Emanuela Pistone

Emanuela Pistone – Intervista sulla creatività

Emanuela Pistone è un’attrice e regista teatrale originaria di Catania che dal ’94 si occupa della promozione di progetti interculturali. L’amore e l’interesse per il mondo dello spettacolo, racconta, sono nati in maniera del tutto casuale, come conseguenza di una timidezza originaria. Su suggerimento di un amico, Emanuela Pistone inizia a frequentare dei laboratori teatrali cui si appassiona fino a iscriversi a una scuola di recitazione a Catania. Una volta ottenuti il diploma di recitazione e la laurea in lingue, decide di trasferirsi a Roma, dove segue un corso di perfezionamento in traduzione letteraria all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e inizia a lavorare per la Compagnia della Luna di Nicola Piovani.

Nella prima metà degli anni ’90, grazie all’iniziativa di alcuni studenti universitari allievi del traduttore Riccardo Duranti, direttore del corso di perfezionamento, Emanuela Pistone avvia con loro una collaborazione aiutandoli a mettere in scena un testo teatrale. L’attività proseguirà per quattro anni diventando un Laboratorio permanente di formazione teatrale guidato da E. P., la cui caratteristica principale è il lavoro su testi di autori contemporanei dell’Africa Subsahariana. Questo grazie a Paolo Maddonni, uno degli allievi, impegnato annualmente in progetti di collaborazione e aiuto in Africa dove aveva raccolto una serie di testi e di racconti teatrali africani. È l’inizio di una passione per l’Africa, le sue culture e i suoi autori, culminata nel 2005 con la fondazione dell’associazione Isola Quassùd che, partendo dalle pratiche teatrali come strumento di educazione trasversale, cerca di diffondere un’idea positiva di società multietnica attraverso attività rivolte a migranti di origini diverse, che crescono e si arricchiscono di anno in anno.

 

 

Alice: Che cos’è per lei la creatività?

 Emanuela Pistone: Una capacità visionaria che dà l’opportunità di guardare oltre, di ‘vedere’ ciò che è invisibile agli occhi. Credo che la creatività sia una caratteristica che possiedono molte persone, alcune hanno l’opportunità di sperimentarla mentre altre, più che impararla hanno bisogno che venga stimolata fornendo loro una serie di strumenti per poter esprimersi in un modo nuovo. Ad ogni modo, alla fine credo che creativi si nasca.

 

Ottavia: Quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

 Emanuela Pistone: Un ingrediente del processo creativo è la capacità di vedere qualcosa che non è presente materialmente, un altro riguarda la capacità di concretizzare qualcosa che non esiste materialmente se non nella testa del visionario. Basti pensare alla creatività che viene espressa da ogni membro di un gruppo teatrale, scenografo, musicista, costumista, tecnici. Penso anche alla creatività di un artigiano che costruisce cose, alla creatività in cucina, nell’arredamento, nella moda, con le piante, nella scienza… La creatività non si manifesta solamente sul piano teorico ma anche su quello concreto, attraverso un pezzo artigianale o un arredamento, o una creazione in qualunque ambito. Il punto di partenza è una capacità visionaria a cui segue lo sforzo di renderla viva: allora può diventare un quadro, un oggetto, un abito, un giardino, una composizione musicale, una ricetta…

 

Alice: Come si sviluppa la sua creatività e in quali condizioni?

 Emanuela Pistone: Credo di ricevere più stimoli in ambienti caotici, tra le energie e gli stimoli di altre persone e oggetti. Per me sono importanti la collaborazione e l’ascolto dell’Altro. A questo proposito, la musica ha avuto, e ha, per me un ruolo fondamentale. Sono cresciuta con la musica dentro le mura di casa; mio fratello è musicista, e credo che questo abbia influito sullo sviluppo della mia parte creativa. La musica è per me il primo stimolo, ma trovo stimolanti anche le conversazioni altrui: entrare di traverso in conversazioni che non riguardano il mio ambito specifico mi incuriosisce, è un’altra fonte di stimolo. Comunque, all’interno del processo creativo ci sono fasi diverse e in alcuni momenti è necessario anche l’isolamento.

 

Ottavia: Che conseguenze ha sulle sue emozioni e sul suo stato d’animo la produzione creativa?

 Emanuela Pistone: La produzione creativa influisce sulle emozioni ma non in maniera lineare perché tutto dipende dalla specifica fase dell’atto creativo. Nella fase iniziale ci sono una grande esaltazione e una grande partecipazione emotiva perché si vede qualcosa per la prima volta. Dopo questa visione subentra invece una fase più concreta che può essere attraversata da sensazioni diverse come, ad esempio, il disprezzo per la cosa creata o in via di creazione. Ad ogni modo, vi è una grande influenza sulle emozioni perché la mia visione delle cose è condizionata dall’idea sulla quale sto lavorando in quel periodo.

 

Alice: Che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di sé?

 Emanuela Pistone: Sicuramente nell’atto creativo emerge il proprio essere. Io sono piuttosto autocritica, non sono quasi mai soddisfatta di quello che faccio e magari, a posteriori, mi trovo invece ad apprezzare ciò che avevo realizzato in passato. Non so dire se l’atto creativo determini dei grossi cambiamenti sulla percezione che ho di me stessa, sicuramente i momenti critici dell’esistenza coincidono con le fasi della parte creativa.

 

Alice: Cosa determina il suo atto creativo nel rapporto con gli altri?

Emanuela Pistone: In famiglia sono considerata un po’ fuori dalle regole, anche se in realtà quando conosco persone nuove vengo scambiata spesso per una professoressa. Credo sia a causa del mio aspetto borghese, rassicurante, che però contrasta nettamente con il mio modo di pensare e di fare.

 

Ottavia: Per lei è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?

 Emanuela Pistone: Anche se molti artisti dicono di no, secondo me il riconoscimento degli altri è importante, a maggior ragione se si fa della propria arte il proprio mestiere. L’approvazione degli altri ha un peso, ma per alcune forme d’arte come la musica o il teatro, non credo che l’esibizione in pubblico sia il momento più determinante per l’artista; la composizione, la preparazione, la ricerca di alchimie, le prime esecuzioni, le prove, sono i momenti di maggior creatività. L’applauso del pubblico è certamente la gratificazione massima che un artista può avere sul palco, ma io non credo che coincida con l’apice della creatività.

 

 

Alice: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo? Come ne traggono giovamento?

Emanuela Pistone: Secondo me i principali fruitori sono gli artisti stessi, ma chiunque abbia voglia e abbia modo di accostarsi al risultato di un lavoro creativo può fruirne. Ci sono diverse categorie di persone che si avvicinano, in vari momenti, alla pratica creativa. I motivi possono essere i più diversi: per un’esigenza precisa, utilizzando l’arte come terapia; per il semplice piacere di gioire di un’attività diversa da quelle quotidiane. Molte persone che vivono ai margini della società non hanno la possibilità immediata di incontrare un atto, un percorso o un prodotto creativo, perché sono troppo impegnate a risolvere problemi più concreti e materiali; in questo caso, in qualche modo, andando incontro a chi non ha questa possibilità i risultati sono positivi. Questo è quello che cerco di fare con la mia associazione.

Ottavia: Quale immagine le viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

 Emanuela Pistone: Dalla finestra del mio soggiorno vedo l’Etna, che in questi ultimi tre mesi ha dato uno spettacolo straordinario, perciò al momento per me non c’è atto creativo più forte di un’eruzione vulcanica: la potenza e la forza di un’energia incalcolabile e sotterrata, che ogni tanto ha la possibilità di emergere e che può anche distruggere.

 

Alice: Pensa che esista una relazione tra creatività e depressione?

 Emanuela Pistone: Non sono un’esperta dell’argomento, ma io stessa sono passata attraverso un periodo buio, un fatto piuttosto frequente nella categoria degli artisti. Siamo sempre di più ad avere queste sensazioni di sospensione, di attesa di un qualcosa che sembra non arrivare mai, che comporta una grande difficoltà di progettare, di guardare oltre. Quindi sì, credo che tra depressione e creatività ci sia un nesso.

 

Ottavia: Secondo lei, quando un prodotto creativo è davvero concluso?

Emanuela Pistone: Mai. Per me il prodotto creativo è in continuo movimento; anche un’opera che si fissa nel tempo (come un dipinto o un film) non ha mai una fine.

 

Ottavia: Pensa che la creatività sia un dono naturale, un privilegio di pochi o una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

Emanuela Pistone: Credo che la creatività sia in parte un dono, una qualità, o meglio una caratteristica di alcune persone. È sicuramente possibile stimolare la creatività, fornendo una serie di strumenti a chi ha bisogno di esprimersi attraverso un linguaggio non verbale, ma io credo che l’arte non si possa imparare: creativi si nasce. Semplicemente qualcuno ha maggiori possibilità di altri di sperimentare la propria creatività.

 

Alice: Pensa che la creatività possa avere una funzione sociale, ad esempio nelle scuole o nelle attività di recupero del condannato?

Emanuela Pistone: Decisamente sì; la creatività è uno strumento trasversale rispetto alla possibilità di ottenere risultati positivi in moltissimi ambiti. L’arte è uno strumento poco definibile, complesso; è un modo a sé che viene percepito in modo diverso da ciascuno di noi. C’è una grande differenza tra chi sceglie di fare della propria creatività il proprio mestiere e chi invece utilizza il processo creativo per riempire o arricchire la propria esperienza di vita, ma tutte le forme d’arte possono avere una funzione sociale.

 

Intervista ed elaborazione di
Ottavia Alliata e Alice Viola

Isola Quassùd     –     Interviste sulla creatività

Renato Rizzi

Renato Rizzi – Intervista sulla creatività

Renato Rizzi è medico chirurgo, oncologo e psicoterapeuta. Egli ha scritto alcuni saggi (sul perdono, sul rancore) e dei romanzi, crede molto nella lettura e nella scrittura come fondamentale strumenti di crescita.

 

Ottavia: Che cos’è per lei la creatività?

Renato Rizzi: La creatività è dare spazio e concretezza a un pensiero e può riguardare varie forme d’arte, dalla prosa, alla poesia, alla scultura, ecc.

 

Gloria: Cosa avvia, come si sviluppa la sua creatività e in quali condizioni?

 Renato Rizzi: Per me la scrittura è un bisogno intimo di espressione. Nel mio caso cerco di trasferire i miei vissuti e le mie esperienze, sia in qualità di medico sia in qualità di psicologo, nel lavoro che faccio in carcere, contesto in cui vi sono vissuti di grande sofferenza. Cerco di ricreare qualcosa di molto vicino alla realtà anche se in parte modificato e romanzato. L’ingrediente principale del processo creativo è la necessità che avverto di modificare le cose in modo tale che rimangano comunque verosimili.

 

Ottavia: Che conseguenze ha la produzione creativa sulle sue emozioni e sul suo stato d’animo?

 Renato Rizzi: Per me la creatività produce effetti liberatori, consolatori e di compassione.

 

Gloria: Che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di sé stesso o dell’autore in genere?

Renato Rizzi: Sicuramente l’atto creativo porta a una compensazione delle mie emozioni, è una forma d’aiuto ma si tratta di un processo in buona parte inconscio. La scrittura mi fa crescere. Quasi sempre scrivo in prima persona e questo mi rende felice per l’essermi messo nei panni di un’altra persona.

 

Ottavia: Che cosa determina l’atto creativo nel rapporto con gli altri?

 Renato Rizzi: Personalmente scrivo per me, non per gli altri, perciò è difficile rispondere. Gli altri giudicano il mio lavoro, lo spirito critico è importante perché induce a migliorarsi. Quando finisco di scrivere ho proprio finito il prodotto, mi sposto su un altro progetto o su un’altra esperienza. Non mi piace l’idea di fare dei sequel o di creare personaggi permanenti.

