Relazione di tirocinio

L’ESPERIENZA FORMATIVA PRESSO “ASSOCIAZIONE TRASGRESSIONE.NET”

Michela Arrara, Matricola: 749697
Corso di studio: PCSN (D.M. 270/04)
Tipo di attività: Stage curricolare esterno
Periodo: dal 22/04/2016 al 31/05/2016

 


Caratteristiche generali dell’attività svolta: istituzione/organizzazione o unità operativa in cui si svolge l’attività, ambito operativo, approccio teorico/pratico di riferimento

Ho svolto l’attività di tirocinio presso l’associazione trasgressione.net., associazione nata dall’esperienza del dottor Aparo nelle carceri di San Vittore, Opera e Bollate e costituita da un gruppo comprendente detenuti, ex-detenuti, studenti universitari, neo-laureati e professionisti. Ho svolto il mio tirocinio partecipando agli incontri del gruppo presso la sede ATS Milano di Corso Italia 52 e presso il carcere di Bollate, partecipando alle attività culturali del gruppo e agli incontri con le scuole.

L’attività della associazione trasgressione.net si basa su una serie di principi, che caratterizzano tutte le attività svolte: confronto e interazione tra dentro e fuori, restituzione della responsabilità individuale, reinserimento nella vita comunitaria, prevenzione al bullismo e alla tossicodipendenza, educazione alla legalità.

 

Descrizione dettagliata del tipo di ruolo e mansioni svolte

Il tirocinio è stato svolto partecipando agli incontri del Gruppo della Trasgressione, dove ho potuto mettermi in gioco direttamente e riflettere in modo critico rispetto ad alcune tematiche. In particolare, in vista di un convegno sulla tossicodipendenza che avrà luogo a metà giugno, ho approfondito questo tema, tramite riflessioni e ricerche ma soprattutto, tramite il confronto con i detenuti all’interno dei diversi gruppi. Inoltre, mi è stato permesso di partecipare agli incontri con due scuole (Scuola media di Buccinasco e Istituto professionale Bertarelli di Milano) e di assistere a diverse iniziative culturali portate avanti dai componenti del gruppo.

 

Attività concrete/metodi/strumenti adottati

L’attività dell’associazione trasgressione.net utilizza come principale strumento il gruppo in sé. Il Gruppo della Trasgressione può, infatti, essere visto come una palestra in cui studenti e detenuti possono esercitarsi e fare pratica nella comunicazione, nell’instaurare relazioni, nell’assunzione di responsabilità e nel creare un ponte tra mondo interno al carcere e mondo esterno. Il detenuto può inoltre beneficiare del senso di appartenenza che si sviluppa all’interno del gruppo e del riconoscimento di ciò che esprime e di se stesso come persona. Il coinvolgimento paritetico di tutti i partecipanti, con i propri vissuti e le proprie esperienze, permette un percorso di crescita ed evoluzione e permette di instaurare un rapporto che non risenta delle differenze di condizioni. L’attività di confronto e discussione all’interno del gruppo è accompagnata dall’uso di scritti, in cui i partecipanti al gruppo rielaborano concetti trattati negli incontri ed esplorano i loro vissuti, spesso creando un collegamento con la propria esperienza di vita.

Durante il mio tirocinio, si è esplorato in particolare il tema della tossicodipendenza, tema che si è rivelato molto complesso e oscuro. All’interno del gruppo questa tematica è stata affrontata in modo non convenzionale, non basandosi su ciò che viene scritto in letteratura, ma tramite il confronto, le curiosità, i diversi punti di vista di studenti e detenuti, arrivando così a toccare aspetti che non avevo mai pensato potessero essere inerenti alla tossicodipendenza. E’ stato inoltre usato negli ultimi incontri, in vista del convegno, lo strumento del role-playing, in cui detenuti e studenti hanno provato a rappresentare un possibile scambio tra due tossicodipendenti, tra tossicodipendente e spacciatore e tra tossicodipendente e psicologo.

Lo scambio tra studenti e detenuti durante gli incontri del Gruppo della Trasgressione con le scuole si basa sugli stessi principi che guidano gli appuntamenti del Gruppo della Trasgressione. Entrambi i partecipanti si rivelano utili per l’evoluzione dell’altro: i detenuti, tramite il racconto dei propri errori e del proprio percorso di riabilitazione, permettono agli studenti di esplorare i propri conflitti interni, le proprie fragilità e le proprie risorse, favorendone il percorso evolutivo; a loro volta, gli studenti con il loro ascolto attivo e la loro curiosità, aiutano i detenuti a riappropriarsi della loro identità di adulti responsabili, mentre forniscono una testimonianza sincera e credibile del loro percorso.

Il Gruppo della Trasgressione ha uno sguardo verso l’esterno. Tramite la messa in campo di eventi, opere teatrali, concerti aperti al pubblico e tramite esperienze concrete e attività lavorative utili per la comunità, si permette di conoscere il detenuto e la sua evoluzione, di superare la sensazione di marginalità vissuta dal detenuto e di favorire una reale inclusione.

 

Presenza di un coordinatore/supervisore e modalità di verifica/valutazione delle attività svolte

Il gruppo è coordinato dal Dottor Aparo, che è il tutor del mio tirocinio. E’ stato molto importante incontrare una persona come lui, in quanto mi ha permesso di osservare e apprezzare un modo di essere psicologo diverso da come me l’ero immaginata, un modo innovativo e originale ai miei occhi. Sono infatti rimasta piacevolmente colpita dal suo modo schietto e sincero di instaurare la relazione con i detenuti e gli studenti. La valutazione, da parte del dottore, avveniva quotidianamente con un rimando immediato dopo ogni intervento o non intervento durante gli incontri. Non è stato infatti facile intervenire all’interno del gruppo, spesso per la paura di dire cose scontate o sciocche, ma il dottor Aparo ha sempre cercato di coinvolgermi e spronarmi a intervenire, comprendendo la mia timidezza debilitante e le mie insicurezze e cercando di farmi sfruttare l’occasione di crescita personale e professionale di questa esperienza formativa.

 

Conoscenze acquisite (generali, professionali, di processo, organizzative)

Il tirocinio con il Gruppo della Trasgressione mi ha permesso di approcciarmi ad una realtà che da sempre mi ha incuriosito e di aderirvi con tutta mia stessa. Il punto di forza di questo tirocinio credo sia proprio la partecipazione attiva dello studente, che in questo modo ha l’opportunità di responsabilizzarsi e assumere un ruolo propositivo e intraprendente. Gli incontri con il gruppo esterno (in ATS) e con il gruppo del carcere di Bollate mi hanno dato modo di iniziare a conoscere gli aspetti più burocratici e tecnici della realtà carceraria, ma nel contempo di conoscere il detenuto come persona, con la sua esperienza di vita, le sue fragilità e le sue risorse. Ho anche avuto modo di vedere, comprendere e apprendere come avviene il lavoro sul territorio e con le istituzioni.

Sono contenta che il Gruppo abbia portato la sua opera teatrale “Il mito di Sisifo” nella mia città, grazie alla collaborazione tra il Gruppo e il Comune. Grazie al convegno, ho potuto esplorare e conoscere maggiormente la tematica della tossicodipendenza, verso cui nutro un interesse attivo e che non avevo ancora approfondito nel mio percorso di studi. Il tema è stato affrontato esplorando ogni sua sfaccettatura tramite le domande e gli spunti del Dottor Aparo, le esperienze dei detenuti e le riflessioni degli studenti. Si è riflettuto insieme su come si potesse definire la tossicodipendenza, sulle configurazioni che più facilmente sono associate alla genesi del disturbo, sull’identità del tossicodipendente, su come la tossicodipendenza incida nella relazione con gli altri e sugli elementi che possono prevenire una ricaduta.

Ho sviluppato progressivamente una conoscenza approfondita di questa problematica, acquisendo una visione sempre più a 360°, che possa essere in grado di tener conto di tanti aspetti, spesso in contraddizione tra loro. Pur non reputando di avere una conoscenza completa rispetto all’argomento, posso dirmi sicura che la partecipazione al gruppo ha ampliato i miei pensieri e le mie idee a riguardo e che ciò possa essere punto di partenza per accrescere ulteriormente il mio bagaglio di conoscenze su questa complessa realtà.

