un atto creativo. Senza la creatività, noi esseri umani non avremmo modo di immaginare e di comprendere come è organizzata la nostra società e come si dovrebbe svolgere la nostra vita dalla mattina alla sera, all’interno del contesto che condividiamo con altre persone.

Questo concetto può poi essere ristretto ai campi più specifici dell’arte. Pensiamo alle arti figurative: il fatto di essere appassionati alla pittura permette di avere una visione e un pensiero su di essa, ed è proprio questa visione che rappresenta l’atto creativo vissuto interiormente dalla persona.

 

Arianna: parliamo dell’atto creativo nelle diverse età: cos’è per il bambino, per l’adolescente e per la persona adulta?

Fabrizio D’Angelo: nel bambino la creatività è assenza di regole, è essere sé stesso. Nell’adolescente è una lotta continua tra razionalità e creatività, è fare ciò che si sente e ciò che le regole gli impongono. Nell’adulto invece è scoprire chi realmente si è: se ho deciso di essere un creativo, un razionale, oppure né uno né l’altro e sconfino nel distruttivo e nell’irrazionale perché non creo né costruisco e non rispetto le regole della società.

 

Elisabetta: in che modo l’atto creativo può incidere nelle relazioni sociali del soggetto?

Fabrizio D’Angelo: In modo estremamente positivo. Ho contrapposto l’atto creativo alla distruzione. La distruzione affonda la sua logica nell’assenza del rispetto delle regole; il fondamento della distruzione è il disprezzo verso sé stessi, infatti se si distrugge, prima di ledere gli altri si lede sé stessi. La creatività presuppone che oltre ad avere l’idea, si abbia la forza di metterla in atto; inoltre, la creatività è rispetto delle regole. Se si ha coscienza dell’impegno che presuppone l’atto creativo non è possibile non avere rispetto per la creatività degli altri: l’elemento fondamentale della società è il rispetto degli altri perché si ha la percezione dell’altro, del suo impegno e delle sue capacità.

 

Arianna: la creatività è un dono naturale privilegio di pochi o si tratta di una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

Fabrizio D’Angelo: Io credo che alcune persone abbiano il dono naturale della creatività e in altre invece prevalga la parte razionale. Questo però non significa che non si possa diventare creativi, occorre crescita, educazione alla creatività.

Personalmente, cerco di portare avanti di pari passo il mio lato creativo con il mio lato razionale. Credo che l’obietivo fondamentale della nostra società sia stimolare l’arte e la creatività dentro di noi.

 

Elisabetta: a scuola che ruolo e quali effetti potrebbero avere delle ore dedicate alla creatività?

Fabrizio D’Angelo: la scuola oggi è solo un indottrinamento di concetti in versione sterile, con una prevalenza nelle verifiche di quiz che non danno la possibilità di esprimersi; questo soffoca la creatività, la capacità espressiva. Oggi la scuola è un atto amministrativo che non consegna un nuovo cittadino con una giusta percezione di sé e degli altri e con un’educazione artistica e civica. La scuola dovrebbe educare gli alunni ad apprezzare dell’arte, del bello e della creatività, al fine di favorire il progresso e lo sviluppo della società.

 

Arianna: pensa che la creatività possa avere un ruolo utile nelle attività di recupero del condannato?

Fabrizio D’Angelo: Il condannato ha compiuto un atto che va contro la società, non ha percepito il bene e ha leso il prossimo. Tornando al discorso che facevo poco fa, se una persona non ha voluto essere costruttiva, ha leso un bene ed è stata distruttiva, questo è avvenuto perché non aveva una sua percezione della creatività e il conseguente rispetto di sé stesso e degli altri; per questi motivi, penso che attraverso la creatività egli possa imparare a non ledere più a nessuno.

L’educazione alla creatività è un ottimo atto di prevenzione a monte (motivo per cui ripeto che occorrerebbe farla nelle scuole); è prevenzione ai nuovi delitti in cittadini che prendono consapevolezza di sé stessi e degli altri.

Intervista ed elaborazione di
Elisabetta Vanzini e Arianna Picco

Fabrizo D’Angelo FacebookInterviste sulla creatività

Alessandro Giungi

Alessandro Giungi – Intervista sulla creatività

Alessandro Giungi è Consigliere Comunale presso il Comune di Milano. Ha scritto un libro in cui racconta in modo ironico come poter fare una campagna elettorale con pochi mezzi e ci ha raccontato di come abbia sempre cercato di essere creativo nella sua azione politica.

Arianna: cosa fa scattare la creatività e in quali condizioni?

 Alessandro Giungi: non c’è una ricetta, occorre avere una propensione, una condizione innata, però questo non significa che chi non nasce con una dote creativa non possa poi fare una vita creativa; deve cercare il suo spazio creativo, che può anche trovare in una occupazione come la politica. Ognuno nel suo campo può essere creativo. La ripetitività toglie ogni tipo di bellezza a qualunque lavoro. Nessun tipo di lavoro può essere bello senza una dose di creatività.

 

Ottavia: le viene in mente un’immagine che possa rappresentare l’atto creativo?

 Alessandro Giungi: la lampadina che si accende: un momento in cui improvvisamente c’è un’illuminazione e si trova una soluzione grazie alla creatività. La creatività la vedo come un momento di illuminazione.

 

Arianna: che conseguenze può avere l’atto creativo nel rapporto con sé stessi e con gli altri?