Il mio primo romanzo si intitola “Berto il cialtrone”. A quel tempo insegnavo Psicologia all’Università di Urbino, avevo fatto delle ricerche sulla menzogna su un campione di circa 700 persone. Ne sono seguite una serie di conoscenze che volevo riportare non più in un saggio – ne avevo già scritti uno sul perdono e uno sul rancore – bensì in un romanzo. In seguito, mi sono venute in aiuto diverse esperienze e fatti autobiografici che mi hanno messo per la prima volta nella condizione di scrivere quello che sarebbe stato poi il mio primo romanzo. Preso atto dell’insoddisfazione del mio editor sul finale, che trovava un po’ scialbo, ho deciso di scrivere cinque finali diversi e di fare scegliere al lettore quello che gli piaceva di più.

 

Gloria: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

 Renato Rizzi: Quando scrivo, faccio leggere i primi risultati del mio prodotto a mia moglie, che è molto critica. In tutti i romanzi ci dev’essere una storia d’amore, non necessariamente per una persona, ma anche per la patria, per il lavoro. Il mio primo romanzo ha riscosso un buon successo, ho riscontrato le critiche fatte sui giornali, ho vinto un premio di esordiente, ma non so se il libro sia stato d’aiuto a qualcuno. Invece, il penultimo libro che ho scritto, sulla storia vera di un detenuto, è stato letto nel carcere di San Vittore da gruppi di detenuti che poi mi hanno fatto molte domande. In quell’occasione mi sono sentito veramente utile perché mi sembrava di essere riuscito a indurre qualcuno a pensare e non tanto a fare. Secondo me questo è il fine ultimo di una creazione: stimolare il pensiero. Mi ricordo l’emozione che ho provato quando ho visto un efebo – una statua greca – a Mozia, un’isola di fronte a Trapani. Vi era solo questa statua all’ingresso di una villa liberty: ho vissuto un’emozione intensa…  che mi ha indotto a pensare.


L’efebo di Mozia

 

Ottavia: Le viene in mente un’immagine che possa ben rappresentare l’atto creativo?

 Renato Rizzi: Tra pochi giorni vado a Napoli, accompagno mio nipote a Pompei, ci sono già stato ma quello che mi incuriosisce davvero è vedere il Cristo Velato: le sculture mi impegnano e mi emozionano soprattutto quando rappresentano la figura umana. Non posso dire che si verifichi lo stesso quando vedo dei quadri raffiguranti dei paesaggi.

 

Gloria: Pensa che esista una relazione tra depressione e creatività?

 Renato Rizzi: Credo proprio di sì, credo che la creatività sia favorita da uno stato depressivo. Allo stesso tempo, la creatività è una forma di aiuto e di cura per la depressione, è un modo per sentirsi meglio.

 

Ottavia: Quando un prodotto creativo è davvero concluso?

 Renato Rizzi: Secondo me il prodotto creativo è concluso quando non c’è più nient’altro da dire o da aggiungere in quella determinata creazione. Anche la scultura non finita può rappresentare per l’autore un’opera conclusa perché non c’è più nulla da comunicare. Penso sia una cosa estremamente personale e che l’opera sia davvero conclusa quando non vi sono più emozioni a stimolare la produzione. Per quanto riguarda i romanzi, ci sono autori che riscrivono le loro opere venti volte. Io, personalmente, quando finisco di scrivere un romanzo, non voglio più rivederlo né rileggerlo, è davvero concluso.

 

Gloria: Pensa che la creatività possa avere una funzione sociale? Se sì, quale?

 Renato Rizzi: Sicuramente sì. Ritornando alla scrittura, credo che i circoli letterari siano un’arma sociale utile per discutere un pensiero e ritengo possano avere un impatto a livello sociale, anche se per un pubblico molto ristretto; solamente i romanzi di grande successo possono influire su una popolazione più ampia. Comunque, anche i romanzi più terribili e scritti male hanno sempre una frase, un concetto che salva il libro e che stimola una crescita personale.

 

Ottavia: La creatività è un dono naturale privilegio di pochi o una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

 Renato Rizzi: Il talento esiste ma è comunque allenabile ed educabile. Ad esempio, fare il medico richiede una parte di talento ma soprattutto tanta compassione: senza questi due elementi è difficile svolgere efficacemente questa professione. Nella creatività servono una grande capacità di espressione emotiva e l’abilità di saper esprimere cose terribili… basti pensare ai quadri di Alberto Burri che esprimono una rabbia immensa.

 

Gloria: La creatività può avere un ruolo utile a scuola e/o nelle attività di recupero del condannato?

Renato Rizzi: Sì sicuramente, anzi credo che la creatività sia uno degli migliori strumenti ma che non viene sufficientemente utilizzato. A questo proposito, sto cercando di convincere la tipografia Zerograrfica, cooperativa sociale nata su iniziativa di persone detenute, a diventare una piccola casa editrice. Ho proposto di fare un premio letterario destinato ai detenuti della Lombardia o di tutta Italia per il miglior racconto. Credo che questa iniziativa possa rappresentare un buon incentivo principalmente per due motivi: il premio letterario permette di ottenere un riconoscimento mentre la scrittura stimola la riflessione e la verbalizzazione di vissuti e pensieri del soggetto. Il narrato, se non viene ben verbalizzato, si perde e alla società non viene dato nulla. Credo sia molto utile spingere i bambini o i ragazzi a scrivere di sé. È uscito da poco un libro, “L’appello”, che narra di un insegnate di liceo cieco che viene assunto in una scuola come supplente. Il fatto che sia privo della possibilità di vedere e quindi di riconoscere nell’altro il linguaggio non verbale, aiuta in maniera molto più profonda a comprendere lo studente. Il rapporto insegnante – alunno si sviluppa in una forma di apertura che i ragazzi non avevano mai esperito prima e che successivamente si delinea attraverso la scrittura. È fondamentale insegnare ai ragazzi un modo per guardarsi dentro soprattutto perché l’adolescenza è un’età assai delicata e difficile in cui si ha una bassa autostima e un’identità in essere, non ancora definita.

Intervista ed elaborazione di 
Ottavia Alliata e Gloria Marchesi

 R. Rizzi Studio – Libri dell’autoreInterviste sulla creatività

Alberto Figliolia

Alberto Figliolia – Intervista sulla creatività

Gloria: di che tipo di arte ti occupi e qual è la sua origine?

Alberto Figliolia: di scrittura. Sono nato come autore, poi sono diventato anche giornalista e ora lo faccio come freelance, occupandomi di ciò che mi interessa (e in base ai miei tempi). In passato ho collaborato con diversi quotidiani o testate nazionali; nel frattempo ho continuato a scrivere libri muovendomi soprattutto nell’ambito della poesia e della letteratura sportiva, a volte anche unendo questi due campi. Faccio una postilla: alla base di tutto c’è un lettore accanito; prima di tutto sono uno che legge. La lettura è fondamentale e la considero un atto creativo, dopo c’è la scrittura.

 

Asia: che cos’è per te la creatività?

Alberto Figliolia: è, probabilmente, la capacità, attraverso un talento di base e tanta tenacia, di riuscire a rielaborare i vari input che arrivano alla nostra mente e al nostro cuore. Quindi la capacità di rielaborare le esperienze producendone di nuove. Tutto in una logica di ausilio al resto del consesso umano col quale ti relazioni. Difatti io credo molto nella forza empatica della lettura e della scrittura, nella trasmissione e nella condivisione del sapere.

 

Gloria: quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Alberto Figliola: c’è il lavorio della mente, quello che ti ribolle nel profondo, nell’inconscio, che affiora nell’universo onirico. Poi ci sono le costruzioni razionali. Io per esempio lavoro sulla poesia come se fosse un’architettura: magari ho un’idea sulla quale poi faccio delle operazioni mentali. L’ispirazione non basta, è un processo molto lungo, che in fondo dura tutta la vita… Facendo un paragone col mondo dello sport, non credo che basti il talento. Il talento va allenato con umiltà: non si può pensare di sapere tutto. “So di non sapere” parafrasando il famoso filosofo greco. Poi c’è il labor limae, non finisci mai… Io qualcosa scrivo ogni giorno. È importante stare molto attenti alle piccole cose, anche particolari irrilevanti su cui di solito non ci si sofferma: anche un fiore le cui radici spaccano l’asfalto è importantissimo. I greci avevano un verbo bellissimo: “agorazein”, discorrere in piazza, in una sorta di ozio creativo. Non è vero che l’ozio è il padre dei vizi, è importante in tempi convulsi come questi prendersi uno spazio per meditare senza fretta.

 

Asia: che cosa avvia, come si sviluppa la tua creatività e in quali condizioni?

Alberto Figliolia: per esempio, ieri stavo andando a vedere una mostra a Milano e sono passato per Piazzale Tirana, una zona periferica che frequentavo da bambino perché mia nonna abitava da quelle parti, e c’erano, nella rotonda del tram, dei magnifici fiori viola e papaveri. Lì mi è scattato un link e ho pensato un haiku. Poi ho visto, percorrendo via Giambellino, le ombre dei platani e le foglie che si muovevano al vento e mi è venuto in mente un altro haiku (una forma di poesia giapponese a tre versi e diciassette sillabe). La macchina creativa ha preso avvio da un particolare in apparenza infimo. Quando sono arrivato a casa ho trascritto tutto quello che avevo memorizzato ed erano una decina di haiku. Devo aggiungere che l’haiku nasce così, dallo sguardo verso la natura e le piccole cose della natura presenti anche nella città. Poi delle volte ci sono degli elementi più complessi che danno vita a poesie più lunghe, e dipende molto dallo stato d’animo. Dico sempre che il beota e il beato non scrivono. Penso che anche la frustrazione possa essere una potente molla creativa; una persona perfettamente felice non scriverebbe un rigo probabilmente. Paradossalmente anche la nevrosi può generare scrittura. Forse è anche un meccanismo difensivo, di sopravvivenza. Pensiamo a “La ballata del carcere di Reading” di Oscar Wilde: non l’avrebbe mai scritta se non fosse mai stato incarcerato per ciò di cui incredibilmente era accusato al tempo. Le poesie più lunghe nascono anche da situazioni di disagio esistenziale. Non è un caso che dal nostro Laboratorio di scrittura creativa in carcere le persone detenute che lo frequentano sono estremamente abili e producono dei versi eccellenti, a volte addirittura magistrali e sempre emblematici. Il dolore, la noia, la solitudine, il senso di fallimento incombente riescono a portare alla genesi di lavori poetici mai autoreferenziali, oltremodo interessanti.

 

Gloria: che conseguenze ha sulle tue emozioni e sul tuo stato d’animo la produzione creativa?
Alberto Figliolia: è catartica. Quando scrivo in prosa, soprattutto giornalistica, si attiva un’altra parte pensante e sono un osservatore più obiettivo e meno “sentimentale” dei fatti. Di sicuro c’è una grande gratificazione nello scrivere, anche se è commista alla fatica. Scrivere è faticoso. Si mischiano piacere, fatica e catarsi finale. Quando esce un tuo libro è quasi come un parto, come se fosse un piccolo figlio.

 

Asia: Come incide l’atto creativo sulla percezione di sé?

Alberto Figliolia: incide perché è un continuo scavo interiore che fai incessantemente nel profondo, mettendo a nudo e ti mettendoti a nudo. Chi scrive non può fingere più di tanto, nonostante quello che diceva Pessoa coi suoi versi… “Il poeta è un fingitore./ Finge così completamente/ che arriva a fingere che è dolore/ il dolore che davvero sente.” Con la poesia metti a nudo anche la tua fragilità ed è importante che si manifesti questa fragilità in un mondo che vorrebbe il superuomo super-produttivo e super-efficiente. Bisogna invece imparare a guardarsi dentro, scrutarsi anche senza ritegno ed esplicitare quello che senti. Poi c’è anche la forma, specialmente se parliamo di poesia. Nella percezione di sé, nella conoscenza di sé stessi è fondamentale andare nei meandri della propria anima. Ciò è  molto terapeutico, oltre che un dono al mondo. Nel caso della scrittura non bisogna temere chi ti dona sé stesso attraverso la poesia. La poesia salva la vita, almeno a me ha salvato la vita tante volte.