 

Abilità acquisite (tecniche, operative, trasversali)

Le abilità acquisite in questo tirocinio sono strettamente intrecciate con il modo di lavorare del Gruppo della Trasgressione. Ho innanzitutto appreso come avviene il lavoro di gruppo e gli elementi essenziali su cui si basa: il rispetto per il pensiero dell’altro, l’importanza di un ascolto attivo, il rispetto dei turni, l’essere e il mostrarsi interessati e la partecipazione attiva. Su questo ultimo punto, sono certa di dover lavorare ancora molto perché non sempre è stato facile per me, prendere parola e dare opinioni su temi di cui spesso non avevo esperienza diretta. L’ansia di fare brutta figura ha spesso avuto la meglio, impedendomi di esprimere il mio pensiero rispetto diverse tematiche.

La partecipazione al gruppo mi ha permesso inoltre di sviluppare la mia capacità di osservazione rispetto a ciò che si verifica durante gli incontri e di sviluppare un pensiero critico rispetto agli argomenti trattati.

 

Caratteristiche personali sviluppate

Oltre alle suddette abilità e conoscenze acquisite, ho migliorato alcune caratteristiche personali. Grazie al contatto con i detenuti e gli altri studenti, ho migliorato la capacità di ascolto e di empatia, senza trascurare il riconoscimento del mio coinvolgimento emotivo nelle diverse situazioni. In molte situazioni, ascoltando i trascorsi, le storie di vita, le parole di alcuni membri del gruppo ho dovuto scontrami con la mia fragilità e le mie troppe domande, i racconti mi entravano dentro e spesso mi facevano sentire a pezzi. In più occasioni, sono uscita dell’incontro del gruppo scossa e “persa” e ho imparato a prendermi del tempo per ascoltarmi, ascoltare ciò che avevano provocato in me alcune parole e lasciargli spazio. Ho imparato, grazie al gruppo, a non soffocare le emozioni, ma ad ascoltare il dolore, mio e degli altri.

 

Altre eventuali considerazioni personali

Questa esperienza non è stata semplice sotto molto punti di vista, spesso mi sono sentita inadeguata. Non è semplice essere “buttati dentro” a un gruppo di persone di cui non conosci praticamente nulla e dover esprimere e ragionare insieme su tematiche molto intense. Ci vuole tempo per trovare il proprio posto all’interno del gruppo, forse non l’ho ancora trovato, ma certamente nel corso degli incontri, caratterizzati da libertà e sincerità di espressione, mi sono sentita più partecipe e più vicina a tutti gli altri componenti. Sono certa di poter affermare che consiglierei questo gruppo a tutti gli studenti, perché è un luogo in cui è possibile affrontare tematiche che non si affrontano da nessuna parte e formarsi “sul campo”. Come spesso si afferma all’interno del gruppo: lavorare, riflettere e studiare con i detenuti è più utile che studiarli dall’esterno…e io sotto questa affermazione ci metto la firma !

Michela Arrara
Abbiategrasso, 13/06/2016

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Il sorriso perduto

Maurizio Giuseppe Piseddu

L’altro giorno camminando per strada
ho trovato per terra un sorriso
e ho pensato che forse qualcuno
l’avesse lasciato cadere.

L’ho raccolto e ho deciso di darlo
a qualcuno che l’avesse smarrito.
D’improvviso vidi arrivare
una donna truccata, elegante

Ma… qualcosa le mancava sul viso
forse, era proprio il sorriso…
La fermai… e le chiesi:
Signora… per caso le manca qualcosa?

Screanzato e villano che è
a fermare una nobile donna
che di certo non pensa ‘stè cose
e nemmeno a uno che osa!

Disturbare persone perbene
è senz’altro un gran disonore
per cui, smetta di chiedere cose
e mi lasci… che ho tanto da fare!

Maltrattato e un tantino anche offeso
pensai di buttar via quel sorriso,
ma ascoltando la mia voce interiore
lo serbai per un’altra occasione.

Quasi che fossi stato ascoltato,
vidi lesto arrivare un ragazzo
che gioioso abbracciava una tipa
come se… fosse il suo fidanzato.

Chiesi loro se potevo mostrare
quel che in tasca avevo serbato
ma le facce stupite dei due
eran quelle… di chi ha altro da fare.

Sconsolato e pien di rancore
maledivo chiunque incontravo
fino a quando non vidi arrivare
un bambino solo… e piangente.

Lo fermai e gli chiesi il motivo
di cotanta tristezza infinita
Ma… rispose con lacrime amare
come se… non avesse più vita.

Mi commossi a vedere il suo viso
sconsolato e rigato dal pianto
carezzai la sua testa piegata
e dolcemente lo invitai a raccontare

Oh, mio giovane e triste bambino,
io non so cosa c’è che ti affligge
ma di certo… parlandone insieme
cambierà quel che sembra un destino.

Come mai tu procedi da solo
e non sei insieme a qualcuno
che ti segua nelle tue esplorazioni
e ti protegga su questo cammino?

Vorrei tanto poterti aiutare
e portarti dai tuoi genitori
che chissà quale grande spavento
stan provando per il loro piccino.

C’è una cosa che ti voglio donare
e che presto potrai utilizzare…
ecco… guarda… è un grande sorriso
che ridipinga il tuo bellissimo viso.

Tieni a mente questo grande segreto…
“Che la vita è una lunga avventura
e che vince soltanto colui
che sorride senza alcuna paura! ”

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Relazione di tirocinio

TIROCINIO PRE LAUREA PRESSO “ASSOCIAZIONE TRASGRESSIONE.NET”

Asya Tedeschi, Matricola:  778732
Corso di studio: SCIENZE E TECNICHE PSICOLOGICHE
Tipo di attività: Stage curricolare esterno
Periodo: dal 20/04/2016 al 15/06/2016

 


Caratteristiche generali dell’attività svolta: istituzione/organizzazione o unità operativa in cui si svolge l’attività, ambito operativo, approccio teorico/pratico di riferimento

La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra.”

Così recita l’Art. 27 della Costituzione italiana e questa credo sia la massima che guida il Gruppo della Trasgressione. Nato nel 1997 dalla decennale esperienza del dott. Aparo all’interno delle carceri di San Vittore, Opera e Bollate, il gruppo  è costituito da detenuti e studenti universitari e neolaureati di diversi corsi di laurea. Il fulcro del gruppo è la spinta alla riflessione, al superamento delle difficoltà, alla crescita e al rinnovamento. A partire dal racconto delle esperienze dei suoi membri, il gruppo indaga sui fattori di rischio e di protezione per la spinta a trasgredire. Il gruppo è attivo anche fuori dal contesto detentivo, con l’obiettivo di alimentare una rete per la comunicazione delle parti separate e per promuovere l’evoluzione dei soggetti che ne fanno parte, con un percorso educativo e riabilitativo. Oltre a ciò il Gruppo della Trasgressione lavora anche in contesti quali Università e scuole, per la prevenzione del bullismo, della tossicodipendenza, della devianza in genere. Cari, in quest’ultimo contesto, i temi dell’autorità e della punizione.

Io, personalmente, forse per la mia giovane età, ho trovato questo aspetto estremamente lodevole e costruttivo, non solo per i detenuti, ma anche e soprattutto per i ragazzi che assistono alle discussioni. Ho constatato da me, negli incontri con l’istituto professionale Pietro Verri di Busto Arsizio e con il Liceo Beccaria di Milano, che la testimonianza portata da qualcuno che ha effettivamente toccato il fondo, pagando le conseguenze dei suoi errori, ha un impatto considerevole. Tutto ciò è ancor più amplificato quando l’incontro avviene in carcere, contesto forte e inusuale.

Il Gruppo della Trasgressione organizza anche seminari, rappresentazioni teatrali, concerti e convegni (interni ed esterni al contesto del carcere), con la partecipazione di diversi professionisti (medici, psicologi, giuristi, ecc.). È offerta anche la possibilità agli universitari, di partecipare al laboratorio di ricerca del gruppo, attraverso tirocini convenzionati.

La bellezza di questo gruppo risiede anche nella sua capacità di concretizzare l’impegno dei detenuti e di renderlo fruttuoso anche economicamente, attraverso lavori di restauro, consegna di frutta e verdura e la bancarella del sabato in piazza. Penso che questo sia un modo anche per premiare la forza di volontà e la tenacia, creando un ponte che possa permettere un reinserimento “guidato” all’interno della società.

Gli appuntamenti settimanali del Gruppo sono il martedì nella sede dell’ex ASL Milano, in Corso Italia 52, il mercoledì nella Casa di reclusione di Opera ed il giovedì presso il carcere di Bollate.