 Alessandro Giungi: quello che si riesce a risolvere con creatività porta soddisfazione a sé stessi e permette di aprire nuove prospettive anche per altre persone. Intuizione e creatività viaggiano in parallelo e si intersecano: creatività è l’intuizione che ti permette di risolvere qualcosa che prima non era risolvibile. La creatività può nascere anche dal lavoro di squadra, come ad esempio nella politica: non è solo una qualità del singolo.

 

Ottavia: quanto è importante il riconoscimento degli altri per l’artista?

 Alessandro Giungi: è molto importante, il riconoscimento aiuta molto. Avere dall’altra parte un riscontro negativo o di indifferenza è brutto. La creatività deve comunicare qualcosa agli altri. Ci sono stati casi in cui persone creative sono state riconosciute a distanza di anni, ma sono casi eccezionali, io credo che sia importante il riconoscimento in vita da parte degli altri.

 

Arianna: esiste un modo ideale di fruire del prodotto creativo e chi sono i suoi principali destinatari?

 Alessandro Giungi: la creatività può essere anche qualcosa di personale, una persona può essere creativa anche nel proprio agire quotidiano. Del resto, l’opera creativa è negli occhi di chi la guarda. La creatività deve essere portata anche agli occhi delle altre persone. L’atto creativo viene portato a conoscenza di chi vuole leggere un libro, sentire una canzone. Io credo che anche i più grandi matematici siano stati persone creative: le formule matematiche hanno portato a PC, telefonini. Il singolo atto creativo può innescare una serie di passaggi che portano ad altri atti creativi.

 

Ottavia: la creatività può avere una funzione sociale?

 Alessandro Giungi: Certo. Sia dal punto di vista ludico che artistico: la persona che compone un’opera, un libro, risolve un problema sociale con creatività è fondamentale, sia nel caso in cui permette di risolvere problemi sia quando permette di vivere momenti piacevoli agli altri. In politica, ad esempio, si possono avere delle intuizioni creative da applicare alla società: ad esempio, ho avuto l’idea di applicare in Italia un’idea francese di un frigorifero solidale nei supermercati da cui le persone più bisognose possano prendere del cibo.

 

Arianna: Parliamo dell’atto creativo nelle diverse età. Cos’è per il bambino, per l’adolescente e per la persona adulta?

 Alessandro Giungi: L’atto creativo è trovare una soluzione che non era mai stata pensata e che si rivela efficace, quindi non riguarda necessariamente un prodotto materiale. Ad esempio, può essere la soluzione innovativa e creativa ideata da un bambino per risolvere un problema di matematica. Infatti, credo che le insegnanti assistano a diverse risposte creative da parte dei bambini. Per fare un esempio, alla richiesta di disegnare il mare, un bambino potrebbe non disegnare la solita striscia azzurra bensì un mare in tempesta, qualcosa di inusuale. Creatività significa non dare per scontato che la strada più facile e più seguita sia l’unica percorribile. Chi è creativo ha un’idea e segue una strada diversa.

Quando ero all’asilo, ci venne chiesto di disegnare, colorare e tagliare degli angeli e io ne feci uno con un braccio molto più lungo dell’altro: si trattava di un semplice errore ma veniva visto come un gesto creativo. La creatività è anche negli occhi di chi guarda ed è qualcosa di molto personale.

Sicuramente è diverso essere creativi per lavoro, credo sia più difficile e frustrante rispetto a chi lo fa per puro piacere. Anche la tesi è un atto creativo, la mia verteva sul diritto dell’Unione Europea. Infatti, all’epoca ci fu la sentenza Bosman sulla libera circolazione degli sportivi professionisti all’interno dell’Unione Europea. Ritengo sia stata una tesi creativa perché mi sono servito anche della Gazzetta dello Sport e di altri testi non convenzionali per parlare di questo tema. Ero felicissimo della mia tesi perché è stata una tesi creativa, cosa che è stata riconosciuta anche in sede di discussione. Penso che la tesi sia uno dei primi atti di creatività, come lo è anche la scelta del titolo. Sono occasioni di creatività anche i temi scolastici, in cui bisogna elaborare e scrivere una storia, e le attività sportive.

 

Ottavia: A scuola che ruolo e quali effetti potrebbero avere delle ore dedicate alla creatività?

 Alessandro Giungi: In qualità di vicepresidente della commissione Educazione, vi riporto un’iniziativa molto creativa avvenuta recentemente. Vicino alla scuola dei miei figli c’è un giardino con un’area giochi che, grazie a una mia richiesta, è stato riqualificato. A seguito delle attività di riqualifica, il giardino andava titolato, allora si è pensato, durante il lockdown, di fare un sondaggio per decidere a chi dedicare questa area giochi. È stato fatto il sondaggio per mail con tutti gli studenti della scuola media dando cinque possibilità e a vincere è stata la figura di Rosa Parks, nome che venne approvato in consiglio comunale. Sono stati fatti anche un murales dedicato a Rosa Parks e un filmato, atto che definirei sia creativo sia politico. L’atto creativo è stato quello di coinvolgere la scuola.

 

Arianna: Pensa che la creatività possa avere un ruolo utile nelle attività di recupero del condannato?

 Alessandro Giungi: Sono un avvocato e sono stato Presidente della Commissione Carceri quindi mi sento di precisare che l’attività di recupero del condannato dipende anche dal tipo di pena. Credo che la messa alla prova sia un istituto importante che ha visto un apporto creativo da parte del legislatore nella decisione che, in alcuni casi, si possa evitare il processo. Evita la condanna e porta a qualcosa di utile per la società. Per quanto riguarda invece i detenuti, ho visto attività come il teatro e la scrittura creativa. Non posso che essere entusiasta di un laboratorio di scrittura di poesia nelle tre carceri milanesi. Secondo me la messa alla prova e tutte le misure che non fanno andare in carcere sono importanti perché sono di aiuto e di supporto per l’elaborazione del reato.