 

Gloria: nel rapporto con gli altri che cosa determina l’atto creativo

Alberto Figliolia: gli altri sono “costretti a fruirne”… Per esempio, non solo i lettori che magari non mi conoscono, ma anche nelle relazioni coi miei amici la scrittura è importante, per me è un mezzo. Infatti anche con i social mando poesie. Poi gli amici apprezzano, quindi diventa uno scambio proficuo. Il lavoro poetico non è più solo mio, ma anche di chi lo legge. È chiaro, ribadisco tuttavia, che io legga più di quanto scriva e legga più poesie di quante ne scriva, per cui non mi occupo solo della mia poesia in maniera solipsistica o per affermare il mio io. Mi piace molto collaborare con altri, ho scritto libri a quattro mani, ho scritto prefazioni. Si stabilisce un universo di relazioni che aiuta la creatività reciproca. A volte non riesco neanche a fare tutto quello che vorrei. Ma va bene così, meglio avere tanto da fare che non avere nulla da fare.

 

Asia: è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?

Alberto Figliolia: sicuramente sì, è inutile negarlo. Io scrivo perché è la mia modalità d’espressione, con cui cerco di mettere ordine nel caos del (mio) mondo. Poi è gratificante il fatto che ciò che scrivi possa piacere o essere d’aiuto agli altri. Questo è un rimando che non ti lascia di certo indifferente, anche se poi non è quello il motivo per cui si scrive, perché io scriverei comunque. Guido Morselli, un grande autore del secolo scorso, morto suicida, è stato pubblicato tutto dall’Adelphi, ma in vita non l’aveva pubblicato nessuno. Un genio incompreso in vita, eppure ha continuato a scrivere nonostante l’incomprensione. Forse, se avessero pubblicato prima le sue opere, non si sarebbe suicidato. Questo è un esempio lampante di come anche il riconoscimento esterno possa essere utile a chi è creativo.

 

Gloria: chi sono i suoi principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

Alberto Figliolia: io credo che la poesia sia fruibile da tutti. È chiaro che non è un prodotto da laboratorio, anche se dietro c’è tanto studio. Deve colpirti e l’impatto emozionale è importante. Quindi nel mio “presunto”/potenziale pubblico ci sono lettori molto variegati.  Io credo che la poesia sia un fenomeno molto democratico. A me è capitato di fare anche molto il “poeta di strada”, a contatto con gente sconosciuta che si fermava e a cui leggevo una poesia. Poi non è detto che comprasse il libro, ma intanto si era stabilito un nesso. Quindi chiunque può fruire della poesia, è questione di buona volontà, di apertura del cuore e di non avere pregiudizi nella testa. La poesia per questo motivo sfonda le porte.

 

Asia: quale immagine le viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

Alberto Figliolia: essendo un fanatico dei libri per me aprire un libro, sfogliarlo, annusarlo è già un atto creativo, così come prendere appunti e pensare a mille progetti. Se dovessi indicare un’immagine direi la carta e la penna che trascrive le parole. È vero anche che la poesia si può serbare nella mente, ma la scrittura permette di fissarla e renderla disponibile a tutti.

 

Gloria: pensa che possa esistere una relazione tra depressione e creatività?

Alberto Figliolia: secondo me sì. Io, quando ho avuto momenti di depressione, di scoraggiamento esistenziale, di spaesamento, ho sempre scritto e mi è sempre stato di giovamento. Poi non è detto che quello che scrivi sia sempre bello e magari dopo mesi o anni puoi buttare via, ma qualcosa può rimanere. Una conferma di ciò l’ho avuta nella mia esperienza di insegnante volontario in carcere. Il luogo in cui si scrive di più a mano è il carcere, anche perché emerge il bisogno di mettere sulla carta i propri pensieri, ponendosi in relazione con gli altri, pur in situazioni anche molto frustranti dal punto di vista esistenziale. Certo, la vita è un’altalena, ci sono alti e bassi, quindi a volte si scrive anche in condizioni di moderata felicità. Nonostante ciò, nel mio caso, la frustrazione, la malinconia, lo spaesamento mi portano ad essere anche più creativo. E ogni tanto è bello essere spaesati perché si vedono le cose in un’ottica diversa… Io dico sempre che i visionari sono i meglio informati dei fatti, mentre il pragmatismo rischia di rovinare il mondo.

 

Asia: quando un prodotto creativo è davvero concluso?

Alberto Figliolia: forse mai, a parte probabilmente la Divina Commedia, l’Iliade, l’Odissea… Anche Manzoni ha riscritto I promessi sposi. Anche Il giocatore di Dostoevskij ha delle piccole discrasie, però è egualmente un capolavoro.  Prendendo in mano un mio vecchio libro mi capita di pensare che alcune cose le scriverei diversamente. Bisogna essere aperti anche questo panorama di possibile mutamento.

 

Gloria: pensa che la creatività possa avere una funzione sociale e, se sì, quale?

Alberto Figliolia: sicuramente sì. Non esisterebbe letteratura, se non fosse così. Io credo, soprattutto nel caso della poesia, che l’autore non debba mai essere svincolato dalla lettura del mondo. Deve intervenire nel mondo, tant’è vero che i poeti sono spesso temutissimi dal potere e sovente esiliati o condannati a morte. A me è capitato di partecipare ad un’antologia di poesie per Giulio Regeni, dove sono intervenuti decine di poeti, perché il poeta non solo ha il diritto, ma il dovere di intervenire nelle cose del mondo. Il poeta non si occupa solo di filosofia, metafisica, destini del mondo, e non è perso in universi di simboli. Quindi la relazione e la funzione sociale della poesia sono imprescindibili.

 

Asia: la creatività è un dono naturale, privilegio di pochi, o si tratta di una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

Alberto Figliolia: credo che ci sia di base, come detto, un talento e che questo vada “allenato” con continuità e costanza. Non è detto che tutti debbano per forza scrivere un romanzo o delle poesie. Anche un professore che ama la poesia e ne parla ai suoi allievi, pur non scrivendo poesie, sta comunque facendo qualcosa di creativo. Io spesso sono andato nelle scuole a tenere laboratori di haiku o a leggere poesie e parlare di scrittura. Tanti docenti non scrivevano, eppure aiutando gli allievi a costruire relazioni e conoscenze, stavano facendo qualcosa di creativo. Sicuramente c’è un talento, che in ogni caso deve essere coltivato. I miei genitori non leggevano molto, io invece ho sempre amato i libri – e loro comunque mi hanno assecondato e agevolato in questa mia passione, ciò di cui gli do con riconoscenza ampio merito, Credo quindi di avere avuto dentro di me, sin dall’incipit della mia vita, questa scintilla. Ciò che mi è servito è stato continuare a leggere e cimentarmi con il passare degli anni, passando anche attraverso il fallimento. Attraverso i tentativi e le prove il proprio talento può affinarsi e iniziare ad essere di sostengo agli altri, essere un dono per tutti.

 

Gloria: la creatività può avere un ruolo utile a scuola e/o nelle attività di recupero del condannato?

Alberto Figliolia: se si pensa che il bambino è padre dell’adulto e che dobbiamo sempre coltivare il fanciullino che è in noi è chiaro che bisogna agire soprattutto nelle scuole e alla più tenera età. I bambini, ad esempio, scrivono degli haiku bellissimi perché sono spontanei e hanno il dono della meraviglia. Anche per le persone detenute la scrittura, con quel continuo scavo dentro di sé, consente di rimettersi in carreggiata, di re-instaurare un corretto percorso esistenziale, facendo i conti con il proprio vissuto, senza farsi facili sconti. Per essere più consapevoli. Anche elaborando quella che io chiamo “la sindrome della tripla R”: rabbia, rimpianto e rimorso; attraverso questa elaborazione si può ripristinare una nuova via verso un orizzonte più luminoso.  In questi anni in cui ho lavorato come volontario nelle carceri ho potuto notare che grazie alla scrittura è come se germinasse un nuovo individuo, che nasce da quello vecchio, ma dal meglio di quello vecchio.  Ogni anno nel Laboratorio del carcere riusciamo realizzare un Calendario poetico-fotografico, ma anche antologie monografiche collettive o personali. Qualche anno fa è stato pubblicato il libro di uno del nostro Laboratorio: “Nessuna pagina rimanga bianca”, con il cui titolo si voleva indicare che ogni giorno è una pagina bianca su cui possiamo scrivere, se si ha consapevolezza. Senza questa, infatti, si scrive sul niente, si è semplicemente una vittima dell’ignoranza, di un contesto degradato. La scrittura riesce ad elevarti e a portarti in un’altra dimensione vitale ed esistenziale, che ti permette di capire le ragioni degli altri, anche di coloro a cui prima magari hai fatto del male. Sono sempre più convinto che la scrittura, ma soprattutto la lettura, siano un grande dono che si può fare a sé stessi e agli altri.

Intervista ed elaborazione di 
Asia Olivo e Gloria Marchesi

Alberto Figliolia: PoesiePubblicazioni Alberinube – Facebook

Interviste sulla creatività

 

Renato Converso

Renato Converso – Intervista sulla creatività

Renato Converso nasce in Calabria, da una famiglia di umili origini ed è il terzo di undici fratelli. A 17 anni va via di casa e sale su un treno per Milano. Per la prima settimana dopo il suo arrivo nel capoluogo lombardo dorme alla stazione centrale, poi andrà a vivere per qualche tempo in via Padova con alcuni suoi amici calabresi. Nella sua fuga il comico rintraccia l’inizio della sua esperienza creativa che, come lui stesso racconta, è animata dal bisogno vitale di far ridere il suo Io bambino; e così comincia a fare battute durante i suoi primi lavori di lavapiatti nei ristoranti e nei cantieri. L’ilarità che suscita nei colleghi gli procura un’intensa soddisfazione. Intorno ai 30 anni fa un provino presso un locale di Milano in cui sono nati comici italiani importanti e ottiene grande successo. In un secondo momento apre un proprio locale a Porta Genova, La Corte dei Miracoli Cabaret, in cui rimane per 35 anni vedendo crescere il proprio successo. 

 

Elisabetta: che cos’è per te la creatività?

Renato Converso: la creatività è figlia legittima del dolore e della sofferenza. Il genio comico di molti artisti del nostro Paese nasce proprio da una situazione di sofferenza. Pensiamo a Totò, figlio di un nobile che fece l’amore in una notte d’inverno con una donna di umili origini. Venne riconosciuto dal padre quando ormai era già un comico di successo. Questo è un esempio che conferma il concetto detto prima, ovvero che la creatività nasce da un contesto di estrema sofferenza, in questo caso l’iniziale mancato riconoscimento da parte del padre. 

L’obiettivo del comico non è quello di far ridere soltanto il pubblico, aspetto già di per sé molto importante, ma anche quello di far ridere se stesso o meglio, il suo Io bambino, per risarcirlo di tutti gli anni di dolore che ha subito durante la prima infanzia e adolescenza. Ed è quello che è successo nella mia esperienza: la comicità è stata per me una via d’uscita da una situazione drammatica. 

Corri Renà! Corri! Figli di terra rossa

Un altro aspetto importante della creatività è che essa crea la risata, questa antichissima ricetta per il mantenimento della salute, la quale fornisce soddisfazione e allegria. Ogni battuta detta in teatro, su un palco, crea ilarità ed induce il pubblico a vivere uno stato d’animo nuovo. Come affermano alcuni, questo stato d’animo nuovo è effimero e svanisce in un arco temporale breve, ma secondo me l’importante è proprio il fatto che il pubblico, una volta uscito dal teatro, riesca a percepire, anche per poche ore, una sorta di leggerezza positiva.

Ovviamente poi bisogna fare anche una distinzione tra la creatività positiva e quella distruttiva, la quale provoca grande dolore. Pensiamo ad esempio al contesto della guerra in cui, un genio creativo, crea una bomba che, se innescata, è in grado di uccidere centinaia di persone. Questa è la creatività distruttiva. Penso invece che la creatività che caratterizza noi comici sia sempre da considerarsi non nociva, in quanto permette di provare un’emozione positiva, sia al pubblico, sia al comico stesso. 