 

Descrizione dettagliata del tipo di ruolo e mansioni svolte

Durante il tirocinio di 100 ore che ho svolto presso il Gruppo della Trasgressione si richiedeva una partecipazione attiva e propositiva alle attività svolte. Il tutto è iniziato con un periodo di osservazione delle dinamiche e delle modalità di operare del Gruppo. Il mio ruolo era quello di assistere alle discussioni, elaborare dei contenuti, annotare degli appunti per la successiva stesura di verbali e fare ricerche su diverse tematiche.

In particolare il Gruppo della Trasgressione ha tra i prossimi appuntamenti più importanti un convegno che si terrà il 17 Giugno nel carcere di Bollate e in cui si confronteranno detenuti e operatori del settore per una crescita bilaterale, facendo oro delle conoscenze ed esperienze che ognuno potrà portare. Il titolo del convegno, La Tossicodipendenza, un labirinto dove si è perso Dedalo”,  è stato scelto appositamente per sottolineare la dimensione contraddittoria di chi versa nella tossicodipendenza; analogamente a Dedalo, il tossicodipendente crea un labirinto, ma in ultima analisi diventa vittima dello stesso labirinto da lui creato, ne rimane intrappolato. È proprio questa visione particolare che fa capire la necessità di un incontro tra i “due fronti” detenuti ed operatori.

Per fornire un supporto letterario e teorico, noi tirocinanti abbiamo svolto delle ricerche sulla genesi, diagnosi e trattamento della dipendenza da sostanza, secondo i diversi approcci psicologici (Comportamentismo, Cognitivismo, Psicologia Dinamica…). Tali ricerche sono state poi supervisionate dal tutor e discusse in sede di incontro.

A mio avviso ciò che viene maggiormente richiesto a ogni esterno che si affaccia alla dimensione del gruppo per la prima volta è di essere se stessi, di portare il proprio bagaglio esperienziale, di vedere sé e gli altri con un po’ di senso critico e di curiosità intelligente.

 

Attività concrete/metodi/strumenti adottati

Il Gruppo della trasgressione a partire dai testi scritti dai detenuti e da altri membri, ma anche con i verbali, i racconti, i miti, le canzoni trae degli spunti di riflessione per discutere tematiche care e delicate.

Ricordo ancora il primo mio incontro con il Gruppo della Trasgressione; il dott. Aparo mi fece leggere una parte del brano “Nica” scritto da Sofia e poi mi chiese il mio punto di vista. Ricordo ancora l’imbarazzo e la paura di dire cose insensate. Quel brano venne confrontato con un altro per trovare analogie e differenze. Si sottolineava in particolare, l’importanza per i figli di ricevere attenzioni e affetto; i bambini vogliono riempirsi attraverso il genitore (autorità), ma alla fine, in condizioni inadatte, si svuotano e questo ambiente di aridità probabilmente li condizionerà anche nel futuro (“Per riempire il vuoto mi svuoto”).

Altre tematiche di cui abbiamo discusso ampiamente al Gruppo sono state la sfida e il rapporto con il limite. L’idea di base è che tutti avvertono, arrivati ad un momento della propria esistenza, che la figura del padre è un ostacolo per la propria emancipazione. Questo mette l’uomo a cavallo tra la voglia di emanciparsi e la fantasia di uccidere il padre che si contrappone alla libertà. Degno di nota è il fatto che l’unica vera emancipazione è quella che poggia su figure interiorizzate positivamente; altrimenti si tratta di ribellione (“Necessario il Re che nomina cavaliere”).

Abbiamo parlato anche della fragilità e di come questa spesso, quando si commettono reati ed errori in genere, venga usata per prevaricare su altri e non come risorsa. Ricordo ancora lo scritto di Silvia sul diverso trattamento riservato ai disabili e di quanto questo possa pesare se fine a se stesso, e/o per un finto perbenismo. “Le persone con disabilità sono cancellate come persone e viste solo come disabili. Ognuno di noi ha piacere nell’essere riconosciuto come la persona che si sente” Queste erano le parole del dottore alla fine del brano e credo riescano ad evidenziare bene come spesso la situazione di disabilità venga in un certo senso amplificata, dall’incapacità del mondo di vedere cosa effettivamente è ed è capace di essere quella persona oltre la sedia a rotelle…

Indubbiamente il tema più trattato è stato quello della tossicodipendenza soprattutto in vista del convegno. Attraverso dei brani scritti dai detenuti o da altri e per mezzo di accese discussioni, abbiamo delineato quelli che possono essere considerati come i fattori di rischio, le cause e quali fattori proteggono presumibilmente dal vortice della tossicodipendenza. Si è dibattuto a lungo sulla tossicodipendenza come “scelta o malattia” e sul “piacevole – dolore” della droga che permette di annebbiare i dolori lucidi ed insopportabili della vita, confondendoli tra il dolore della sostanza. Abbiamo discusso sul perché parlare della tossicodipendenza divida così tanto le persone in una moltitudine di punti di vista; abbiamo affrontato tematiche quali: il problema tossicodipendenza visto da chi è accanto al tossicodipendente, come cambia la tossicodipendenza in base allo status socio-economico, il rito della droga ed il suo “potere” di creare vite malate parallele, la possibilità di emanciparsi dalla droga, la tossicodipendenza vista come un altare dove sacrificare ciò che non si accetta, la mancanza di identità che porta ad assumere quella del tossico, le caratteristiche di chi si libera dalla tossicodipendenza, il rapporto tra la droga ed i reati, l’importanza delle reti relazionali e il perché c’è attrazione per qualcosa nonostante la consapevolezza del male che ne deriva…

Tutte queste tematiche sono state affrontate in seguito a proposte fatte dal dottor Aparo, che invitava i presenti a discutere su una questione e via via si approfondivano le riflessioni più rilevanti, oppure in seguito alla lettura di qualche brano consigliato o scritto da un membro del gruppo, reputandolo utile ai fini di un dibattito costruttivo. È così che, durante gli incontri, si stimolavano la curiosità, creatività, e la riflessione sulle proprie esperienze di vita.

Spesso è capitato che qualcuno portasse direttamente la sua personale esperienza all’interno della discussione. Io per prima, con non poca difficoltà, sono riuscita a tirar fuori una parte delicata di me e della mia vita, durante un incontro al carcere di Opera, e devo dire che mi ha aiutato a capire quanto discutere delle proprie fragilità sia estremamente utile, a maggior ragione se quelle tue esperienze possono aiutare gli altri a non commettere gli stessi errori. Nel corso di un incontro uno studente del Liceo Beccaria ha chiesto proprio che cosa i detenuti traessero da quegli incontri; ecco io penso che i detenuti in un certo senso riescano a sentirsi come io mi sono sentita quel giorno… Utili, meno fragili e meno soli!

La ricchezza di questo gruppo risiede nella capacità di affrontare temi molto complessi con una lucidità mentale, consapevolezza, senso critico, umiltà e voglia di mettersi in gioco enormi! Il tutto si svolge in un ambiente che non conosce distinzioni, che non marca differenze precostituite tra lo scritto di un detenuto o quello di un laureato, anzi, è tutto mosso in vista di una educazione e rieducazione di coloro che hanno vissuto e vivono una situazione difficile.

 

Presenza di un coordinatore/supervisore e
modalità di verifica/valutazione delle attività svolte

Il mio supervisore è stato il dott. Aparo, coordinatore del Gruppo della Trasgressione e anima dello stesso.

Il dott. Aparo è una delle persone più particolari che io abbia mai conosciuto… In alcuni casi avevo la netta sensazione che mirando su qualcuno cercasse di provocarlo e di metterlo in difficoltà, ed a volte quel qualcuno ero io. Poi con il tempo ho imparato che quel modus operandi era finalizzato a stimolare la curiosità e l’intelligenza. (Come dice spesso lui “Scomodate l’intelligenza di cui siete dotati!”). È un professore che non si accontenta mai, punta sempre al meglio, a capire di più. Penso che a volte, grazie alla complicità creata con i membri del Gruppo, riesca con il solo sguardo, a far capire quando si è effettivamente raggiunto un livello buono o quando non si è stati abbastanza critici e profondi. È un tutor fuori dagli schemi… Agli inizi mi ha un po’ sconvolta l’uso non convenzionale dei modi, del lessico, degli approcci, ma poi con il tempo ho compreso e apprezzato quanto potesse essere di aiuto quel modo di agire.