Lo dice la Costituzione stessa che la pena deve avere una funzione rieducativa e il carcere non viene nemmeno citato. Affinché la pena sia educativa è necessario ricorrere anche alla creatività. Il detenuto va coinvolto. I lavori socialmente utili per persone che hanno guidato in stato di ebrezza mettono in contatto con dei mondi che altrimenti non conoscerebbero, come i tossicodipendenti. Credo che le misure alternative al carcere siano utili per prevenire la recidiva. Se metti una persona in una cella chiusa e non gli fai fare niente, non avrà stimoli per non commettere un altro reato. Nel libro “Di cuore e di coraggio” scritto dal direttore del carcere di San Vittore, Giacinto Siciliano, si parla molto bene di come “salvare” il detenuto dalla possibilità di ricommettere un reato, anche nei casi apparentemente irrecuperabili.

Intervista ed elaborazione di
Ottavia Alliata e Arianna Picco

Alessandro Giungi – A. Giungi Facebook – Interviste sulla creatività

Francesco Scopelliti

Francesco Scopelliti – Intervista sulla creatività

Francesco Scopelliti è psicologo psicoterapeuta, direttore del Ser.D in Area Penale e Penitenziaria e responsabile dell’unità operativa dei Ser.D nel carcere di Bollate e nel Tribunale di Milano. È altresì professore a contratto presso l’Università Cattolica di Milano. Come dice egli stesso, il suo ruolo è per definizione istituzionale e poco creativo perché gli interventi sono regolamentati in maniera molto rigida dall’ASST Santi Paolo e Carlo, ospedale per cui lavora. In questi contesti le prestazioni devono essere standardizzate e riconducibili ai livelli assistenziali minimi (LEA), perciò gli aspetti creativi sono poco praticabili proprio perché non riconosciuti. Fino a qualche anno fa si poteva godere di maggiori margini di creatività poiché era consentita l’ideazione di programmi trattamentali che includevano il teatro, il cineforum, lo yoga, ecc., attività socio-educative meno standardizzate. Allo stato attuale, una delle attività più creative è il trattamento che ha luogo a “La Nave”, reparto di trattamento avanzato volto alla cura e al recupero di detenuti tossicodipendenti presso il carcere di San Vittore. Si tratta di un tipo di trattamento particolarmente originale, unico in Italia, che vede aspetti innovativi come l’autogestione del reparto quasi a custodia zero.

 

Gloria: Cos’è per lei la creatività?

 Francesco Scopelliti: Per me la creatività è un piacere, un orgasmo, è un modo per percorrere dei piaceri che possono presentarsi sia a livello del pensiero, del sogno, sia attraverso l’azione. Per me la creatività riguarda comunque la massima soggettività, ad esempio l’ideazione di soluzioni creative che non necessariamente sono funzionali o risolutive.

 

Ottavia: Come si sviluppa la sua creatività e in quali condizioni?

 Francesco Scopelliti: Credo che siamo tutti più o meno creativi, anche chi nega di esserlo. Per me la creatività è contestualizzata, a seconda dei momenti: a volte è soprattutto azione, manipolazione e cambiamento di oggetti e dell’ambiente che mi circonda; altre volte la riconduco soprattutto al pensiero, alla immaginazione. Mi capita di avere delle fantasie che si riferiscono a dei miei hobby e che, attraverso il pensiero, cerco di amplificare, in modo da modificare gli spazi e i contesti dell’immagine nella mia mente. È più facile pensare una cosa del genere piuttosto che tradurla in azione.

Ho bisogno di colmare la rigidità propria del mio lavoro istituzionale, perciò quando posso, amo passare il mio tempo in movimenti e azioni che reputo creativi. Ad esempio, adoro il riutilizzo o il recupero dell’oggetto morto o inutilizzato, cerco di portarlo a essere usato in forme e funzioni differenti. Mi piace collocare un oggetto che di norma si trova in un determinato spazio e in una certa dimensione in altri spazi e dimensioni a prescindere dai risultati che otterrò. Infatti, per me la creatività non è qualcosa di funzionale in termini di tempo, spazio e costi. Posso lavorare cinque ore di fila su un oggetto spendendo molto tempo e denaro a fronte di un risultato che potrebbe essere sostituito dall’acquisto dello stesso oggetto con pochissimi soldi. Certamente mi fa piacere che alla creatività possa corrispondere un risparmio di tempo e di denaro ma non è certamente questa l’essenza della creatività.

Uno dei miei hobby è il mio garage dove ci sono moltissimi elementi e materiali, che si possono coniugare tutti tra di loro: la falegnameria con la fusione del metallo, la parte elettronica con quella meccanica. A queste attività manuali seguono a volte risultati modesti ma costituiti da elementi sempre in interazione tra di loro. Ad esempio, alcune parti della mia moto sono diventate un sedile perché in quel momento era ciò di cui avevo bisogno.

Ho costruito questo sedile con la base di un’altra sedia, con alcuni avanzi delle travi di un tetto e dello scaffale di una libreria. Per quanto riguarda il risultato, non mi chiedo nemmeno se sia bello, brutto o se sarà longevo perché magari un giorno potrei volerlo ritrasformare, ad esempio, in un tavolino. Un altro esempio è quello della lavatrice a cui ero molto affezionato e che alla fine sono stato costretto a buttare. Per anni ero riuscito a farla resuscitare costruendo diversi motori quasi con un accanimento terapeutico perché mi dispiaceva l’idea di buttarla. Credo che questo sia il mio legame con la vena artistica. Ciò che mi interessa, a prescindere dal risultato finale, è il pensiero che vi sta dietro.