A prova del fatto che la creatività nasce da un contesto di sofferenza, vorrei riportare un episodio che accadeva spesso durante la mia infanzia. La mia famiglia viveva in condizioni economiche disagiate e, quando a pranzo chiedevo a mia mamma un po’ di formaggio grattugiato da mettere sulla pasta, lei mi costringeva dolcemente a guardarla negli occhi, prendeva un tovagliolo, faceva finta di tirare fuori da esso un po’ di formaggio, lo metteva sul mio piatto e io ridendo dicevo “Va bene così mamma, basta, grazie”. Questo piccolo gesto banale, anche nella sofferenza, faceva ridere me e i miei fratelli. Mia mamma era una persona molto creativa, e fin da piccolo cercavo di scoprire da dove nascesse il suo essere creativa nonostante la sofferenza provata.

 

Gloria: quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Renato Converso: come detto prima, sicuramente l’ingrediente principale è una condizione di sofferenza. Infatti, una persona che non prova dolore nella propria vita ed ottiene tutto ciò che vuole, non ha alcun tipo di interesse e necessità nel creare un qualcosa di nuovo come un prodotto creativo. 

La creatività, oltre ad essere qualcosa che nasce in condizioni dolorose, è anche uno strumento che permette di superare le difficoltà. Per esempio la mia vena creativa si esprime anche nella capacità di suonare cinque strumenti musicali alla volta. Grazie al mio lavoro ho visitato molti stati del mondo e, nei momenti di difficoltà, ho sempre ripensato alla mia infanzia ed adolescenza travagliata ed a questa mia capacità creativa di suonare cinque strumenti alla volta. Questi pensieri mi hanno dato la forza straordinaria per affrontare anche i momenti più complicati.  

 

Elisabetta: cosa avvia, come si sviluppa la tua creatività e in quali condizioni?

Renato Converso: penso che una delle condizioni per lo sviluppo della creatività sia la guida di una persona che ha già conoscenze in campo comico. Io stesso sono stato un mentore per giovani che adesso sono personaggi di successo, come Pucci e Baz, Mister Forest, Max Pisu. Mi sento orgoglioso del fatto che dalla pedana della Corte dei miracoli sono nati artisti come I Fichi d’india, Flavio Oreglio, Marina Massironi e Giacomo Poretti, Nando Timoteo, Max Pieriboni, Scintilla Fubelli, Gianluca Impastato, Carletto Bianchessi e Marco Bazzoni Baz, il mago Elias, Duilio Martina e molti altri ancora. 

Un altro ingrediente che aiuta, che può sembrare banale ma non lo è, sono le uscite e le cene con gli amici comici. Infatti, è nei momenti in cui si parla del più e del meno e degli accadimenti più recenti che nascono le battute. Oppure la mia vena creativa trova espressione anche nei momenti in cui cammino per strada, incontro la gente che mi segue nei miei spettacoli e, per farla ridere, penso a battute nuove legate a ciò che sto vivendo in quel contesto. 

Gloria: che conseguenza ha sulle tue emozioni e sul tuo stato d’animo la produzione creativa?

Renato Converso: durante la produzione creativa avverto sempre tanta tensione perché è un processo che, volente o nolente, mi riconnette sempre con le mie esperienze passate.  Una volta concluso lo spettacolo invece, percepisco una grande soddisfazione per quello che ho creato, seguita da un vuoto fortissimo che però considero positivo perché deriva proprio dalla gratificazione precedente. È questo vuoto che, connesso al ricordo di aver provato una sensazione di piacevole soddisfazione, mi spinge a far ripartire da capo il processo creativo.

 

 


Elisabetta
: che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di te stesso?

Renato Converso: sicuramente vedere un prodotto creativo realizzato e portato a termine solo con le mie conoscenze e la mia forza è estremamente gratificante. Ho sempre scritto i miei testi e dialoghi da solo, come il libro che ho appena pubblicato, e quando la gente mi fa i complimenti e ride alle mie battute è molto gratificante perché mi rendo conto di quello che sono in grado di creare. Inoltre, come ho accennato precedentemente, la creatività mi permette di mettermi in contatto con una parte dolorosa della mia vita e consente, un’elaborazione emotiva del mio passato anche dopo anni. Complessivamente posso dire che, quando creo, provo una sorta di amore verso me stesso. 

 

Gloria: nel rapporto con gli altri il tuo atto creativo che cosa determina?

Renato Converso: è una specie di patologia seria, non posso fare a meno degli altri. Tutti sanno che nella vita non ho saputo fare di meglio che far ridere gli altri, quindi quando dici una cosa seria e drammatica devi inserire sempre un tocco di ilarità. E’ bello sentire l’altro ridere, emozionarsi. Mi dà sollievo e mi fa stare bene il rapporto con gli altri.

Cuore di Pane – Renato Converso

 

Elisabetta: quanto è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?

Renato Converso: è tutto. E’ importantissimo che la gente rida quando si apre il sipario. Gli autori comici hanno sete della risata. Ti senti appagato e soddisfatto. Poi quando finisce la commedia molte persone stanno fuori ad aspettare che tu esca per farti qualche domanda abbracciarti, darti la mano, qualcuno che si è emozionato; è una cosa bellissima.

 

Gloria: chi sono i principali fruitori del tuo prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

Renato Converso: nella mia esperienza alla Corte dei Miracoli, capitava venisse gente, coppie che prima dello spettacolo avevano litigato: alla fine mi scrivevano “abbiamo fatto pace grazie a te”. Oppure, faccio un esempio: io feci uno spettacolo al carcere di Opera con il dottor Aparo ed è successo che i detenuti fossero così divertiti e ridevano così tanto insieme agli operatori e ai poliziotti del carcere che si era creata un’unica grande famiglia. Per un momento gli ho fatto scordare che fossero in carcere. Io ero in un lago di sudore, sono sceso in mezzo a loro e molti mi hanno abbracciato anche se ero impresentabile. E’ importante per me quanto per loro, è uno scambio di emozioni alla pari. La creatività nasce dal dolore, ma riesce a far dimenticare la condizione di dolore durante lo spettacolo.


Locandina di Adriano AvanziniIl convegno nel carcere di Opera

 

Elisabetta: Quale immagine ti viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

Renato Converso: qualche scena di Totò, è il mio punto di riferimento artistico. Mi fa ridere e commuovere. Mi ispiro molto, per quello che riguarda la comicità, a Totò.

 

Gloria: credi che esista una relazione tra la depressione e la creatività?

Renato Converso: è una bella domanda che si scontra con la mia quinta elementare che non mi permette di rispondere bene. Io ho avuto un’esperienza di depressione, ma non ha avuto attinenza col mio lavoro. 

 

Elisabetta: quando un prodotto creativo è per te davvero concluso?

Renato Converso: un prodotto creativo è concluso quando hai finito di scriverlo. Poi ti domandi cosa succederà dopo esserti esibito. Le reazioni del pubblico a fine spettacolo, quando poi torno a casa e mi corico sul letto e con gli occhi aperti fisso il soffitto e mi chiedo “è andata bene? è andata come mi aspettavo?”.

 

Gloria: pensi che la creatività possa avere una funzione sociale se sì quale?

Renato Converso: la creatività nel sociale è importantissima. Ho fatto tanti spettacoli per Emergency. Il pubblico fa donazioni agli spettacoli per aiutare. Offrire la comicità per ottenere la solidarietà. 

 

Elisabetta: la creatività è un dono naturale, privilegio di pochi o è una competenza accessibile a tutti che può essere allenata?

Renato Converso: può darsi che sia una cosa che riguarda un po’ tutti. Ma penso che la creatività venga sviluppata solo attraverso il dolore. E’ figlia legittima del dolore, in modo particolare per quanto riguarda i comici.

 

Gloria: la creatività può avere un ruolo utile a scuola e/o nelle attività di recupero del condannato?

Renato Converso: la creatività mi ha salvato la vita, essendo nato in un contesto disagiato. Se non fosse stato per la creatività magari a quest’ora sarei un delinquente.

Intervista ed elaborazione di
Elisabetta Vanzini e Gloria Marchesi

Renato Converso su FacebookInterviste sulla creatività

Stefano Zuffi

Stefano Zuffi – Intervista sulla creatività

Stefano Zuffi è uno storico dell’arte. Egli racconta di aver potuto sviluppare il suo interesse per l’arte grazie a una formazione specifica e ha avuto la fortuna di fare della sua passione la sua professione. In particolare, Stefano si occupa di divulgazione culturale. Gli piace molto coinvolgere altre persone nella sua passione per l’arte e, nello specifico, nell’arte antica. Ha sempre cercato di trasmettere la sua passione tramite diversi sistemi. Principalmente ha scritto libri illustrati riguardanti la storia dell’arte, ma oltre a questo si è occupato nel corso della sua carriera dell’organizzazione di mostre, viaggi culturali, visite guidate, trasmissioni radiofoniche, spinto sempre dal desiderio di raccontare e coinvolgere un vasto pubblico.

Occupandosi di storia dell’arte, Stefano Zuffi è sempre stato coinvolto nella creatività, anche se afferma di non potersi definire una persona molto creativa. Tuttavia, ciò che più gli piace è cercare di raccontare e poter far vivere alle persone le storie dei quadri, degli artisti, delle città, dei monumenti, le storie dei musei e delle situazioni. Egli afferma di sentire molta gratitudine nei confronti della creatività, che è un grande dono che viene trasmesso attraverso le generazioni e i diversi secoli, oltre che attraverso i continenti. Di fatto, la creatività non ha confini. Questo concetto per lui è fondamentale e poterlo trasmettere rappresenta la sua passione.

 

Ottavia: Che cos’è per lei la creatività?

Stefano Zuffi: La creatività è l’essenza dell’essere umano. Io ritengo che la specie umana si sia qualificata e staccata dalle altre specie animali nel momento in cui ha cominciato a produrre delle opere d’arte.

Ma cosa sono le opere d’arte? Sono degli oggetti sostanzialmente inutili, cioè degli oggetti che non hanno una immediata praticità. Non servono per catturare un altro animale, non servono per migliorare concretamente l’esistenza in fondo ad una caverna, non ti rendono più forte del tuo rivale con cui devi contenderti il territorio, non fanno crescere i frutti sugli alberi o l’acqua in un ruscello. Tuttavia, l’arte è qualcosa che ha fatto crescere l’essere umano. L’arte è un’espressione della creatività nel fatto di creare qualche cosa che prima non c’era.


Le grotte di Lascaux

E che cos’è la creatività? La creatività vuol dire creazione, è un atto divino. È Dio che crea il mondo, le stelle, i vegetali, gli animali e poi alla fine di tutto crea anche l’uomo.

Parlare di creatività vuol dire fare qualcosa che prima non c’era, anche se è diverso dall’inventare. Infatti, la parola “invenzione”, dal punto di vista etimologico, significa trovare qualcosa che c’era già: colui che inventa ha l’abilità, l’intelligenza, la fortuna di trovare qualcosa che c’era già prima e metterla in luce. Invece la creatività è qualcosa di molto diverso perché significa aggiungere al mondo una possibilità completamente nuova.

Leonardo da Vinci ha scritto una frase stupenda: “Il pittore è signore e padrone di tutte le cose, perché se vuole le può creare”. Creare significa proprio potersi immaginare tutto ciò che si desidera. Egli, infatti, fa poi una serie di paragoni dicendo che se l’uomo vuole bellezze che lo facciano innamorare, egli è padrone di crearle, se vuole cose veramente buffonesche o risibili, egli è padrone di crearle; se quando fa freddo e vuole immaginare una spiaggia di sabbia dorata e calda la può creare e se, quando fa caldo, vuole una montagna piena di neve la può creare. Questa frase dà proprio l’idea della libertà. La creatività è libertà: libertà di lasciare la propria mente, le proprie mani e andare verso nuove scoperte, verso nuovi orizzonti.