In alcuni casi, per esempio ricordo un detenuto che parlava della sua ascesa alla criminalità organizzata e di alcune sue convinzioni subdole, ho percepito l’atteggiamento del dott. Aparo “protettivo” quasi a voler tutelare i membri del gruppo e i contenuti che venivano veicolati. Riprendendo le parole di un signore… “non importa quello che dici o come lo dici, ma se sei sincero e rifletti, Aparo farà stare in piedi il tuo pensiero…”

Ci ho messo un po’ di tempo, ma ho imparato ad apprezzare la capacità del dott. Aparo di dare sempre fiducia all’umanità, di essere un angelo custode per i “suoi alleati”, nonostante spesso si ritrovi da solo a combattere e nonostante egli “non sia un prete” come ci tiene a specificare. Ho apprezzato la dedizione nel non lasciare indietro nessuno, rendendo comprensibili anche i discorsi più complessi. Penso che il dott. Aparo sia una di quelle persone che almeno una volta nella vita bisogna incontrare, per imparare a non accontentarsi di spiegazioni riduttive e a scavare a fondo, senza piangersi addosso, diventando tenaci e indurendo anche la corazza di fronte alle più dure difficoltà della vita.

 

Conoscenze acquisite (generali, professionali, di processo, organizzative)

Con il Gruppo della Trasgressione ho imparato che cosa significa lavorare in un team, darsi delle scadenze, dividersi i ruoli, essere operativi per tutti e con tutti. Grazie alle ricerche sulla tossicodipendenza e agli incontri a cui a volte partecipavano anche psicologi esterni, ho potuto imparare quali sono le modalità di intervento nell’ambito della dipendenza da sostanza, e in particolare gli effetti che questi hanno. Ho sentito, per la prima volta non leggendolo su un libro, che cosa significa vivere un dolore da astinenza o craving ed ho potuto astrarre dai racconti dei membri le teorie studiate in università.

Sintetizzerei il tutto dicendo che sono riuscita a dare concretezza a quello che spesso si studia solo teoricamente nel contesto universitario.

 

Abilità acquisite (tecniche, operative, trasversali)

Attraverso il mio tirocinio ho acquisito la capacità di lavorare in gruppo. Ho imparato ad ascoltare le opinioni altrui, a farmi domande, a cercare di esporre in maniera chiara e comprensibile i miei pensieri e ad accettare i tempi e le opinioni anche diametralmente opposte rispetto alle mie. Ho imparato il senso di appartenenza ad un gruppo, la priorità da conferire, in alcuni casi, alle difficoltà di uno per il bene di tutti.

 

Caratteristiche personali sviluppate

Questo tirocinio mi ha permesso di avvicinarmi e vivere un contesto che ho sempre visto molto lontano da me e dal quale in un certo senso mi sentivo attratta… Spesso mi sono chiesta che cosa portasse le persone a comportarsi in un certo modo, cosa li spingesse a trasgredire, che cosa ci fosse di diverso in quelle persone, e sicuramente non ho trovato tutte le risposte alle mie domande ma ho colmato alcune lacune.

Sono riuscita ad abbattere, non senza difficoltà, la mia idea che si dovesse essere il più oggettivi e distaccati possibile, per dare un vero aiuto alla causa. Inizialmente pensavo che non dovevo farmi coinvolgere, ma poi il gruppo, per come è concepito non permette un distacco del genere, anche perché non sarebbe fruttuoso per nessuno. Ho sentito storie davvero tragiche e commoventi, con le quali era facile entrare in uno stato empatico e altre storie che hanno lasciato dentro migliaia di punti interrogativi.

Non mi reputo una persona con dei pregiudizi, e questo tirocinio mi aiutato ancor più a rinsaldare in me la convinzione che spesso non sono le scelte che fai a definire realmente ciò che sei o che puoi essere… Al di là delle conoscenze operative e tecniche, ho imparato grazie al gruppo ad affrontare i problemi della vita in maniera più diretta e forse con meno orgoglio; ho imparato che a volte le cose non sono solo bianche o nere, e che è inutile aspettare che gli altri facciano ciò che noi vorremmo facessero… Trovare la forza e fare un piccolo passo avanti per quanto male causi, è la cosa giusta… Ed io, facendo oro di tali insegnamenti provo a camminare!

 

Altre considerazioni personali

Riflettendo su questo periodo trascorso con il Gruppo della Trasgressione posso dire che mi sento maturata. Spesso, anche se nel mio silenzio, mi sono posta un sacco di interrogativi su quali fossero le mie convinzioni ed in molti casi le ho messe in discussione. Molte volte mi sono chiesta tra me e me: “Cosa avrei fatto io al posto suo?”, e la risposta era sempre la stessa “dovrei trovarmi realmente nella situazione per saperlo…” Ho instaurato con tutti, ma in particolare con alcuni componenti del gruppo, un rapporto davvero bello. Non è stato facile all’inizio aprirsi, mettersi in gioco… A volte tacevo perché mi sentivo stupida, sentivo di non avere il diritto di parlare perché io “Chi ero? Cosa ne potevo sapere di quella sofferenza? Magari risultavo fuori luogo perché alla fine le mie esperienze erano troppo diverse dalle loro…”

Pensandoci bene mi sorprende la difficoltà incontrata nell’integrarmi all’inizio… Non era da me. Eppure con il tempo, scavando anche dentro me stessa e scovando tra i mille pensieri che ogni volta tornando a casa affioravano nella mia mente, mi sono accorta che se realmente volevo godere di quella opportunità rappresentata dal tirocinio al Gruppo della Trasgressione dovevo cercare di lasciarmi andare maggiormente.

Solo così ho potuto godere della “contraddittorietà del genere umano”, del suo essere forte e ambizioso e contemporaneamente fragile e sottomesso.

Nell’ultimo incontro, poi, ho ascoltato la storia di una Madre, appositamente con la M maiuscola, che ha donato a noi il suo coraggio e la sua tenacia. Appena ho sentito quella storia, con quella lucidità e con quella forza di raccontare anche i dettagli più crudi, mi sono chiesta immediatamente che cosa potesse spingere una donna a fare un passo tanto importante, dopo 26 anni dalla scomparsa di sua figlia, rischiando magari di trovarsi accanto una persona che aveva commesso lo stesso reato per cui sua figlia era venuta a mancare e rivivendo nei suoi racconti tutto il dolore legato a quella tragica storia. Avrei voluto farle i miei complimenti, ringraziarla per la sua presenza e per il suo dono prezioso da mamma e donna, ma non ho avuto la forza di proferire neanche una parola…

Ad oggi, mentre scrivo questa relazione pensando a quel momento, sento ancora i brividi sulla pelle, e posso solo dire che la signora è riuscita ad esprimere nella sua semplicità e chiarezza, e a fare arrivare ad ognuno di noi la forza e la vittoria che lei si è aggiudicata nei confronti di questa esistenza infame che le ha sottratto il dono più grande per un genitore…I figli.

Penso che quella signora è la mamma che tutte le donne vorrebbero essere un giorno e se ho avuto la possibilità di arricchirmi anche di questa storia è solo grazie al gruppo per cui non mi resta che ringraziare il Gruppo della Trasgressione.

Ascoltare il dolore altrui permette alle persone di andare lontano…”

Milano, 15/06/2016

 

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I detenuti fruttivendoli

Per gentile concessione de La Repubblica,
un articolo di Zita Dazzi del 21 giugno 2016

Il volto si riscrive

Il volto d’ogni uomo si sciupa e si riscrive
Antonino Di Mauro

Il tempo fugge… e ogni cosa si modifica, si deteriora, cambia: mutano i paesaggi, si alterano le cose, il volto di ogni uomo si sciupa e si riscrive nel sopravvenire delle rughe, così come la sua anima.

Come mai non sono stato capace di proteggere quella bellezza naturale con cui ogni essere umano nasce e che io sento ancora dentro di me? Come sono giunto a tale degrado?

Un ambiente disattento e degradato, salvo per qualche raro caso fortunato, può spiegare la vita di un uomo incrostato nell’animo e indurito nelle sue forme? Di un individuo arrabbiato, che ha letteralmente bruciato la sua esistenza? Che cosa mi aveva ridotto a una tale condizione? Come mai non sono stato capace di proteggere quella bellezza naturale con cui ogni essere umano nasce e che io sento ancora dentro di me?