 

Gloria: Che conseguenze ha sulle sue emozioni e sul suo stato d’animo la produzione creativa?

 Francesco Scopelliti: È un piacere puro. In termini evolutivi, reputo la creatività una delle più importanti essenze della vita. Senza la creatività non ci si evolve da un sistema. Penso che l’uomo sia più creativo rispetto ad altre specie, per quanto il regno animale non sia esente da processi creativi. La creatività soggettiva è quella che però mi interessa di più, che ognuno ha e si attribuisce e che consente di interagire, per esempio, con un piatto di pasta: dal modo in cui si inforchetta la pasta, a cosa si mangia prima e cosa dopo. Sono tutti aspetti che fanno parte di un’interpretazione soggettiva dell’ambiente, di una traduzione del proprio modo d’essere attraverso lo sguardo e i movimenti.

 

Ottavia: Che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di sé stesso?

 Francesco Scopelliti: Per me incide molto perché l’immagine è qualcosa che ci rappresenta…  dall’atteggiamento, all’abbigliamento al modo di parlare. Anche essere vestiti in un certo modo, magari meno attento e adeguato rispetto ai canoni del contesto, fa parte dell’essere creativi: è più facile conformarsi con la giacca e la cravatta piuttosto che mettersi dei jeans bucati. È un tentativo di maggior creatività, per quanto mal riuscito.

Per me la creatività non ha legami col risultato e con la bellezza del prodotto. Io odio finire le cose, tutto ciò che faccio non è mai finito: uno scritto, un oggetto, un pensiero. La fine corrisponde a una tristezza, a una morte, a una perdita che si traduce in un abbandono. Tutta la mia vita è colma di cose non finite. Al tempo dell’informatizzazione, amavo modificare e creare computer e tutt’ora mi piace farlo. Una volta il prof. Aparo mi portò a casa un computer nuovo e io ne interpretai il cambiamento, perciò con un cacciavite e altri strumenti lo modificai completamente rendendolo plurifunzionale, con molte più funzioni rispetto a prima… esteticamente era molto meno bello di prima ma non avrei mai potuto finirlo perché è una modalità che non mi appartiene. Oltretutto, quando un oggetto è finito, si pone al giudizio dell’altro, mentre se è incompleto mi sento giustificato per le sue imperfezioni.

 

Gloria: Nel rapporto con gli altri, che cosa determina il suo atto creativo?

 Francesco Scopelliti: Fino a pochi anni fa, la mia creatività, anche quella del pensiero, richiedeva fortemente il riconoscimento altrui mentre con gli anni ho imparato a godere principalmente in prima persona del mio atto creativo. Con l’età c’è stata una sorta di rivoluzione in questo senso, sono sempre più consapevole che la creatività sia qualcosa che mi fa sentire vivo e che mi dà piacere. Ora la mia creatività è una dimensione più personale e privata, ma rimane comunque una forma di comunicazione che solitamente necessita dello sguardo dell’altro.

Ottavia: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

 Francesco Scopelliti: Al momento sono io stesso il principale fruitore del prodotto creativo, però lo sono anche le persone con cui ho un legame affettivo e con le quali ho bisogno di ribadire la mia identità. Non mi è mai appartenuta una comunicazione sfrontata della mia eventuale creatività: la reputo l’espressione di un’intimità, perciò mi sento infastidito dalle intrusioni che provengono dal di fuori rispetto al mio mondo relazionale e affettivo. In generale invece, credo che la creatività, in qualità di essenza della vita, sia un elemento comunicativo trasversale. La creatività permette l’evoluzione e la crescita, a prescindere che avvenga attraverso la produzione musicale o attraverso la scoperta di una formula chimica. La creatività rivolta all’esterno, inoltre, permette il passaggio dalla caverna all’attuale casa riscaldata. Tuttavia, non sempre la creatività è qualcosa di positivo: le guerre sono la testimonianza di una creatività distruttiva. Anche il virus ha una modalità di espressione creativa: muta per contrastare il vaccino, creando nuove sotto-dimensioni. È interessante osservare l’evoluzione della pandemia anche dall’altra prospettiva: se il virus non fosse creativo, sarebbe morto. È importante anche che vi sia una componente di intelligenza perché senza questa non c’è creatività. Anche le piante possono essere creative perché cambiano per adattarsi all’ambiente circostante.

 

Gloria: Quale immagine le viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

 Francesco Scopelliti: Mi viene in mente qualcosa di astratto… il pensiero. Al momento è la sede elettiva della mia creatività perché certi pensieri non possono tradursi in azioni per diversi motivi legati a vincoli esterni. Qualche anno fa non avrei mai provato piacere attraverso il pensiero mentre col tempo mi sono reso conto che la casa della mia creatività è proprio il pensiero perché supera la materia e le possibilità dell’agire. Nei luoghi della mente la creatività può fare cose incredibili regalando piaceri altrettanto grandi. Questo permette a persone con patologie e deprivazioni di esperire una realtà immaginativa che può apportare miglioramenti alla qualità di vita. Per fare un esempio, una persona paraplegica può scegliere di interrompere il suo percorso di vita oppure può scegliere di vivere in un mondo “parallelo” fatto di creatività e pensiero, dando così significato alla propria esistenza.