Les demoiselles d’Avignon, Pablo Picasso

Leonardo dopo di tutti questi esempi dice: “alla fine, tutto ciò che c’è nell’universo, nella realtà e nell’immaginazione il pittore ce l’ha prima nella testa e poi nelle mani, e quelle fanno in un istante un’armoniosa bellezza, come fa la natura”. Infatti, tutto quello che di meglio può fare un artista, la natura lo fa spontaneamente.

La creatività per me è proprio questo: fare qualcosa che prima non c’era.

 

Asia: Quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Stefano Zuffi: Prima di tutto un elemento indispensabile è la curiosità, che significa non limitarsi a ciò che è già noto e conosciuto e fermarsi a questo. Se invece, con un po’ di fiducia nelle nostre capacità usciamo da questa comfort zone, ecco che scatta un percorso di attenzione e di ricerca di stimoli. La creatività, infatti, ha bisogno di stimoli: l’intuizione scatta nel momento in cui cominciamo a guardarci intorno e a ricevere degli stimoli.

Anche in questo caso vorrei citare Leonardo. Egli era un grande camminatore, gli piaceva fare delle lunghe passeggiate nella natura, che per lui erano sempre occasioni per ricevere stimoli e spunti. Leonardo racconta di aver fatto una passeggiata d’estate in un bosco che non conosceva, ad un certo punto arriva davanti all’imboccatura di una caverna e si ferma: non sapeva niente di questa grotta, si è piegato in avanti cercando di scorgere il fondo, ma non vedeva niente perché la caverna era molto profonda e scura. Egli narra che subito nacquero in lui due cose: paura e desiderio. Paura per la minacciante e oscura caverna, desiderio di vedere se là dentro ci fosse qualcosa di miracoloso.


La vergine delle rocce, particolare – Leonardo da Vinci

Leonardo ci mette di fronte a questi due sentimenti, che sono proprio quelli tra i quali si crea un corto circuito che porta alla creatività. Il primo sentimento è quello della paura, la paura per l’ignoto, e molte persone si fermano davanti a questa paura. Ma Leonardo dice no perché c’è un altro sentimento, forse ancora più forte, che è il desiderio: il desiderio della conoscenza, la curiosità. Non è detto che vincendo la paura dell’ignoto si scoprirà davvero un tesoro in fondo alla caverna, ma vale la pena di tentare.

La creatività è quella molla che ti spinge a cercare e a metterti alla prova.

 

Ottavia: Che cosa avvia, come si sviluppa la sua creatività e in quali condizioni?

Stefano Zuffi: Da una visione esterna, io svolgo un’attività particolarmente creativa perché lavoro nei musei, organizzo mostre. Si direbbe che io abbia una fortunata occasione di lavorare con la creatività.

Si può dire che la mia creatività è un po’ parassitaria perché mi baso sulla creatività altrui. Io cerco di unire la struttura del mio mestiere con il tentativo di fare sempre qualcosa di nuovo. Tempo fa mi hanno chiesto come facessi a scrivere sempre qualcosa di nuovo visto che ormai ho scritto centinaia di libri. Qui c’è l’aspetto della creatività: nel cercare ogni volta un percorso diverso, un approccio che proponga qualcosa di nuovo e che magari vada a toccare qualcuno che fino a quel momento era stato indifferente.


L’assenzio – Edgar Degas

 

Asia: Che conseguenze ha sulle sue emozioni e il suo stato d’animo la produzione creativa?

Stefano Zuffi: Secondo me è l’opposto: io riesco ad essere creativo se ho delle emozioni. A volte ho delle scosse molto forti, io sento la voce delle opere d’arte, che cercano di raccontarmi la loro storia. Quando avverto questa consonanza ed entro in sintonia con la vita di un’artista, allora a quel punto mi sento autorizzato ad agire con creatività nei suoi confronti per cercare di trasmettere le mie riflessioni anche ad altri.

Il ritorno del figliol prodigo – Rembrandt

 

Ottavia: Come incide l’atto creativo sulla percezione di sé?

Stefano Zuffi: Senza creatività l’uomo non esisterebbe. Sarebbe solamente spinto da bisogni primari, sarebbe ancora più violento e cattivo di quanto già non sia. Per fortuna c’è questa umanità che è la creatività. Se non avessimo avuto la creatività veramente saremmo ancora nelle caverne.

Bisogna però riflettere sul fatto che la creatività non sempre raggiunge buoni risultati: è stato un atto creativo anche la creazione della bomba atomica. Alla fine, bisogna essere molto creativi anche per inventare cose micidiali. Esiste quindi anche una creatività diabolica. Non bisogna idealizzare il termine “creatività”, che non è di per sé un valore positivo. La creatività come tutte le doti può essere incanalata verso scenari diversi. Io per fortuna mi occupo della creatività positiva, dell’arte.


I bari – Caravaggio

 

Asia: Nel rapporto con gli altri cosa determina l’atto creativo?

 Stefano Zuffi: Credo sia un gesto di generosità: se cerco di inventare nuovi argomenti e nuove prospettive, cercando di essere creativo e propositivo uscendo dalla comfort zone, metto a disposizione delle persone con cui interagisco opzioni nuove e inaspettate. È importante essere proattivi e non chiusi e passivi. Il rapporto con gli altri è sempre dialettico e dialogico, devo essere pronto a recepire la creatività altrui, ci dev’essere una reciprocità ma non è sempre facile.

Sisifo – Tiziano

 

Ottavia: Quanto è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?

 Stefano Zuffi: Il riconoscimento degli altri è ciò che distingue una vera opera d’arte da qualcosa che non lo è. Tuttavia, è molto difficile dare una definizione di “opera d’arte”: chi stabilisce se l’oggetto che ho in mano, in questo momento, è un’opera d’arte oppure no? È una semplice matita. Eppure, se questa matita venisse conficcata in questo punto da Cattelan, allora sarebbe un’opera d’arte. È difficile dare una definizione di “opera d’arte”, soprattutto nell’arte contemporanea, che prescinde dalla qualità del manufatto. Il giudizio degli altri è fondamentale. Io penso che i sogni siano molto creativi e capitano a ogni persona. Ma, se un’idea, anche la più brillante, non viene condivisa, allora non ha molto senso; invece, diventa importante quando viene condivisa nella relazione con gli altri perché saranno proprio questi a giudicare se la proposta creativa funziona oppure no.

 

Asia: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

 Stefano Zuffi: Tutti coloro che non sono indifferenti. La nostra cultura ha privilegiato molto la creatività, basti pensare alla pubblicità. Il creativo è colui che lavora nella pubblicità, cercando di mettere insieme delle dinamiche sociali, creando dei bisogni e riuscendo a sfondare il muro dell’apatia e dell’indifferenza. A questo proposito, penso alla nebbia delle persone indifferenti. È molto importante riuscire a superare il muro dell’indifferenza raggiungendo le persone, anche quelle avvolte nella nebbia.

La chiamata di San Matteo – Caravaggio

Per fare un esempio di creatività, pensiamo ad alcuni calciatori che sono più bravi di altri perché sono creativi, cioè hanno delle intuizioni. Riescono a vedere in una situazione di gioco una possibilità, un’alternativa che gli altri non vedono. La creatività è allora fare qualcosa di inaspettato, non banale, che non era previsto, qualcosa di non ripetitivo e di fuori-campo. Basti pensare a Maradona: nessuno avrebbe mai pensato che con il suo fisico sgraziato potesse essere un’artista impressionante. Una volta, vedendo che il portiere era un po’ lontano dai pali, gli è venuto in mente di tirare da 50 m di distanza un pallone che è finito in rete… quello è stato un momento di creatività.

 

Ottavia: Quale immagine le viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

 Stefano Zuffi: Penso a quando 20 000 anni fa un nostro antenato, con la mano sporca, si è appoggiato su una parete di roccia di una caverna lasciando la sua impronta. Egli ha guardato l’impronta, ha intinto la mano nel fango e l’ha rimessa sulla parete della caverna. Perché l’ha fatto? Era una forma di sortilegio? Di rito propiziatorio? Secondo me questa è stata l’origine dell’atto creativo.

Grotte di Lascaux

 

Asia: Pensa che esista una relazione tra depressione e creatività?

 Stefano Zuffi: Sono sicuro di sì e questo lo dice un grande artista come Albrecht Dürer il quale ha vissuto a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento ed è stato un formidabile creatore di immagini non solo nella pittura ma anche nelle incisioni; ed era certamente una persona depressa. All’epoca non esisteva il termine “depressione” ma si parlava di “melanconia” e lui diceva di soffrirne. È una condizione esistenziale che lo portava a essere solitario, a non cercare i contatti umani chiudendosi in una solitudine pensierosa che aveva conseguenze anche sul piano fisico (raccontava di soffrire di travasi di bile nera). Però diceva che tutto questo soffrire gli era indispensabile perché per cercare di superare il malessere creava e nell’arte concentrava le sue forze. La creatività è stata per lui la cura della depressione.

 

Ottavia: Per lei quando un prodotto creativo è davvero concluso?

 Stefano Zuffi: Mai. Il prodotto creativo, per definizione, è qualcosa che viene messo a disposizione. Se pensiamo a un libro pubblicato o a una canzone, diamo per scontato che il prodotto creativo sia giunto al termine. Ma quando rileggiamo un libro o riascoltiamo una canzone, queste creazioni ci possono riproporre un dialogo creativo. Pensiamo, ad esempio, a un quadro che finisce in soffitta e viene dimenticato o alle centinaia di milioni di libri che sono stati pubblicati e poi sono stati dimenticati: l’atto creativo ha esaurito il suo ciclo vitale. Ma, quando un oggetto, sia esso un quadro, un libro o un brano musicale, vengono riguardati, riletti o riascoltati, il ciclo creativo ricomincia e l’atto creativo riprende. L’atto creativo è in funzione quando intercetta lo sguardo dell’altro.


Amor vincit omnia – Caravaggio

 

Asia: Pensa che la creatività possa avere una funzione sociale? Se sì, quale?

 Stefano Zuffi: Penso che ciò che è brutto e degradato abbia delle conseguenze sociali rilevanti. Noi ci illudiamo di vivere in un Paese meraviglioso in cui siamo circondati dalla bellezza: il mare, le montagne, le opere d’arte, ecc. ma la verità è che più della metà degli italiani vive in posti orribili, anonimi, in quartieri sorti frettolosamente e con materiali inadeguati, con progetti urbanistici gretti e cupi. È indispensabile che questi contesti in cui vivono milioni di persone vengano rivitalizzati dal tocco della creatività e della bellezza. Ad esempio, uno dei miei figli ha dato vita a un’associazione con cui ridipingono la pavimentazione dei playground dei campetti di pallacanestro soprattutto nelle periferie grigie e anonime. Questi campetti sono per i giovani un tocco di colore e allegria, di speranza. Più che dire che la creatività abbia un ruolo sociale, direi che l’assenza di creatività ha delle pesanti conseguenze sociali.


La scuola di Atene – Raffaello

 

Ottavia: La creatività è un dono naturale privilegio di pochi o una competenza accessibile a tutti che può essere allenata?

 Stefano Zuffi: Penso che il talento sia un dono naturale, c’è qualcuno che è più bravo degli altri in determinati campi. Ognuno ha il proprio talento, è più portato per alcune cose piuttosto che per altre, non tutti hanno la stessa dose di talento. Tuttavia, la creatività può essere allenata e fatta crescere; non esistono grandi artisti che siano semplicemente spontanei: anche gli artisti più precoci hanno avuto la pazienza e il metodo di far crescere la loro creatività. Per fare un esempio, Mozart è stato baciato da un talento incredibile, era un bambino che suonava il clavicembalo meglio dei professionisti, aveva un talento naturale spontaneo. Mozart però ha studiato per tutta la vita, prendeva lezioni di contrappunto, studiava a memoria le composizioni altrui, cercava di acquisire nuove informazioni, viaggiava ed era curioso degli sviluppi tecnici degli strumenti musicali del suo tempo.

 

Asia: La creatività può avere un ruolo utile a scuola e/o nelle attività per il recupero dei detenuti?