Certamente ho bisogno di curare il mio essere perché è stato trascurato! Ma come si può curare un uomo cresciuto in balia di se stesso, convinto che le sue scelte fossero quelle giuste e quelle degli altri quelle sbagliate? Come fargli capire che lui il carcere lo ha già nella sua testa e che di questo carcere è lui stesso il carceriere? Quali sono gli strumenti per aiutarlo a crescere a dispetto degli anni, delle scelte, delle trasgressioni di una vita? Per riportare l’animo a una nuova bellezza che dentro di noi vuole tornare a risplendere? Forse una risposta vera e propria non esiste!

L’essenziale, per quella che è la mia esperienza, è ricercare e ritrovare in quello stesso uomo proprio il punto in cui si è perso; nutrirsi dei primi ricordi e riprovare a crescere in maniera naturale proprio dal momento in cui la fiducia nella guida si è spezzata; ritrovare quella stessa fiducia in chi oggi è presente e ti soccorre, in chi crede nella persona che puoi essere e vuoi diventare, e ti tende una mano. E credo che la cultura abbia un ruolo fondamentale in questo processo di ricostruzione e rigenerazione della personalità.

Infine, penso che quell’uomo avrà bisogno del maggior sostegno nel momento in cui avrà piena coscienza del fallimento della propria vita. Dico il maggior aiuto, perché credo sia un momento delicatissimo, dove si può raggiungere la depressione più totale.

Personalmente, potrei dire che fra tutti i miei rimpianti vi è quello di aver trascorso così tanti anni dove sono stato e dove mi sono privato del bello.

Restauro & Recupero  – Cittadinanza Attiva alla Fondazione Clerici

Secchio Bucato, 9-05-2016

Verbale dal Gruppo del Secchio Bucato
Sarah Coco

Iniziamo l’incontro riprendendo il concetto di “visione totalizzante” del tossicodipendente. Il dott. Aparo ricostruisce che il tossicodipendente attua una riduzione della complessità a poche variabili che siano compatibili con il suo panorama emotivo attuale: “…la persona tossicodipendente riduce la gamma delle sfumature della propria esperienza, ponendo al centro di ciò che accade la propria emotività contingente. Ovviamente, questo non vale solo per il tossicodipendente, pur se nel suo caso il fenomeno è accentuato dalla centralità del rapporto con la sostanza, dal fenomeno dell’astinenza e dalla progressiva riduzione di spazio, di relazioni e della gamma di emozioni che la tossicodipendenza causa: un circolo vizioso per cui il tossicodipendente rimane sempre più isolato dai propri sentimenti e dagli altri”.

Il secondo tema riguarda il rapporto operatore-utente:

  • Qual è il pensiero dell’operatore rispetto alla dipendenza da sostanze?
  • Quanto incide il suo stato d’animo nella relazione?
  • Quali sono le aspettative dell’operatore nei confronti dell’utente?
  • Come mai sembra che a volte non ci sia interesse ad avviare una relazione che aiuti la persona con una dipendenza a crescere e a instaurare un rapporto di fiducia reciproca?

Secondo il dott. Sanò, avendo il detenuto tossicodipendente diritto di usufruire delle misure alternative, è legittimo il suo interesse nel cercare di sfruttare ogni possibilità a proprio favore. L’importante è che le intenzioni siano chiare e che non ci sia una presa in giro e una manipolazione sul proprio stato di salute.

Alcuni detenuti mettono in luce che manca il tempo per stabilire un rapporto di fiducia con gli operatori e a volte percepiscono da parte di questi ultimi disinteresse nell’approfondire i loro reali problemi. Le stesse persone si chiedono se l’operatore abbia l’intento di curare oppure no e sostengono che gli operatori dovrebbero indurre il tossicodipendente a riconoscere il proprio problema nonostante le sue resistenze.

A questo riguardo, il dott. Aparo dice che “… in carcere è molto difficile realizzare le condizioni per instaurare col detenuto una comunicazione profonda; qui le persone tendono a negare gli aspetti di sé problematici. Nel contesto carcerario, d’altra parte, le norme legislative sulla tossicodipendenza coinvolgono inevitabilmente la relazione tra operatore e detenuto e la espongono a tentativi di strumentalizzazione da parte dell’utenza. Lo psicologo in tale ambito può sentirsi ora in colpa per la grande difficoltà di cercare una soluzione attendibile ai problemi del detenuto ora sconfortato per l’atteggiamento ostinatamente strumentale della maggior parte di loro“.

Per quanto riguarda la certificazione da parte del Sert, sembra che per ottenerla i detenuti tendano inizialmente ad accentuare le problematiche legate alla tossicodipendenza, mentre il problema sembra poi svanire quando non vi è più una utilità strumentale.

Ogni operatore sembra adottare un approccio personale a queste difficoltà, mentre i detenuti che si stanno impegnando sul tema sostengono che occorrerebbero momenti di condivisione con i detenuti. Secondo alcuni partecipanti, durante gli incontri del gruppo c’è la giusta atmosfera per intraprendere una seria riflessione su se stessi e per un dialogo proficuo con gli operatori (nonostante si parta da obiettivi diversi):

  • “Io credo che non sia una malattia, ma la conseguenza di una predisposizione”  Così la tossicodipendenza viene descritta da un membro del gruppo, che prosegue dicendo che è come se ci fosse “… un istinto di morte che ci spinge ad agire in un determinato modo. È necessario dunque ricostruire la mappa di sé e dei propri sentimenti, avviando una ricerca su di essi
  • I miei sentimenti di rabbia influenzavano la mia visione della realtà
  • C’è una mutilazione a livello emotivo, non possiamo accontentarci di dire che è una malattia perché non si risolve il problema prendendo una pastiglietta!”

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Indagine sull’autorità

INDAGINE SULL’AUTORITÀ
Scuola media Via Aldo Moro di Buccinasco
Report di Alessandra Messa

Abbiamo programmato con questa scuola 3 incontri (16/2, 1/3, 17/3 ).
Nell’incontro con i professori abbiamo delineato come argomento principe: il concetto di Autorità, la sua fruibilità e credibilità.
Fra le domande centrali: A cosa serve l’autorità per il ragazzo?
Abbiamo pensato a un mini-percorso da seguire in questi 3 incontri:

  1. SISIFO: tutti gli aspetti problematici dell’autorità;
  2. AUTORITÀ: credibilità/fruibilità. Immagine attuale e quale può diventare (costruzione dell’identità);
  3. DA AUTORITÀ CHE CONTROLLA AD AUTORITÀ CHE SOSTIENE: autorità-guida.

 

PRIMO INCONTRO

Nel primo incontro abbiamo rappresentato il mito di Sisifo, facendo particolare attenzione ai rapporti di potere sottesi. A fine rappresentazione abbiamo iniziato il dibattito con gli studenti.

La domanda centrale posta dal dottor Aparo è stata: Come possiamo disegnare l’immagine dell’autorità di chi commette reati e quella che ne ha il ragazzino? E in che modo queste diverse immagini di autorità danno esito a vite diverse?

Ne è nato come sempre un dibattito sul tema, che ha visto interagire studenti e detenuti.

E’ stato chiesto agli studenti di fare un’analisi dei personaggi di Sisifo e del loro modo di relazionarsi al concetto di autorità.

Il personaggio rimasto più impresso fra i ragazzi è stato Asopo, considerato eccessivamente debole e sottomesso a Giove e quindi incapace di mostrare la sua autorità. Giove invece è stato riconosciuto come autoritario, ma egocentrico, incapace di ascoltare gli altri.

Ecco l’immagine che ne hanno ricavato i ragazzi:

  • Giove: folle, autoritario
  • Asopo: autorità debole e corrotta
  • Ade: autorità sottomessa
  • Thanatos: agli ordini di Giove

Dopo una breve disamina dei personaggi, è stato chiesto ai ragazzi se la loro immagine di autorità fosse sovrapponibile a quella del mito. Qual è la prima immagine dell’autorità che vi viene in mente?

Gli studenti hanno detto: vicepreside, preside, polizia e carabinieri, professori, i genitori, la forestale.

Un ragazzo: le persone che esercitano potere su qualcuno facendo rispettare le regole dalla comunità.

Anche i detenuti sono intervenuti sul tema esprimendo la loro opinione:

Rosario: I genitori dovrebbero essere la prima guida e autorità. Io però alla vostra età queste regole non le sapevo, le autorità erano solo dei nemici. A 14 anni ero già in mezzo alla strada e da lì mi sono costruito la mia gabbia per finire in carcere tutta una vita. Non avevo nessuno che mi indicasse cosa è giusto e cosa è sbagliato, avevo guide diverse.