Anche un detenuto può essere supportato dal pensiero creativo, essendo in uno spazio di deprivazione e interruzione di molte attività e affetti. Accompagnare la persona a sviluppare percorsi creativi è qualcosa di clinicamente valido, è una forma di esercizio che fornisce le basi per una ripartenza.


Grammofono del 1890, restaurato da Francesco Scopelliti e oggi perfettamente funzionante

 

Ottavia: Pensa esista una relazione tra depressione e creatività?

Francesco Scopelliti: Assolutamente sì, la creatività può produrre pensieri, azioni o situazioni che viviamo come drammatiche, come la delusione delle nostre aspettative. Come dicevo prima, uno potrebbe avere una determinata idea ma potrebbe non possedere i mezzi per metterla in atto e questa impossibilità può determinare risposte di tipo depressivo. Quando un clinico cerca di stimolare il pensiero e la progettualità futura di un detenuto deve stare attento a farlo stare con i piedi per terra perché la fiducia nelle proprie risorse creative potrebbe diventare eccessiva e condurre alla megalomania, causando delusioni e cadute all’indietro. Mi è capitato di parlare con detenuti che avevano dei pensieri e delle speranze che però si scontravano radicalmente con le risorse effettive che avrebbero incontrato una volta usciti dal carcere.

 

Gloria: Pensa che la creatività possa avere una funzione sociale? Se sì, quale?

 Francesco Scopelliti: Si, sicuramente! La creatività è la trasmissione di un punto di vista e di un pensiero, perciò ha una funzione sociale. Inoltre, la creatività può coinvolgere il singolo ma può anche essere praticata in contesti di gruppo: persone con diverse competenze si possono unire per produrre o per apportare cambiamenti in un contesto. Insieme, con le diverse abilità e predisposizioni, si può dar vita a un prodotto creativo; oppure, può essere il singolo individuo ad avvalersi delle competenze altrui. Ad esempio, se la mia moto ha un guasto (e io non ho intenzione di portarla dal meccanico), mi avvalgo di video su YouTube per trovare dei consigli sul come ripararla. Per essere creativi bisogna anche studiare, allenarsi, “perderci” molto tempo. Creatività è anche assorbimento delle produzioni altrui.

 

Ottavia: La creatività è un dono naturale privilegio di pochi o una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

 Francesco Scopelliti: La creatività è accessibile a tutti, è un esercizio, è uno dei percorsi possibili della mente umana. Poi il risultato e la bellezza del prodotto creativo sono un giudizio soggettivo, ma sicuramente è una caratteristica appartenente a tutti. Anche nascere e vivere in un contesto creativo, di artisti, è un forte predittore dell’utilizzo della creatività e del suo successivo allenamento.

 

Gloria: La creatività può avere un ruolo utile a scuola e/o nelle attività di recupero del condannato?

 Francesco Scopelliti: Sì e, anzi, deve proprio averla. Purtroppo, i servizi da noi erogati non sono creativi perché questo ci impongono le istituzioni. Tutti sappiamo che il carcere è inutile e svantaggioso sia per il detenuto sia per la società. La colpa per la mancanza di creatività e innovazione viene data alla politica, quando invece il problema è di matrice culturale. Pur essendoci da anni un pensiero innovativo in merito alla situazione carceraria, i cambiamenti non vengono attuati, perciò è riduttivo additare la colpa ai politici. Essere creativi significa andare al di là delle regole, trasgredire, mettersi di fronte al giudizio degli altri col rischio di essere sanzionati rispetto a dei risultati considerati come non validi. Quando esercito la mia professione mi nascondo dietro il mio ruolo istituzionale per non mettermi in gioco perché di mezzo c’è anche la mia posizione. Credo che le regole che ci diamo siano rivolte alla necessità di consolidamento della nostra identità. Purtroppo, al fine di assolvere a una funzione prestabilita, non ci si mette in discussione. Cambiare le regole significa cambiare la partita, cambiare i ruoli e rinunciare al proprio ruolo non è cosa facile.

Intervista ed elaborazione di
Ottavia Alliata e Gloria Marchesi

 Francesco ScopellitiInterviste sulla creatività

Emanuela Pistone

Emanuela Pistone – Intervista sulla creatività

Emanuela Pistone è un’attrice e regista teatrale originaria di Catania che dal ’94 si occupa della promozione di progetti interculturali. L’amore e l’interesse per il mondo dello spettacolo, racconta, sono nati in maniera del tutto casuale, come conseguenza di una timidezza originaria. Su suggerimento di un amico, Emanuela Pistone inizia a frequentare dei laboratori teatrali cui si appassiona fino a iscriversi a una scuola di recitazione a Catania. Una volta ottenuti il diploma di recitazione e la laurea in lingue, decide di trasferirsi a Roma, dove segue un corso di perfezionamento in traduzione letteraria all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e inizia a lavorare per la Compagnia della Luna di Nicola Piovani.

Nella prima metà degli anni ’90, grazie all’iniziativa di alcuni studenti universitari allievi del traduttore Riccardo Duranti, direttore del corso di perfezionamento, Emanuela Pistone avvia con loro una collaborazione aiutandoli a mettere in scena un testo teatrale. L’attività proseguirà per quattro anni diventando un Laboratorio permanente di formazione teatrale guidato da E. P., la cui caratteristica principale è il lavoro su testi di autori contemporanei dell’Africa Subsahariana. Questo grazie a Paolo Maddonni, uno degli allievi, impegnato annualmente in progetti di collaborazione e aiuto in Africa dove aveva raccolto una serie di testi e di racconti teatrali africani. È l’inizio di una passione per l’Africa, le sue culture e i suoi autori, culminata nel 2005 con la fondazione dell’associazione Isola Quassùd che, partendo dalle pratiche teatrali come strumento di educazione trasversale, cerca di diffondere un’idea positiva di società multietnica attraverso attività rivolte a migranti di origini diverse, che crescono e si arricchiscono di anno in anno.