 Stefano Zuffi: Si, se si riesce a trovare la combinazione tra l’espressione dei propri sentimenti e della propria natura e la cura per la forma con cui vengono espressi determinati concetti. Qualunque cosa esprimiamo attraverso la pittura, la cucina, la musica, ecc., non ci dobbiamo accontentare della semplice spontaneità, come se il medium non fosse importante. Il modo in cui la creatività viene espressa è parte integrante del messaggio che viene proposto. Creatività è anche sapersi rivolgere a qualcuno cercando di far pervenire quello che vogliamo dire nel modo più coinvolgente possibile.


Mangiatori di patate – Vincent Van Gogh

Sarebbe grave porre dei vincoli troppo rigidi alla creatività. Vincent Van Gogh è stato ricoverato in un sanatorio per disturbi mentali da cui non poteva uscire ma ha avuto la fortuna di trovare un bravo medico che si è reso conto che per lui la vera cura fosse legata alla possibilità di esprimere la propria arte. Per questo il medico gli ha messo a disposizione degli strumenti per poter dipingere. Van Gogh, però, era chiuso entro quattro mura: non sapeva proprio che cosa dipingere. Chiese allora di poter uscire accompagnato a vedere la natura per trovare degli stimoli. Alla fine, si sa che Van Gogh è morto suicida, ma l’aver potuto dare sfogo alla sua creatività, in quel determinato periodo della sua vita, è stato indispensabile.

Intervista ed elaborazione di
Asia Olivo e Ottavia Alliata

Interviste sulla creativitàCaravaggio e la Chiamata
Alcuni libri di Stefano Zuffi

Carmelo Carrubba

Carmelo Carrubba – Intervista sulla creatività

Carmelo Carrubba, pittore da decenni, da qualche anno si dedica con maggiore assiduità a quella che è stata la sua passione fin da piccolo, ovvero la scultura di pietre, metalli e materiali vari che raccoglie durante le sue passeggiate, una passione che ha ereditato dal nonno paterno, un pittore figurativo discretamente riconosciuto a Catania.

Il ritorno alle origini è stato attivato qualche anno fa da una pietra che “lo guardava” mentre Carrubba era a passeggio per le campagne di Ragusa. Nel volgere di poche ore ne è nata l’opera che egli definisce come la più spontanea e la più sorprendente delle sue. In conseguenza della estemporaneità della sua ispirazione, egli definisce la sua creatività merito soprattutto del suo istinto primitivo.

 

Elisabetta: Che cos’è per te la creatività?

Carmelo Carrubba: come prima cosa, credo utile distinguere fra creatività spontanea e quella indotta:

  • La prima comprende, ad esempio, gli episodi in cui, camminando per strada, vedo un oggetto che mi ispira e dà vita a un particolare progetto. Comincio ad immaginarmi cosa potrei fare con questo elemento naturale e in un secondo momento, mentre metto mano sull’elemento che mi ha attirato e procedo con il mio lavoro, esso si trasforma in un prodotto che non avevo previsto, che non corrisponde totalmente all’idea iniziale e che non sarei riuscito ad immaginare. In generale nell’arte, tranne per gli artisti che si dichiarano seguaci di una pittura piuttosto classica e sono quindi tenuti a seguire determinati canoni artistici, nessuno parte con un’idea precisa e un piano che viene seguito pedissequamente durante la produzione. Questo perché, in corso d’opera, ci sono tanti cambiamenti che portano ad un’idea diversa rispetto a quella da cui si era partiti. Paradossalmente, la creatività può prendere vita a partire da un errore, per esempio un colpo di scalpello inflitto troppo forte sulla pietra, che causa la rottura del naso sul viso che sto realizzando, e ciò costringe a rivedere e ripensare il prodotto creativo, il quale alla fine sarà differente da ciò che avevo immaginato all’inizio. È questo tipo di creatività spontanea che caratterizza in maggior misura la mia produzione artistica.
  • Con creatività indotta, invece, mi riferisco a quel tipo di curiosità verso un ambito preciso dell’arte, che nasce per esempio nel momento in cui l’individuo rimane colpito dalla visione di un documentario riguardante artisti molto particolari, e questo fa scattare l’interesse dell’artista.

 

Alice: quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Carmelo Carrubba: credo siano principalmente due: da un lato, troviamo la capacità di trasformare degli stimoli ambientali in un’opera personale, processo reso possibile da un’immaginazione fervida; dall’altro, la soddisfazione che deriva dalla creazione dell’opera una volta portata a termine.

L’immaginazione è una qualità fondamentale, in quanto è ciò che permette di creare un progetto a partire da qualcosa che ci colpisce. Per esempio, l’immaginazione gioca un ruolo fondamentale quando, camminando per strada, vedo un cartellone pubblicitario sbiadito e rovinato dagli agenti atmosferici e, osservandolo bene e andando al di là del mero oggetto di carta, mi rendo conto che all’interno di esso riesco a distinguere un’immagine astratta che mi ispira.

Tuttavia sono convinto che la capacità di immaginare non sia prerogativa esclusiva dell’artista e che tutti possano cimentarsi nel processo di immaginazione. Per esempio, se si domanda ad una persona naïf (artisticamente parlando) cosa vede nell’opera che sta osservando, ella risponderà guidata da ciò che la sua immaginazione le permette di vedere, immagine che quasi certamente sarà diversa da ciò che ci vedo io.

Un altro aspetto che mi piace sottolineare è che la soddisfazione che deriva dalla realizzazione del prodotto creativo, permette l’attivazione di un circolo virtuoso che spinge alla produzione continua di nuove opere.

 

Elisabetta: cosa avvia, come si sviluppa la tua creatività e in quali condizioni?

Carmelo Carrubba: sicuramente una condizione molto importante che porta allo sviluppo del processo creativo è la spontaneità citata poco fa. L’atto creativo, infatti, prende avvio in maniera molto spontanea, come se ci fosse un fattore scatenante che mi stimola e mi spinge ad attivarmi, a muovere le mani e a produrre qualcosa di nuovo. È come se fossi guidato da un istinto che mi induce ad esternare ed a concretizzare il mio estro creativo, attraverso la lavorazione di un elemento naturale che mi colpisce e che io raccolgo per poi lavorarlo.

Per esempio è da due anni che sto cercando di portare a termine un’opera, la quale, pur non essendo ancora finita, non corrisponde all’idea iniziale su cui ho basato il mio progetto. La scintilla per la realizzazione di quest’opera è nata da un oggetto piuttosto singolare che ho trovato in campagna, ovvero un semicerchio incurvato di metallo che ho poi lavorato con la cartapesta. Da questo oggetto abbandonato e dimenticato ha preso forma un uomo stilizzato che cerca di scappare – una delle caratteristiche delle mie opere è che non realizzo mai le figure in maniera dettagliata ma le lascio piuttosto stilizzate –. Ad un certo punto però, mi sono reso conto che più aggiungevo elementi, meno l’opera mi soddisfaceva. Allora ho cominciato ad eliminare vari elementi e l’opera cominciava ad appagarmi di più. Tuttavia non sapevo come portare a termine il mio prodotto creativo, in quanto non riuscivo a realizzare la testa di quest’uomo e, per quanto ci provassi, non trovavo la giusta ispirazione per concluderla. Per fortuna qualche giorno fa, per caso, ho notato un oggetto da me realizzato precedentemente: ho preso un bicchiere di plastica all’interno del quale ho versato della ceramica in polvere che, dopo essersi indurita, ha dato forma ad un elemento dalla forma molto particolare, che ho usato appunto come testa dell’omino stilizzato. Ora, quando guardo la mia scultura, mi sento finalmente gratificato e soddisfatto, in quanto percepisco che mi comunica qualcosa. Oltre ad un’ispirazione improvvisa, non credo ci siano altre particolari condizioni necessarie alla creatività.

 

Alice: che conseguenze ha sulle tue emozioni e sul tuo stato d’animo la produzione creativa?

Carmelo Carrubba: sono cresciuto in un ambiente molto prolifico nel campo creativo e questo mi ha indotto a percepire la creatività come una qualità a cui aspirare. La produzione creativa mi dà forza e sapere di poter creare qualcosa mi appaga e mi fa sentire potente. È una soddisfazione personale, profonda ed intima, che nasce proprio dall’ispirazione non programmata ed improvvisa che vi sta alla base. Inoltre, quando sono impegnato nel processo creativo, mi sento permeato da un profondo senso di tranquillità.

Un altro aspetto molto interessante è che, quando realizzo un prodotto creativo, mi sento contemporaneamente estraneo e partecipe: estraneo, perché sto dando vita ad un oggetto su cui ho un progetto iniziale ma di cui non conosco il prodotto finale; partecipe, perché sto creando un’opera grazie alla sola forza delle mie mani e della mia immaginazione. In un certo senso, durante la concretizzazione del progetto, percepisco un distacco dal pubblico del mercato artistico, nel senso che non produco per piacere agli altri e quindi vendere, ma per rispondere ad un mio moto interno che mi ispira.

 

Alice: e nel rapporto con gli altri cosa determina?

Carmelo Carrubba: credo che il confronto approfondito con gli altri sia ristretto ad una cerchia di artisti con le conoscenze e le competenze necessarie per comprendere ciò che produco. Il rapporto con le persone che non appartengono al mondo artistico è più difficile. In generale, percepisco tra le persone una diffusa ignoranza artistica, causata dalla mancanza di un’adeguata educazione in tal senso. Non mi stupisce che i figli di registi, pittori e scrittori facciano, a loro volta, gli stessi lavori dei propri genitori. Questo avviene perché, fin da piccoli, sono stati educati e hanno vissuto in un ambiente artisticamente prolifico.

 

Elisabetta: quanto è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?

Carmelo Carrubba: Ogni volta che si fa qualcosa e la si propone agli altri, è bello ricevere dei complimenti, se questi ultimi sono sinceri. È giusto che ci sia il riconoscimento, perché ognuno crede nelle sue opere e per questo è bello ricevere un riconoscimento anche da chi non condivide la tua forma di espressione; a maggior ragione quando questo proviene da persone dello stesso settore.

La mia soddisfazione, comunque, non è rivolta alle persone che guarderanno la mia opera, prima di tutto devo  essere io ad apprezzarla.

 

Alice: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo? Come ne traggono giovamento?

Carmelo Carrubba: I fruitori possono essere tutti e tutti ne potrebbero trarre giovamento, ma tutto dipende dall’educazione e dall’ambiente in cui si è nati. Se si ha avuto la possibilità di entrare in contatto con persone che apprezzano l’arte, sarà più facile fruire dei prodotti creativi e, di conseguenza, trarne giovamento. Il problema, a mio avviso, è la scarsità di cultura artistica, ma tutti possono ottenere e portare beneficio attraverso questa o quella forma d’arte. Ciascuno a suo modo cerca di trasmettere anche agli altri quello che sente. Qualcuno giunge all’espressione artistica solo in età adulta, senza aver avuto un percorso artistico alle spalle, e penso che questa sia una cosa bella, che tutti dovremmo fare. Tutti dovremmo avere uno scopo diverso dalla solita giornata lavorativa.

 

Elisabetta: Quale immagine le viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

Carmelo Carrubba: Mi viene in mente un’immagine che ho visto ultimamente in un bel film su Michelangelo. Quasi alla fine del film, Michelangelo si ritrova con una grande mazza in mano e una colonna di marmo; in quel momento dice: “mi stai distruggendo” ed era proprio ciò che io volevo fare.

 

Donna

Alice:  pensa che esista una relazione tra depressione e creatività?

Carmelo Carrubba: Nel mio caso no, ma tanti altri artisti, grandi artisti, avevano dentro di loro una grande depressione. Tra questi Van Gogh, la cui depressione ha sicuramente influito sulla sua arte, sulla sua espressione ad alto livello. Dunque non escludo che possa esistere questo legame e che alcune persone possano ovviare alla depressione grazie alla loro creatività.

 

Elisabetta: quando per lei un prodotto creativo è davvero concluso?