Nicola: Ho avuto un pessimo rapporto con l’autorità; sono finito nel carcere minorile Beccaria poco dopo la vostra età. Ho squalificato fin da subito le autorità in casa, perchè con loro non c’era alcun dialogo. Senza una guida mi sono perso.

Roberto: Non ho avuto la possibilità di riconoscere una guida nei miei genitori, nemmeno da bambino e ragazzino. Se non hai in casa un punto di riferimento lo cerchi fuori, e se ti va bene sei fortunato, altrimenti può andare male come è successo a me.

Paolo: I miei genitori mi davano solo comandi. Cosi cercavo degli esempi esterni, nei film per esempio era qualche attore. Non ho mai preso in considerazione ciò che mi dicevano i miei genitori. Facevo cazzate in giro con gli amici e non riuscivo a capire l’importanza di vivere il percorso ancor più del traguardo.

Confrontando il diverso concetto di autorità espresso da detenuti e studenti, sono stati raccolti dei fogli scritti a mano. A grandi linee:

  • per i ragazzi l’autorità è: chi ti fa star bene, chi ti insegna qualcosa, chi può essere identificato come una guida;
  • per i detenuti l’autorità è: assente, impone regole, impedisce di essere se stessi

Il dottor Aparo chiede ai detenuti se ci sia stato uno spostamento nel modo di concepire l’autorità, negli ultimi 30 anni.

Mario: Non ho bei ricordi della mia infanzia, sono andato in collegio presto e non ho mai riconosciuto nessuno come autorità. Oggi invece la vedo diversamente.

Giuseppe: Tutti hanno parlato di Asopo come un di debole, ma lui è egoista. I miei genitori non parlavano con me; a 9 anni ho rubato in casa e mi hanno picchiato di santa ragione, senza però capire perché lo avessi fatto. Per me quel modello è diventato la normalità, ho fatto la stessa cosa con mia figlia, le davo soldi rubando. In carcere ho iniziato a riflettere. Ho iniziato a riconoscere la mia famiglia e ho capito di avere inconsciamente rancore verso l’autorità. Quando riconosci il rancore, riconosci i valori che avevi nascosto e inizi a ricercare il dialogo con la tua famiglia. Inizi anche a riconoscere le istituzioni.

Antonio: A 14 anni ero io la mia autorità, non credevo in nessuno. L’evoluzione c’è stata quando è nato mio figlio e l’ho lasciato a 15 mesi. Con il colloquio settimanale di due ore, in carcere, ho calcolato di averlo visto in totale 2 giorni e 8 ore in un anno. Ho iniziato ad avere il senso di colpa per aver perso tutto. L’autorità per me, oggi, significa credere in qualcuno; e ora io credo in me stesso e negli altri. L’autorità è anche crescere insieme e far crescere, come sto facendo con mio figlio.

 

SECONDO INCONTRO

Nel secondo incontro si è parlato del concetto di limite. Il resoconto della giornata è nel testo Trasgressioni e conquiste (Il lavoro sul limite è stato continuato anche con il Villoresi di Monza).

 

TERZO INCONTRO

Nel terzo e ultimo incontro abbiamo ascoltato i lavori che gli studenti avevano elaborato in classe. Ogni classe ha analizzato il concetto di autorità attraverso un’opera letteraria o un film.

  • Rapporto padre-figlio, ”Lettera al padre” di Franz Kafka
  • La ricerca della guida, il rapporto tra ragazzi e adulti,
    “I quattrocento colpi” di François Truffault
  • Guide e adolescenti. I modelli e la realtà. ”Class enemy” di Rok Bicek
  • ”Nessun uomo è un’isola” di John Donne
  • Autorità e limiti

 

Finita l’esposizione dei lavori fatti in classe, il dottor Aparo ha posto qualche domanda: A voi (detenuti), rispetto a questi ragazzi che espongono i loro lavori, cosa manca per interagire con l’autorità? Quali caratteristiche deve avere un adolescente per essere guidato al meglio?

Ivano: Da adolescente non ascoltavo, ero ribelle, sordo e cieco. Quando sono desideroso di apprendere mi sento un buon adolescente. L’autorità deve essere equilibrata, propensa all’ascolto. Si può fare qualcosa di serio solo se la si fa insieme.

Mario: Per essere un buon allievo bisogna essere disposti a credere nell’autorità. Loro sanno ascoltare, vedere le cose; io mi sto nutrendo da voi ragazzi e spero di trasmetterlo a mio figlio, quindi vi ringrazio.

Rosario: Vorrei tornare bambino per essere un’anima pura. Avrei voluto guide come voi, ragazzi.

Roberto: Da giovane mi è stata fatta abortire la possibilità di interrogarmi. Io ho iniziato a interrogarmi a 30 anni. Non abbiate paura di porre domande, perché un dovere dell’autorità è rispondere, altrimenti andrete a cercare le risposte altrove.

Massimo: Bisogna avere coscienza del futuro; io non guardavo più in là di un anno dal mio naso.

Mohamed: Da quando avevo 6 anni ho interpretato la parte del più forte, e non mi sono più liberato da questa immagine. E’ per questo che ho fatto solo reati di violenza.

Concludiamo la giornata con una frase di uno studente: Ognuno ha un odio dentro di sé. Una buona guida ti aiuta a utilizzarlo meglio di quanto possa fare da solo.

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Chi ha rubato il mio quadro?

Chi ha rubato il mio quadro?
Gabriele Rossi

È come avere di fronte un quadro dipinto tutto di bianco. Un pittore direbbe che quello è l’inizio della sua opera d’arte, i colori risaltano meglio se come sfondo c’è il bianco, ma non siamo pittori e l’arte non è il nostro obiettivo.

L’autorità nella mia testa deve ancora essere dipinta, rappresentata, perché? Perché tutto quel bianco al posto di un’immagine anche poco definita? Perché riconosco possibile l’autorità nell’immagine che mi viene data da altri o dalla logica del comune sapere e non ne ho una nella mia testa, come ad esempio l’immagine del padre, di un vigile, del poliziotto di confine, del buon vecchio nonno in divisa da carabiniere? Perché io quell’immagine non ce l’ho? Chi ha rubato il mio quadro?

Sento che non mi basta riconoscerla senza davvero sentirla, in questo modo c’è, non c’è, insomma vacilla. Credo sia fondamentale avere (o riavere) il mio quadro, e a quel ladro che me l’ha portato via dico che se lo può tenere, purché a lui possa servire almeno quanto servirebbe a me ora.

Quell’immagine la voglio scolpita nelle pareti del mio cervello, accanto alla morale, ai desideri di far bene, alla voglia di riscatto e a quel sofferto e tardivo sapere che nella vita quel quadro è troppo importante.

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Il potere del sacro

L’uomo è da sempre e comunque alla ricerca del potere, anche se lo nega. La ricerca del potere si manifesta in molti modi, alcuni appariscenti, altri subdoli, alcuni consapevoli, altri inconsci.

Ma anche la costruzione dell’identità passa attraverso l’esercizio riconosciuto del potere e penso che la negazione di tale diritto sia una delle maggiori cause di destabilizzazione della personalità. Quando parlo di esercizio del potere naturalmente intendo esercizio di un potere legittimo.

La prima forma di potere legittimo spettante a ogni individuo è il diritto di esistere. Tralascio le più gravi limitazioni di tale diritto, come la mancanza di cibo, di spazio vitale, di cure parentali che garantiscano il passaggio dalla nascita alla prima infanzia, non perché risolte ma perché evidenti. Mi occupo delle altre.

Come e quando un uomo ha la prova di esistere? Quando può pensare, decidere, progettare, agire. Se non lo può fare (perché non ne ha la capacità o perché gli è impedito) o ha la percezione di non poterlo fare, reagisce. La reazione è tanto più violenta e animalesca quanto più forte è la sensazione d’impotenza, quanto più a lungo è stata subita senza che le venisse data una possibilità d’espressione.

E questo dell’espressione è un nodo cruciale. L’espressione è la manifestazione di ciò che un individuo pensa, sente, fa e avviene generalmente attraverso la comunicazione. Tanti sono i canali possibili: verbale, corporea, emozionale, scritta, figurativa, musicale.