 

 

Alice: Che cos’è per lei la creatività?

 Emanuela Pistone: Una capacità visionaria che dà l’opportunità di guardare oltre, di ‘vedere’ ciò che è invisibile agli occhi. Credo che la creatività sia una caratteristica che possiedono molte persone, alcune hanno l’opportunità di sperimentarla mentre altre, più che impararla hanno bisogno che venga stimolata fornendo loro una serie di strumenti per poter esprimersi in un modo nuovo. Ad ogni modo, alla fine credo che creativi si nasca.

 

Ottavia: Quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

 Emanuela Pistone: Un ingrediente del processo creativo è la capacità di vedere qualcosa che non è presente materialmente, un altro riguarda la capacità di concretizzare qualcosa che non esiste materialmente se non nella testa del visionario. Basti pensare alla creatività che viene espressa da ogni membro di un gruppo teatrale, scenografo, musicista, costumista, tecnici. Penso anche alla creatività di un artigiano che costruisce cose, alla creatività in cucina, nell’arredamento, nella moda, con le piante, nella scienza… La creatività non si manifesta solamente sul piano teorico ma anche su quello concreto, attraverso un pezzo artigianale o un arredamento, o una creazione in qualunque ambito. Il punto di partenza è una capacità visionaria a cui segue lo sforzo di renderla viva: allora può diventare un quadro, un oggetto, un abito, un giardino, una composizione musicale, una ricetta…

 

Alice: Come si sviluppa la sua creatività e in quali condizioni?

 Emanuela Pistone: Credo di ricevere più stimoli in ambienti caotici, tra le energie e gli stimoli di altre persone e oggetti. Per me sono importanti la collaborazione e l’ascolto dell’Altro. A questo proposito, la musica ha avuto, e ha, per me un ruolo fondamentale. Sono cresciuta con la musica dentro le mura di casa; mio fratello è musicista, e credo che questo abbia influito sullo sviluppo della mia parte creativa. La musica è per me il primo stimolo, ma trovo stimolanti anche le conversazioni altrui: entrare di traverso in conversazioni che non riguardano il mio ambito specifico mi incuriosisce, è un’altra fonte di stimolo. Comunque, all’interno del processo creativo ci sono fasi diverse e in alcuni momenti è necessario anche l’isolamento.

 

Ottavia: Che conseguenze ha sulle sue emozioni e sul suo stato d’animo la produzione creativa?

 Emanuela Pistone: La produzione creativa influisce sulle emozioni ma non in maniera lineare perché tutto dipende dalla specifica fase dell’atto creativo. Nella fase iniziale ci sono una grande esaltazione e una grande partecipazione emotiva perché si vede qualcosa per la prima volta. Dopo questa visione subentra invece una fase più concreta che può essere attraversata da sensazioni diverse come, ad esempio, il disprezzo per la cosa creata o in via di creazione. Ad ogni modo, vi è una grande influenza sulle emozioni perché la mia visione delle cose è condizionata dall’idea sulla quale sto lavorando in quel periodo.

 

Alice: Che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di sé?

 Emanuela Pistone: Sicuramente nell’atto creativo emerge il proprio essere. Io sono piuttosto autocritica, non sono quasi mai soddisfatta di quello che faccio e magari, a posteriori, mi trovo invece ad apprezzare ciò che avevo realizzato in passato. Non so dire se l’atto creativo determini dei grossi cambiamenti sulla percezione che ho di me stessa, sicuramente i momenti critici dell’esistenza coincidono con le fasi della parte creativa.

 

Alice: Cosa determina il suo atto creativo nel rapporto con gli altri?

Emanuela Pistone: In famiglia sono considerata un po’ fuori dalle regole, anche se in realtà quando conosco persone nuove vengo scambiata spesso per una professoressa. Credo sia a causa del mio aspetto borghese, rassicurante, che però contrasta nettamente con il mio modo di pensare e di fare.

 

Ottavia: Per lei è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?

 Emanuela Pistone: Anche se molti artisti dicono di no, secondo me il riconoscimento degli altri è importante, a maggior ragione se si fa della propria arte il proprio mestiere. L’approvazione degli altri ha un peso, ma per alcune forme d’arte come la musica o il teatro, non credo che l’esibizione in pubblico sia il momento più determinante per l’artista; la composizione, la preparazione, la ricerca di alchimie, le prime esecuzioni, le prove, sono i momenti di maggior creatività. L’applauso del pubblico è certamente la gratificazione massima che un artista può avere sul palco, ma io non credo che coincida con l’apice della creatività.

 

 

Alice: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo? Come ne traggono giovamento?

Emanuela Pistone: Secondo me i principali fruitori sono gli artisti stessi, ma chiunque abbia voglia e abbia modo di accostarsi al risultato di un lavoro creativo può fruirne. Ci sono diverse categorie di persone che si avvicinano, in vari momenti, alla pratica creativa. I motivi possono essere i più diversi: per un’esigenza precisa, utilizzando l’arte come terapia; per il semplice piacere di gioire di un’attività diversa da quelle quotidiane. Molte persone che vivono ai margini della società non hanno la possibilità immediata di incontrare un atto, un percorso o un prodotto creativo, perché sono troppo impegnate a risolvere problemi più concreti e materiali; in questo caso, in qualche modo, andando incontro a chi non ha questa possibilità i risultati sono positivi. Questo è quello che cerco di fare con la mia associazione.