Carmelo Carrubba: per me l’atto creativo è concluso quando io stesso sono soddisfatto; quando mi rendo conto che il risultato è quello che all’inizio cercavo, anche se non me ne rendevo conto.

 

Alice: secondo lei, la creatività può avere una funzione sociale?

Carmelo Carrubba: certo, la creatività ha una funzione sociale in tutte le sue espressioni. L’arte permette dicomunicare qualcosa agli altri, di fornire qualcosa da cui si possa trarre ispirazione.

C’è anche chi vede l’arte come uno strumento al solo scopo di lucro, di vendita, ma per me questo non è il veroobiettivo dell’arte: l’arte prima di tutto deve ispirare, fornire dei punti di riferimento.

 

Elisabetta: lei crede che la creatività sia un dono della natura, un privilegio di pochi oppure una competenza accessibilea tutti che si può acquisire ed allenare?

Carmelo Carrubba: non so se la creatività sia un privilegio di pochi, ma sicuramente può essere allenata. Se qualcuno che non ha mai preso un pennello in mano si mette davanti ad una tela ed comincia a impastare i colori, può scoprire di avere un talento. Sicuramente ci sono state tante persone che hanno avuto il dono innato della creatività; grandi artistiche già da piccoli riuscivano a riprodurre delle figure in maniera perfetta, senza aver mai preso lezioni di arte, che hanno imparato  da completi autodidatti.

Nel mio caso, pur essendo io un autodidatta, l’arte mi ha portato a vedere le cose in modo diverso da come le vedevo istintivamente, a scoprire la piccola scintilla che ognuno di noi ha dentro e che, se viene accesa, si può sviluppare.

 

Alice: la creatività può avere un ruolo utile nelle scuole? E nelle attività di recupero del condannato?

Carmelo Carrubba: certamente, sia nelle scuole, che nelle carceri! Se alle persone che non hanno più uno scopo si dà come obiettivo quello di creare un prodotto artistico o di fruirne, il recupero sociale è sicuramente facilitato. L’arte aiuta a sviluppare la consapevolezza di essere su una strada diversa da quella percorsa in precedenza, di poter essere utili a sé stessi e agli altri. Quando l’arte porta ad ottenere il riconoscimento e la stima degli altri, aiuta a capire che ciò che si ha dentro può essere investito anche in questa direzione che, sicuramente, da tanta soddisfazione.

L’arte, di qualsiasi tipo, dovrebbe essere utilizzata per prevenire, anche nelle scuole. Parlando con i ragazzi, spesso noto che sono molto preparati sull’arte. L’altro ieri, è venuto a farmi visita un ragazzino di tredici anni insieme a sua madre; ha visto un’opera in vetro-resina che avevo riassemblato  perché era caduta, creando così un’opera nuova. Prima di andarsene, il ragazzino mi ha detto: “Carmelo, dovresti fare altre opere così. Prendi un palloncino, lo riempi con del gesso, lo fai gonfiare, poi lo rompi e riassembli tutto”.

Questo vuol dire che l’arte permette di vedere il mondo per quello che è ma anche e forse soprattutto di immaginarlo come vorresti che diventasse e di adoperare le tue mani, nei limiti di ciò che per te è possibile, per farlo andare in quella direzione… che, oltretutto, è anche gratificante. L’unico vincolo è che, per operare nell’arte, bisogna avere qualcosa dentro di sé che dia la spinta e occorre fare attenzione a percepirne i segnali. Tante volte, infatti, ci si lascia distrarre dal frastuono intorno e non si captano i segnali che hai dentro te stesso o che ti comunica una pietra che incontri per strada.

 

Intervista ed elaborazione di 
Alice Viola ed Elisabetta Vanzini

La galleria di Carmelo Carrubba – Interviste sulla creatività

Giulio Guerrieri

Giulio Guerrieri – Intervista sulla creatività

Giulio Guerrieri ha seguito un percorso di studi nel settore fotografico. Ha partecipato ad alcune manifestazioni artistiche nel settore dello spettacolo, dove ha potuto sviluppare la sua professione di fotografo. Ha iniziato così a documentare eventi, situazioni, ambienti di vita. Negli anni si è cimentato nel cortometraggio, col quale ha trattato temi sociali sulla lotta alla illegalità e per la sensibilizzazione alla memoria storica. Tra l’altro, ha prodotto un corto per i quarant’anni della scomparsa di Peppino Impastato e uno per i dieci anni della scomparsa di Lea Garofalo.

 

Alice: cos’è per te la creatività?

Giulio Guerrieri: direi che la creatività implica e alimenta uno sviluppo dell’intelletto, della fantasia e della manualità; questo processo può portare alla fotografia, a un percorso musicale, al cinema, a una delle tante attività artistiche.

 

Asia: quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Giulio Guerrieri: credo possano essere infiniti: la fantasia, le emozioni. Poi, l’ordine in cui si pongono può cambiare ogni volta. Ora come ora, mi sento di mettere al primo posto l’emozione e la passione. Nel processo creativo c’è bisogno anche di impegno, di preparazione, ci vuole una ricerca e uno studio. Ci vuole un’osservazione, un “guardarsi intorno”: a volte non ci si inventa nulla di nuovo, ma semplicemente si osserva il mondo. Non deve esserci un semplice copia e incolla, ma bisogna prendere spunto da una determinata situazione, mettere la propria creatività e trasformare.

 

Alice: cosa avvia e come si sviluppa la tua creatività, in quali condizioni?

Giulio Guerrieri: per creare qualcosa ci vuole una scintilla. Come quando si avvia il motore a scoppio, che ha quattro fasi: aspirazione, compressione, scoppio e scarico. Io penso che le stesse fasi ci sono nel processo creativo. C’è il momento dell’ispirazione, quello in cui cresce qualcosa dentro che fa aumentare la pressione, poi c’è la scintilla creativa e, infine, l’esplosione, come una liberazione nel vedere la tua arte realizzata. Conclusa la gravidanza, l’artista torna alla relazione col suo pubblico e a cercarne la reazione.

 

Asia: che conseguenze ha sulle tue emozioni e sul tuo stato d’animo la produzione creativa?

Giulio Guerrieri: il processo creativo scatena un trasporto, un viaggio. Il processo creativo è come un viaggio in cui c’è una scoperta. Buona parte del processo creativo è inconscio, come viaggiare su un treno e guardare, rapiti, dal finestrino: passano davanti agli occhi immagini e situazioni, lo stato d’animo viaggia e a un certo punto ci si imbatte in un’idea che ti viene incontro.

 

Alice: che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di te stesso?

Giulio Guerrieri: c’è una piccola trasformazione, a volte ci può anche essere un isolamento, un’introspezione. Non è detto che ci sia sintonia tra ciò che succede nel mondo esterno e ciò che l’artista sta vivendo. Dopo che hai portato a termine l’atto creativo può cambiare la percezione che hai di te stesso, nel senso che ci può essere un’insoddisfazione o una soddisfazione. Il processo creativo, nel momento in cui si sta creando, genera sempre un dubbio, è una continua ricerca, perché sai che c’è sempre qualcosa di meglio di ciò che hai creato ed è difficile accontentarsi.

 

Asia: nel rapporto con gli altri cosa determina il tuo atto creativo?

Giulio Guerrieri: secondo me il processo creativo può aver bisogno di complicità oppure può aver bisogno di isolamento. Alcuni scrittori, ad esempio, hanno bisogno di appartarsi in un contesto, magari naturale, quando devono scrivere, hanno bisogno di uscire fuori dalla routine. Per altri, invece, il processo creativo può scattare in una situazione normale, ad esempio mentre si è in fila per fare la spesa. Nel rapporto con gli altri, quindi, ci può essere la necessità di isolamento o la ricerca di complicità con gli altri, con la vita quotidiana che si unisce al processo creativo. Io preferisco la seconda.

 

Alice: quanto è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?

Giulio Guerrieri: il riconoscimento degli altri ha sempre una grande importanza. Nessuno nasconde che c’è un ego artistico che desidera il riconoscimento degli altri. Però non bisogna avere paura di questo. Nel processo creativo bisogna credere in quello che si sta producendo e aver cura che sia spontaneo e naturale. Il riconoscimento è importante, ma non bisogna abbattersi se non c’è. La mancanza di riconoscimento può anche aiutare a proseguire la propria ricerca e a migliorarsi nel processo creativo.

 

Asia: chi sono i principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

Giulio Guerrieri: tutti siamo fruitori attivi e passivi dell’arte e tutti possiamo trarne giovamento, sia chi la crea, sia chi la riceve. Tante volte mi capita di essere colpito e coinvolto da quello che è stato creato da altri e che fa scattare anche in me un impulso creativo, come una sorta di rispecchiamento. Penso che l’obiettivo di chi crea qualcosa sia proprio questo: coinvolgere. Dunque, tutti siamo potenziali fruitori. Ognuno, però, beneficia dell’arte in modo differente, poiché una stessa opera può essere percepita in modo diverso da ciascuno.

 

Alice: quale immagine ti viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

Giulio Guerrieri: l’immagine della maternità mi ha sempre affascinato; unisce uomini e animali e descrive il vero, primo atto creativo.


Foto di Tina Modotti

 

Asia: pensi che esista una relazione tra depressione e creatività?

Giulio Guerrieri: chi sta vivendo una fase di depressione può essere in un polo opposto a quello della fase creativa, ma non escludo che anche la depressione possa condurre ad un processo creativo, magari anche come forma di terapia. Ci sono tanti artisti che in fase depressiva hanno prodotto opere importanti; dunque, depressione e creatività possono certamente avere un legame, anche se non diretto: in una fase depressiva, il processo creativo non si ferma.

 

Alice: quando per te un prodotto creativo è davvero concluso?

Giulio Guerrieri: ogni prodotto creativo arriva ad una conclusione, che però rimane sempre aperta. La conclusione coincide con il riconoscimento del pubblico, con l’apprezzamento, che può essere manifestato, ad esempio, con un applauso dopo una pièce teatrale o dopo un concerto. Ci sono però alcuni prodotti artistici (come libri, dipinti) che per l’autore non si concludono mai, rimangono aperti a continue modifiche, anche dopo tanto tempo dall’apprezzamento del pubblico.

 

Asia: pensi che la creatività possa avere una funzione sociale? Se sì, quale?

Giulio Guerrieri: la creatività ha sicuramente una funzione sociale; deve averla, altrimenti è esclusivamente commerciale, è una creatività su commissione. Dopo che l’artista ha vissuto l’urgenza che scatena il processo creativo, il prodotto che ne viene fuori diventa stimolo di riflessione e discussione per altri. L’artista, in questo modo, ha messo a disposizione di tutti la sua urgenza, facendo sì che altri possano interrogarsi su problematiche di interesse comune. Credo che la funzione sociale della creatività sia proprio questa: fare scattare negli altri la voglia di approfondire temi a volte di attualità a volte senza tempo e di innescare altri processi creativi.

 

Alice: pensi che la creatività sia un dono naturale, un privilegio di pochi oppure una competenza accessibile a tutti che può essere allenata?

Giulio Guerrieri: tutti abbiamo le caratteristiche e gli ingredienti giusti per poter far tutto, ma ci sono anche delle differenze. C’è dunque sicuramente una predisposizione alla creatività, che abbiamo tutti in modo diverso, ma ciò che è fondamentale è rendersene conto, scoprirla e svilupparla. In questo, i genitori sono fondamentali: riconoscere una passione nei propri figli e riproporla, senza imporla, è il miglior modo per iniziare a coltivarla.

 

Asia: la creatività può avere un ruolo utile a scuola? E nelle attività di recupero del condannato?

Giulio Guerrieri: certo, la creatività ha un ruolo utile a livello sociale (sia per chi la produce, sia per chi ne usufruisce), è utile a scuola per far comprendere la soddisfazione che deriva dalla realizzazione di un prodotto. È importante che i bambini vengano allenati fin da piccoli a utilizzare il loro potenziale creativo. Per quanto riguarda l’utilizzo della creatività per il recupero del condannato, penso che in uno stato mentale e fisico di una persona condannata, che si trova in una condizione non naturale, utilizzare il proprio lato creativo possa essere utile per poter agire al meglio.