Se la comunicazione non funziona, se il messaggio lanciato dall’uomo con la postura del suo corpo, con l’espressione dei suoi occhi, con le parole dette, con le parole taciute, non viene percepito, ascoltato, capito, tale uomo non esiste. Se tale situazione non è sporadica ma sistematica può costituire il prodromo di una reazione, per gli altri, insensata. In realtà è la reazione di chi esiste e pretende che tale esistenza venga riconosciuta. L’uomo esiste se lascia un segno. Se non gli sarà consentito di lasciare un segno umano ne lascerà uno bestiale. Lasciare un segno è, più o meno consapevolmente, un bisogno di tutti. L’adesione alla criminalità e alla tossicodipendenza sono, secondo me, i segni bestiali lasciati da chi non riesce a lasciarne altri, o così crede.

Dove ha origine il senso d’impotenza che poi dà luogo a tutto ciò? A mio parere l’impotenza, reale o percepita, trae origine nel rapporto falsato o mancato con l’autorità. Per questo si delinque, per questo ci si droga. L’autorità che non ha saputo farsi autorevole e dunque amorevole merita di essere punita.

Questo scritto non propone certo una chiave di lettura esaustiva, considera solo alcuni comportamenti, non tutti.

Ci sono anche altre dinamiche che possono portare a un comportamento violento, dinamiche più sotterranee che vengono da molto lontano nel tempo, da comportamenti ancestrali di cui si è persa memoria.

L’uomo ha bisogno di trovare un senso per la sua vita, per le sue azioni, per ciò che capita a lui o alla realtà in cui vive. Talvolta la scienza e la razionalità, con i loro contributi importanti e irrinunciabili, non bastano a darglielo. Così l’uomo va alla ricerca di spiegazioni che vengano da un oltre mondo, che esprimano una realtà non solo immanente ma trascendente. E questo è sempre accaduto.

L’uomo dei primordi, ma ancor oggi l’uomo appartenente a società primitive rimaste a un livello primordiale, era in contatto col sacro. Si spiegava la realtà come il risultato della lotta tra le forze del bene e le forze del male. Il bene, spesso conficcando un palo negli occhi del demone che lo contrastava, lo vinceva e dava origine al creato, spargendo all’intorno il corpo smembrato del demone. E allora ecco che l’uomo, a immagine della divinità, conficcava il palo nel terreno, eleggendo a sacro il territorio dove stabilire la propria dimora e differenziandolo dall’altro. La tenda drappeggiata intorno al palo, che gli avrebbe fornito la necessaria protezione dagli elementi, altro non era che una porzione della volta celeste. Poi sacrificava una vittima, ne smembrava il corpo, ne gettava le parti all’intorno e l’area così circoscritta si configurava come il recinto sacro in cui ospitare altre tende, originando in tal modo una comunità.

“La tossicodipendenza è un altare su cui si sacrifica tutto ciò che non piace.” ho sentito dire a un detenuto tossicodipendente.

E ancora: nella strada della crescita il bambino spesso elegge uno degli oggetti che lo circondano a oggetto transizionale. Lo porta con sé, gli attribuisce il potere di infondergli sicurezza, quanto basta per tollerare di perdere di vista la madre e avventurarsi alla scoperta del mondo circostante. Tale oggetto emana energia positiva, lo aiuta a transitare verso il mondo. Talvolta, però, succede che un bambino, per motivi emozionali profondi e piuttosto oscuri, faccia di tale oggetto un feticcio, credendo che esso lo protegga ma solo a condizione di tributargli degli omaggi, in termini di beni materiali o di comportamenti. Il feticcio, così, invece di dare energia al bambino, gliela toglie, pretendendo da lui dei sacrifici.

Ma cos’è un sacrificio? Un rito che, uccidendola, rende sacra la vittima. La vittima è sacra in quanto subisce il sacrificio, senza sarebbe viva ma senza valore. Dunque nel gesto del sacrificio è insita una violenza che lo rende possibile e che trae da ciò legittimazione. Sacro e violenza sono uniti in un legame fondante e indissolubile.

L’uomo dei primordi compiva sacrifici per soddisfare il suo bisogno del sacro e ha continuato a compierli. Man mano i costumi si sono fatti più evoluti, i sacrifici meno cruenti, il legame col sacro meno tenace. La cultura da sacra si è fatta profana, l’uomo ha smesso di manifestare il suo legame col sacro, il suo bisogno di sacralità, ma non ha smesso di averlo e non ha smesso di essere violento.

La violenza collegata col rito, con la sua legittimità ma anche con il suo limite, non è scomparsa, si è trasformata in violenza surrettizia. L’uomo ha creduto di poter fare a meno di Dio, ma forse, se non può conficcare un palo nel terreno per rendere speciale lo spazio scelto per sua dimora, conficcherà il palo nel cuore di un altro uomo, anche senza motivo, perché nella sua ricerca di senso tale gesto gli consentirà di lasciare un segno.

Riti profani stanno prendendo il posto dei riti religiosi di un tempo. Non esistono più riti di iniziazione nella società occidentale evoluta, ma il fumare, il tatuarsi il corpo, il piercing, l’assunzione di sostanze, la perdita della verginità in senso proprio o allargato alla perdita dell’innocenza sessuale, l’adesione a confraternite o ad associazioni criminali non sono forse rituali sostitutivi?

Il rituale costituisce un modo per fronteggiare, risolvendolo sul piano simbolico, quelle contraddizioni insite nei rapporti sociali che non possono essere risolte in altro modo. Nell’impossibilità di rimuovere una contraddizione, essa viene proiettata sul piano dell’immaginario e “risolta” in modo illusorio attraverso il simbolismo rituale.

Forse dovremmo impegnarci nel trovare rituali sani, che pur se in modo simbolico aiutino l’uomo e la società, entrambi imperfetti, a vivere meglio, a portare a livello cosciente e ad esprimere i loro bisogni.

E così ritorniamo al nodo dell’espressione!

Ho sentito più volte i detenuti dire che si sono sentiti inadeguati, incapaci di fronteggiare l’incalzare del divenire, impotenti di fronte al cambiamento.

Se mi mancasse qui un labbro superiore, là il padiglione di un orecchio… ciò non sarebbe ancora un sufficiente contrappeso alla mia imperfezione interiore”. Queste parole appartengono a Kafka. Egli si considerava un’assenza, una lacuna, una buca che qualcuno aveva scavato. Fu ossessionato dal corpo che avvertiva come un ostacolo, e come estraneo; sentiva in sé un animale, aveva orrore di molti animali perché avvertiva in sé la belva potenziale che aspettava si rivelasse all’improvviso, facendolo scendere sotto il livello umano, nell’oscurità sotto la coscienza.

Ma Kafka non si è drogato né ha commesso violenza. Ha invece scritto, dato vita alla più potente forma di straniamento mai espressa dalla narrativa. Lo scarafaggio che Gregor diventa non perde completamente la sua umanità. Preferisce lasciarsi uccidere e morire da figlio che fuggire da insetto.

Si sacrifica!

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Quell’essere un po’ ribelli

All’inizio non era tossicodipendenza, ma quell’essere un po’ ribelli
Maurizio Chianese

Con questo scritto vorrei ricercare la mia vita partendo dall’infanzia. Ho due ragioni per farlo: la prima è ricostruire e poi condividere la mia storia; la seconda è trovare delle situazioni comuni, azioni e comportamenti che ci hanno portato qui in carcere, e non oltre. Inizio partendo dall’infanzia perché, sono d’accordo con Ivan, è proprio da qui che tutto inizia: non la mia tossicodipendenza ma semplicemente quell’essere un po’ ribelli. Sono nato nel 1975, da padre italiano e da madre africana, quello che mi appresto a narrare non è un ricordo ma il racconto che mi fece mio padre un po’ di anni fa.

Quando sono nato mio padre non mi riconobbe subito, infatti da piccolo portavo il cognome di mia madre. Lei lavorava come domestica presso una famiglia benestante e la mia nascita causò dei problemi perché non poteva lavorare e contemporaneamente seguirmi. Così, s’intromisero gli assistenti sociali che, senza giri di parole, dissero a mia madre che, essendo lei straniera e ragazza madre, non poteva da sola prendersi cura di me… ma c’era la possibilità di darmi in adozione essendoci già una famiglia disposta ad adottarmi…

Fu allora che mio padre mi riconobbe come suo figlio, presi il suo cognome e con qualche difficoltà venni affidato ai nonni paterni. Avevo un paio d’anni, andai con i nonni e stetti con loro fino a 5, in questo tempo mia madre e mio padre si trasferirono a Sesto San Giovanni, dove presero in gestione un bar. Assieme agli assistenti sociali del comune riuscirono ad ottenere il mio affidamento, però non tornai a vivere con loro ma venni spedito in collegio, dove trascorsi 5 anni: uno di asilo e 4 di elementari.