Ottavia: Quale immagine le viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

 Emanuela Pistone: Dalla finestra del mio soggiorno vedo l’Etna, che in questi ultimi tre mesi ha dato uno spettacolo straordinario, perciò al momento per me non c’è atto creativo più forte di un’eruzione vulcanica: la potenza e la forza di un’energia incalcolabile e sotterrata, che ogni tanto ha la possibilità di emergere e che può anche distruggere.

 

Alice: Pensa che esista una relazione tra creatività e depressione?

 Emanuela Pistone: Non sono un’esperta dell’argomento, ma io stessa sono passata attraverso un periodo buio, un fatto piuttosto frequente nella categoria degli artisti. Siamo sempre di più ad avere queste sensazioni di sospensione, di attesa di un qualcosa che sembra non arrivare mai, che comporta una grande difficoltà di progettare, di guardare oltre. Quindi sì, credo che tra depressione e creatività ci sia un nesso.

 

Ottavia: Secondo lei, quando un prodotto creativo è davvero concluso?

Emanuela Pistone: Mai. Per me il prodotto creativo è in continuo movimento; anche un’opera che si fissa nel tempo (come un dipinto o un film) non ha mai una fine.

 

Ottavia: Pensa che la creatività sia un dono naturale, un privilegio di pochi o una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

Emanuela Pistone: Credo che la creatività sia in parte un dono, una qualità, o meglio una caratteristica di alcune persone. È sicuramente possibile stimolare la creatività, fornendo una serie di strumenti a chi ha bisogno di esprimersi attraverso un linguaggio non verbale, ma io credo che l’arte non si possa imparare: creativi si nasce. Semplicemente qualcuno ha maggiori possibilità di altri di sperimentare la propria creatività.

 

Alice: Pensa che la creatività possa avere una funzione sociale, ad esempio nelle scuole o nelle attività di recupero del condannato?

Emanuela Pistone: Decisamente sì; la creatività è uno strumento trasversale rispetto alla possibilità di ottenere risultati positivi in moltissimi ambiti. L’arte è uno strumento poco definibile, complesso; è un modo a sé che viene percepito in modo diverso da ciascuno di noi. C’è una grande differenza tra chi sceglie di fare della propria creatività il proprio mestiere e chi invece utilizza il processo creativo per riempire o arricchire la propria esperienza di vita, ma tutte le forme d’arte possono avere una funzione sociale.

 

Intervista ed elaborazione di
Ottavia Alliata e Alice Viola

Isola Quassùd     –     Interviste sulla creatività

Renato Rizzi

Renato Rizzi – Intervista sulla creatività

Renato Rizzi è medico chirurgo, oncologo e psicoterapeuta. Egli ha scritto alcuni saggi (sul perdono, sul rancore) e dei romanzi, crede molto nella lettura e nella scrittura come fondamentale strumenti di crescita.

 

Ottavia: Che cos’è per lei la creatività?

Renato Rizzi: La creatività è dare spazio e concretezza a un pensiero e può riguardare varie forme d’arte, dalla prosa, alla poesia, alla scultura, ecc.

 

Gloria: Cosa avvia, come si sviluppa la sua creatività e in quali condizioni?

 Renato Rizzi: Per me la scrittura è un bisogno intimo di espressione. Nel mio caso cerco di trasferire i miei vissuti e le mie esperienze, sia in qualità di medico sia in qualità di psicologo, nel lavoro che faccio in carcere, contesto in cui vi sono vissuti di grande sofferenza. Cerco di ricreare qualcosa di molto vicino alla realtà anche se in parte modificato e romanzato. L’ingrediente principale del processo creativo è la necessità che avverto di modificare le cose in modo tale che rimangano comunque verosimili.

 

Ottavia: Che conseguenze ha la produzione creativa sulle sue emozioni e sul suo stato d’animo?

 Renato Rizzi: Per me la creatività produce effetti liberatori, consolatori e di compassione.

 

Gloria: Che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di sé stesso o dell’autore in genere?

Renato Rizzi: Sicuramente l’atto creativo porta a una compensazione delle mie emozioni, è una forma d’aiuto ma si tratta di un processo in buona parte inconscio. La scrittura mi fa crescere. Quasi sempre scrivo in prima persona e questo mi rende felice per l’essermi messo nei panni di un’altra persona.

 

Ottavia: Che cosa determina l’atto creativo nel rapporto con gli altri?

 Renato Rizzi: Personalmente scrivo per me, non per gli altri, perciò è difficile rispondere. Gli altri giudicano il mio lavoro, lo spirito critico è importante perché induce a migliorarsi. Quando finisco di scrivere ho proprio finito il prodotto, mi sposto su un altro progetto o su un’altra esperienza. Non mi piace l’idea di fare dei sequel o di creare personaggi permanenti.

Il mio primo romanzo si intitola “Berto il cialtrone”. A quel tempo insegnavo Psicologia all’Università di Urbino, avevo fatto delle ricerche sulla menzogna su un campione di circa 700 persone. Ne sono seguite una serie di conoscenze che volevo riportare non più in un saggio – ne avevo già scritti uno sul perdono e uno sul rancore – bensì in un romanzo. In seguito, mi sono venute in aiuto diverse esperienze e fatti autobiografici che mi hanno messo per la prima volta nella condizione di scrivere quello che sarebbe stato poi il mio primo romanzo. Preso atto dell’insoddisfazione del mio editor sul finale, che trovava un po’ scialbo, ho deciso di scrivere cinque finali diversi e di fare scegliere al lettore quello che gli piaceva di più.