Intervista ed elaborazione di 
Asia Olivo e Alice Viola

  La cartolina, di Giulio Guerrieri –  Interviste sulla creatività

Le varie corde del dolore

Ho dei ricordi nitidi di quando avevo circa 3 anni. All’epoca i miei genitori non s’erano ancora separati. Forse giusto dire, mio padre non aveva abbandonato mia madre e di conseguenza me.

C’era mia zia Nadia, ancora non sposata, che ogni mattina mi faceva il bagnetto dentro una vasca di plastica azzurra e con l’acqua riscaldata nella lavatrice. Nel frattempo mio nonno paterno, si preparava per andare a lavorare e sistematicamente si soffermava con occhi gioiosi a guardare me che sguazzavo in quella vasca messa sopra il tavolo della cucina. Il suo era un rito: baciarmi e dichiarare che ero il suo primo nipote.

Questo, negli anni avvenire, creò non pochi problemi in famiglia poiché, anche dopo la nascita di altri nipoti, lui valorizzava sempre me, sicuramente anche perché i miei, dopo qualche anno si separarono ed io rimasi in casa con i nonni paterni. Questo suo, e a modo suo, attaccamento a me, mi distanziava dal resto della famiglia (dopo la morte di mio nonno ne masticai concretamente il distacco) e crebbi quasi esclusivamente con mia nonna paterna.

Forme di dolore che profanavano la mia intimità e paralizzavano il mio pensiero. Mi pesava tutto quello che accomunava genitori e figli e mi rifugiavo in casa a giocare spesse volte da solo.

Non ho potuto dare voce alla mia adolescenza pur desiderandolo e mi obbligai a spersonalizzare me bambino e a “costruire” l’adulto di casa responsabile. Ma il bimbo affiorava quasi quotidianamente e soffriva gli effetti di eventi esterni che appartenevano agli uomini e non a lui.

Inadeguatezza, vergogna e dolore iniziarono a stratificarsi in me in forma subdola, grazie anche alla complicità di alcuni bulli del quartiere.
Le varie forme di solitudine mi spinsero precocemente a mettere su famiglia, vestito da adulto, ma senza la consapevolezza e il senso della responsabilità che richiedeva una scelta così profonda.

Dovevo compensare la mia solitudine famigliare patita anche a costo d’essere egoista verso gli altri. Contemporaneamente o quasi, mi sentivo chiamato a riempire vuoti e solitudini di altri compagni e allora, oggi dico, non avendo la forza di allungare gli occhi oltre i limiti del mio quartiere, iniziai a prostituirmi a quel marciume fino a quando ne divenni parte integrante.

Credo che un altro aspetto dei miei dolori fu la fame. Infatti, durante i primi 14 anni della mia vita, per motivi economici, in casa non avevamo tante possibilità. Oggi non mi giustifico e non ho mai cercato giustificazioni.

A differenza di quello che si può pensare, c’è stato un tempo molto lungo dove mi sono odiato e autocriticato ancora prima che legittimamente lo facessero gli altri.

Oggi non mi odio più, mi mortifico quando la mente va in effimere perdizioni ,ma subito dopo mi accudisco. L’autocritica è vigile e dialoga spesso con il mio io. Sono consapevole di essere detentore di cicatrici e alla mia età, non potendole sanare, me le disinfetto tutti i giorni da solo e con tutti quelli che sento me le riconoscono.

Non sono divenuto uomo da bambino, ma uomo dalle mie macerie.

StorieLa banalità e la complessità del male

Roberto Cannavò

Coscienze esiliate e procedure per il rimpatrio

In questi giorni, a seguito della recente pronuncia della Corte costituzionale riguardo all’ergastolo ostativo, si sono riaccesi i riflettori su un tema che, oltre ad essere molto complesso, è anche molto discusso. Ne abbiamo parlato più volte anche al Gruppo della Trasgressione e mi sono resa conto che per i non adddetti ai lavori si fa un po’ di confusione tra l’art. 4 bis e l’art. 41 bis O.P.

Da giurista, credo dunque utile, come prima cosa, puntualizzare che c’è una differenza tra l’art. 4 bis Ordinamento Penitenziario (il c.d. ergastolo ostativo) e l’art. 41 bis Ordinamento Penitenziario, che prevede misure più restrittive di detenzione (c.d. regime di carcere duro), anche senza la condanna dell’ergastolo. In secondo luogo va chiarito che non è solo la pena dell’ergastolo che può diventare “ostativa”, ma anche qualsiasi altra pena che venga inflitta per uno dei reati elencati dal suddetto articolo 4 bis. Tutte le condanne con l’ostatività escludono i normali benefici di legge, le misure alternative, ecc.

Nel nostro ordinamento sono previsti attualmente due tipi di ergastoli: quello “ordinario” e quello “ostativo”. Quest’ultimo è un tipo di pena che è stato introdotto dal Decreto emanato all’indomani della strage di Via D’Amelio (D.L. n. 306/1992) e si affianca alla norma codicistica che prevedeva l’ergastolo ordinario. Ciò comporta che chi viene condannato all’ergastolo per i delitti “ostativi” indicati dall’art. 4 bis della Legge sull’Ordinamento Penitenziario non può avere accesso ai benefici penitenziari, a meno che non collabori con la giustizia ai sensi dell’art. 58 ter della medesima legge.

La conseguenza è che questo tipo di ergastolani (c.d. ostativi) sono condannati di fatto a una pena perpetua che non promuove un percorso rieducativo, quando invece sappiamo che chi viene condannato alla pena dell’ergastolo ordinario, dopo ventisei anni di detenzione e un percorso di confronto e di seria rivisitazione del proprio passato (che può essere avviato fin dai primi anni di carcerazione), può (se il Magistrato di Sorveglianza competente lo ritiene opportuno e acconsente) accedere ai benefici penitenziari.

Le polemiche che si sono susseguite intorno al tema dell’ergastolo ostativo traggono origine da ciò che ha stabilito la pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, divenuta definitiva il 7 ottobre del 2019, dove si sentenzia che la legge italiana debba prevedere che il giudice possa stabilire – trascorso un congruo numero di anni –  se la persona che sta scontando una condanna all’ergastolo rappresenti ancora un pericolo per la società esterna e abbia o meno ancora legami con la criminalità organizzata, anche in assenza di una sua collaborazione.

La recente decisione della Corte Costituzionale, di cui ancora non conosciamo i dettagli perché vi è solo un comunicato stampa, sulla scia già tracciata dalla Corte Europea, dichiara che l’ergastolo ostativo è incostituzionale e dà al legislatore italiano un periodo di tempo di circa un anno e mezzo per provvedere alla modifica di tale disposizione.

Premesso ciò, vediamo che: da un lato abbiamo la Costituzione, prima fonte del nostro ordinamento giuridico, che afferma nell’art. 27 Cost. che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”; sullo stesso versante abbiamo l’art 3 della Costituzione che, come noto, sancisce il diritto all’uguaglianza, nonché l’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che ribadisce il principio secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti degradanti o inumani; dall’altro, siamo di fronte ad una norma che permette che vi sia una discriminazione di fatto e che trasforma la pena di un ergastolano condannato per reati ostativi in una pena senza fine, che ostacola la possibilità di acccedere agli strumenti utili alla “rieducazione del condannato“.

Lo stato, che per legge “deve” garantire che il condannato abbia gli strumenti necessari per poter dialogare con la sua coscienza e poi con la società che in passato ha tradito, permette che il detenuto sia trattato come irrecuperabile quando, in conseguenza di reati particolarmente gravi, vengono applicate le suddette misure restrittive. Il contrasto fra le due cose è riconoscibile sia sul piano morale sia sul piano giuridico ed è evidente che occorre porvi rimedio.

Mi lascia però perplessa constatare che molto spesso le argomentazioni sulla questione fanno perno soprattutto sulla violazione dei diritti dei detenuti e, in particolare, sul loro impedimento ad accedere ai benefici di legge previsti per chi non abbia l’ostatività. A me sembra che in questo modo passi in secondo piano la funzione che la nostra Costituzione assegna alla pena e cioè “tendere alla rieducazione”.

Comprendo che, distinguendo tra l’abuso commesso dal criminale e l’abuso commesso dallo stato con una pena dichiarata oramai incostituzionale, venga ritenuto più grave l’abuso posto in essere dallo stato perché in contrasto con i suoi stessi principi fondamentali, ma in questo modo, per il cittadino che legge, credo rimanga un po’ in ombra che l’obiettivo principale cui deve tendere la pena secondo i dettami della Costituzione, nonché il compito principale che deve assolvere lo Stato, è il recupero del soggetto e della coscienza che egli stesso aveva esiliato. In altre parole, il recupero di quella coscienza civica che mancava o che non aveva avuto sufficiente autorevolezza nel soggetto deviante all’epoca dei reati e di quello stile di vita all’interno del quale questi erano stati concepiti e attuati.

In questo senso, mi sembra che il danno principale che viene inflitto al detenuto in regime ostativo (con o senza ergastolo) sia costituito dalla difficoltà o dalla impossibilità che egli possa fruire dello scambio col mondo esterno, quello scambio che a suo tempo la persona aveva scelto di tradire e/o negare, legandosi a quella criminalità organizzata per cui aveva poi subito la condanna. Trovo paradossale che questo tipo di pene ostative (4 bis) ed i loro supplementi (41 bis) portino lo Stato a ratificare quell’esilio della coscienza che la persona aveva avviato e mantenuto fino ad arrivare all’apoteosi della sua condotta criminale. Quante probabilità ci sono che la persona dialoghi fattivamente con le parti migliori di sé mentre se ne sta per anni a odiare chi lo ha condannato e chi lo tiene isolato?

Se non esponiamo al cittadino comune (che spesso è estraneo a ciò che succede in carcere e che magari è influenzato dal bombardamento mediatico che alimenta la disinformazione generale sul tema), gli obiettivi della pena e gli strumenti per raggiungerli, si corre il rischio di alimentare rabbia contro rabbia e disconoscimento reciproco fra cittadini, istituzioni e condannati.

Occorre, io credo, promuovere, supportare e, quando arriva, valorizzare la rielaborazione dei sentimenti realizzata da questo o quel condannato; come pure il lavoro che ha dovuto fare (e che sta facendo) sua moglie/sua madre/suo figlio/suo fratello per recuperare il marito/figlio/padre/fratello di cui ha bisogno per andare avanti a vivere.

Tali argomenti sono cari a me, in quanto figlia di un ex detenuto, ma sono anche il lavoro costante che il Gruppo della Trasgressione porta avanti da anni (vedi, per esempio, l’area tematica “Genitori – figli” su www.trasgressione.net e lo sviluppo del progetto “Genitorialità responsabile” su www.vocidalponte.it).

L’evoluzione del condannato non può prescindere dal lavoro su di sé e da un confronto adeguato con la società esterna in ambiente protetto. Questo è quel che accade di continuo con i gruppi di volontari che entrano in carcere e questo è quello che accade con gli studenti, i liberi cittadini, i familiari di vittime di reato, gli insegnanti che compongono il Gruppo della Trasgressione e che permettono al condannato, se lo vuole, di intraprendere un percorso di risocializzazione serio.

In conclusione, io credo che nella battaglia contro l’ergastolo ostativo debba essere ricercata ed evidenziata la imprescindibile sinergia con la lotta per promuovere la coscienza, anche perché entrambe richiedono aperture e scambi utili a superare l’isolamento dagli altri e da se stessi.

Alessandra Cesario

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Mamma

Il tuo ventre ha scolpito
la mia immagine.
Le tue braccia
hanno udito la solitudine
del mio faro.
Ti affanni nel silenzio
del mio respiro
donna senza risparmio…
quelle mani aspettano un sorriso di quiete.
Ti sento vicina
nella stanchezza
dei miei pensieri.
Le mie pupille
hanno assaporato
il calore del tuo tempo.
Siamo un solo battito,
Mamma!

Roberto Cannavò

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