 

Gloria: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

 Renato Rizzi: Quando scrivo, faccio leggere i primi risultati del mio prodotto a mia moglie, che è molto critica. In tutti i romanzi ci dev’essere una storia d’amore, non necessariamente per una persona, ma anche per la patria, per il lavoro. Il mio primo romanzo ha riscosso un buon successo, ho riscontrato le critiche fatte sui giornali, ho vinto un premio di esordiente, ma non so se il libro sia stato d’aiuto a qualcuno. Invece, il penultimo libro che ho scritto, sulla storia vera di un detenuto, è stato letto nel carcere di San Vittore da gruppi di detenuti che poi mi hanno fatto molte domande. In quell’occasione mi sono sentito veramente utile perché mi sembrava di essere riuscito a indurre qualcuno a pensare e non tanto a fare. Secondo me questo è il fine ultimo di una creazione: stimolare il pensiero. Mi ricordo l’emozione che ho provato quando ho visto un efebo – una statua greca – a Mozia, un’isola di fronte a Trapani. Vi era solo questa statua all’ingresso di una villa liberty: ho vissuto un’emozione intensa…  che mi ha indotto a pensare.


L’efebo di Mozia

 

Ottavia: Le viene in mente un’immagine che possa ben rappresentare l’atto creativo?

 Renato Rizzi: Tra pochi giorni vado a Napoli, accompagno mio nipote a Pompei, ci sono già stato ma quello che mi incuriosisce davvero è vedere il Cristo Velato: le sculture mi impegnano e mi emozionano soprattutto quando rappresentano la figura umana. Non posso dire che si verifichi lo stesso quando vedo dei quadri raffiguranti dei paesaggi.

 

Gloria: Pensa che esista una relazione tra depressione e creatività?

 Renato Rizzi: Credo proprio di sì, credo che la creatività sia favorita da uno stato depressivo. Allo stesso tempo, la creatività è una forma di aiuto e di cura per la depressione, è un modo per sentirsi meglio.

 

Ottavia: Quando un prodotto creativo è davvero concluso?

 Renato Rizzi: Secondo me il prodotto creativo è concluso quando non c’è più nient’altro da dire o da aggiungere in quella determinata creazione. Anche la scultura non finita può rappresentare per l’autore un’opera conclusa perché non c’è più nulla da comunicare. Penso sia una cosa estremamente personale e che l’opera sia davvero conclusa quando non vi sono più emozioni a stimolare la produzione. Per quanto riguarda i romanzi, ci sono autori che riscrivono le loro opere venti volte. Io, personalmente, quando finisco di scrivere un romanzo, non voglio più rivederlo né rileggerlo, è davvero concluso.

 

Gloria: Pensa che la creatività possa avere una funzione sociale? Se sì, quale?

 Renato Rizzi: Sicuramente sì. Ritornando alla scrittura, credo che i circoli letterari siano un’arma sociale utile per discutere un pensiero e ritengo possano avere un impatto a livello sociale, anche se per un pubblico molto ristretto; solamente i romanzi di grande successo possono influire su una popolazione più ampia. Comunque, anche i romanzi più terribili e scritti male hanno sempre una frase, un concetto che salva il libro e che stimola una crescita personale.

 

Ottavia: La creatività è un dono naturale privilegio di pochi o una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

 Renato Rizzi: Il talento esiste ma è comunque allenabile ed educabile. Ad esempio, fare il medico richiede una parte di talento ma soprattutto tanta compassione: senza questi due elementi è difficile svolgere efficacemente questa professione. Nella creatività servono una grande capacità di espressione emotiva e l’abilità di saper esprimere cose terribili… basti pensare ai quadri di Alberto Burri che esprimono una rabbia immensa.

 

Gloria: La creatività può avere un ruolo utile a scuola e/o nelle attività di recupero del condannato?

Renato Rizzi: Sì sicuramente, anzi credo che la creatività sia uno degli migliori strumenti ma che non viene sufficientemente utilizzato. A questo proposito, sto cercando di convincere la tipografia Zerograrfica, cooperativa sociale nata su iniziativa di persone detenute, a diventare una piccola casa editrice. Ho proposto di fare un premio letterario destinato ai detenuti della Lombardia o di tutta Italia per il miglior racconto. Credo che questa iniziativa possa rappresentare un buon incentivo principalmente per due motivi: il premio letterario permette di ottenere un riconoscimento mentre la scrittura stimola la riflessione e la verbalizzazione di vissuti e pensieri del soggetto. Il narrato, se non viene ben verbalizzato, si perde e alla società non viene dato nulla. Credo sia molto utile spingere i bambini o i ragazzi a scrivere di sé. È uscito da poco un libro, “L’appello”, che narra di un insegnate di liceo cieco che viene assunto in una scuola come supplente. Il fatto che sia privo della possibilità di vedere e quindi di riconoscere nell’altro il linguaggio non verbale, aiuta in maniera molto più profonda a comprendere lo studente. Il rapporto insegnante – alunno si sviluppa in una forma di apertura che i ragazzi non avevano mai esperito prima e che successivamente si delinea attraverso la scrittura. È fondamentale insegnare ai ragazzi un modo per guardarsi dentro soprattutto perché l’adolescenza è un’età assai delicata e difficile in cui si ha una bassa autostima e un’identità in essere, non ancora definita.

Intervista ed elaborazione di 
Ottavia Alliata e Gloria Marchesi

 R. Rizzi Studio – Libri dell’autoreInterviste sulla creatività