Nel periodo scolastico, da settembre a giugno, stavo in collegio a Rota d’Imagna in provincia di Bergamo e l’estate a Marina di Bibbona in Toscana. Mia madre e mio padre li vedevo una volta al mese, inoltre, finito l’anno scolastico, trascorrevo una decina di giorni con loro e altrettanti quando tornavo dalla colonia estiva.

Fu in collegio il mio primo campanello d’allarme, vi erano bambini della mia età e bambini più grandi. lo trovavo più piacere a stare con i più grandi che si divertivano e facevano scherzi alle suore. Un giorno feci la mia prima marachella, il collegio si trovava in cima ad una montagna e al confine del campo di calcio c’era una vallata con una piccola fattoria. Un giorno, mentre si giocava, il pallone finì nella vallata; con la scusa di andare a prendere il pallone, raggiungemmo la fattoria dove io presi una gallina, la portai in collegio e la liberai dentro al camerone. Feci impazzire le suore che sudarono sette camicie per poterla acchiappare. Ora, in quel momento non pensai minimamente di aver commesso un reato, ma oggi mi rendo conto che ero già propenso a non rispettare le regole.

Un giorno decisi con alcuni compagni della colonia di fuggire per raggiungere il luna-park, dopo cena io e altri 4 compagni prendemmo la strada verso la spiaggia per raggiungere il luna-park. Quella sera non la dimenticherò mai, mentre noi ci divertivamo, dalla colonia era stata avvisata la polizia che aveva iniziato le nostre ricerche. Ci trovarono parecchie ore dopo, capii subito che ci avrebbero messo in punizione, difatti il direttore ci proibì di svolgere ogni attività per una settimana e ci impose di pulire la colonia sotto la guida di un educatore.

Mentre mi trovavo in collegio, i miei genitori avevano ottenuto una casa dal comune e così furono in grado di far venire i miei fratelli, figli di mia madre, in Italia. Il fatto di incontrarli fu una gioia ma, nonostante i miei lavorassero, i soldi bastavano a malapena per vestirci e mangiare. I pochi giochi che avevamo erano doni di famiglie che non li utilizzavano più. Di regali in casa, non parliamone nemmeno.

Mi ricordo che un Natale chiesi una bicicletta, mio padre mi disse che l’avrebbero portata non appena finito di costruirla. A ogni compleanno o Natale che passava io chiedevo della bicicletta e lui ogni volta rispondeva che la stavano costruendo. Un giorno l’occasione mi fece ladro, vidi una bella bici da cross fuori da un panificio, era slegata, così la presi e scappai.

Avevo fatto un furto, ne ero consapevole, ma avevo la bicicletta tanto sognata, avevo circa 12 anni ed ero contento perché finalmente avevo la bici che avevano tutti. E così iniziò la mia escalation di reati, non avendo i soldi per comprarmi le cose, iniziai a rubare e nel giro di qualche anno in compagnia ebbi il primo incontro con la droga. Era hashish, iniziai con una canna e una birra nei giardinetti sotto casa, ne fui sedotto e conquistato subito, mi piaceva e così è stato facile per me sperimentare altre droghe, arrivando alla cocaina, che all’inizio quando ancora non era un abuso, mi faceva stare bene, riuscivo più facilmente a non essere timido, a conoscere ragazze, avevo più coraggio ad affrontare dei rischi e la consumavo solo il fine settimana quando si andava per locali e discoteche.

Il bisogno di soldi aumentava e di conseguenza i furti divennero rapine. A casa dei miei tornavo di rado, li chiamavo al telefono e inventavo scuse per rimanere fuori… fino a quando ci fu il mio primo arresto. Avevo rapinato un ragazzo, ma in pochi minuti mi sono trovato circondato dai poliziotti. Arrivato in questura, avvisarono subito mio padre, avevo 16 anni quindi ormai grande abbastanza per essere processato e condannato, feci 15 giorni al centro di prima accoglienza del carcere minorile “Beccaria” e poi venni mandato a casa con la condizionale di 1 anno e 8 mesi. Oramai avevo la fedina penale sporca, il consumo della cocaina diventò abuso e la mia vita prese la strada della delinquenza.

A 17 anni conobbi Rosy, anche lei consumava la sostanza, ma il fratello era un gran lavoratore, faceva l’artigiano e montava stand nelle fiere oltre a controsoffitti e pareti in cartongesso. Mi chiese di lavorare con lui ed io accettai. Era bello girare per le fiere di tutta Italia. Nonostante fosse pesante, ci andavo volentieri e in più il consumo di droga era molto meno. Andò così per qualche anno anche se nei periodi morti qualche rapina la facevo e il consumo aumentava.

A 21 anni sono diventato padre, non per scelta, ma Rosy, a differenza di me, si è assunta le sue responsabilità. lo non ero pronto a questo. Nonostante tutto, ci sposammo qualche mese prima che nascesse Antonio e occupammo un appartamento, dopo un anno ottenemmo un contratto. La nascita di Tony doveva essere una motivazione importante per cambiare, invece si sviluppò una situazione ingestibile. Avevo tutto, lavoro, casa, ma non riuscivo a mettere la testa a posto e dopo 3 anni me ne andai. Ho lasciato Rosy e Tony, sapendo che non erano soli grazie alla sua famiglia e ho iniziato a fare danni.

Ero uomo di merda e non avevo interesse per nulla. Mio padre un giorno mi prese per strada, mi portò a casa e mi fece riprendere, dopo di che mi mise in testa che dovevo allontanarmi da Milano, mi consigliò di prendere i soldi che avevo e di raggiungere mia madre a Londra, li sarei stato lontano dalla droga e poi, con l’aiuto di mio cognato, marito di mia sorella, avrei potuto continuare il mio lavoro.

lo partii, ma il giorno dopo essere arrivato mi recai in centro, a Piccadilly Circus, un’enorme zona pedonale piena di negozi, locali, e soprattutto piena di ragazzi Italiani che bivaccano lì giorno e notte, drogandosi e spacciando soprattutto crack. Tossico sei a Milano e tossico sei a Londra, quindi mi ritrovai a fumare crack e i soldi finirono subito, così iniziai a chiederli a mia madre, che dopo un po’ si stancò e mi disse di tornare in Italia, e così feci.

Era il 2001. Dopo un anno ero di nuovo da mio padre, molto più tranquillo, avevo mollato l’alcol ma non la cocaina. Durante il giorno stavo al parco Sempione, lì faccio amicizia con Thomas un ragazzo dell’Eritrea molto intelligente ma col mio stesso vizio. Insieme ci procuravamo i soldi per la cocaina facendo furti e rapine e in qualche occasione spacciando.

Un giorno dopo una nottata di droga e alcol andammo a mangiare al McDonald, eravamo ben messi, il locale era semivuoto, solo per scherzare facemmo finta di voler portare via un contenitore di monete, ma le persone che stavano lavorando si spaventarono e senza che noi ce ne accorgessimo chiamarono la polizia. Noi eravamo seduti a mangiare, si avvicinarono 3 persone che senza identificarsi ci chiesero i documenti. Ci fu una violenta discussione, ci portarono in questura e ci riempirono di botte per poi denunciarci per aggressione a pubblico ufficiale, ci rilasciarono il giorno seguente con la notifica del processo che si tenne 15 giorni dopo, io non mi presentai e venni condannato a 9 mesi e 15 giorni in contumacia.

Per qualche anno la vita continuò così senza essere mai fermato o arrestato, e nel 2004 durante una festa in Giambellino conobbi Alessia, una bella ragazza che lavorava in un ristorante. Sapendo che da lì a poco sarebbero venuti a prendermi, non volevo assolutamente avere legami affettivi. Lo feci presente anche a lei, che nonostante tutto volle rimanermi vicina.

Arrivò il giorno fatidico e mi portarono a San Vittore. Era ottobre 2004 e con grande stupore una settimana dopo a colloquio vidi arrivare mio padre e Alessia. Con molta gioia le chiesi come aveva fatto ad avere il permesso e lei mi rispose di aver fatto l’atto di convivenza, mi è stata vicina per tutta la carcerazione.

Dopo un mese a San Vittore venni trasferito qui a Bollate e uscii in affidamento dopo 6 mesi. Andai subito a convivere con Alessia decidendo di fare il regolare, dovendoglielo dopo tutto quello che mi aveva dimostrato. Mi misi a lavorare con serietà e il fine settimana uscivamo per locali. Io mi permettevo la seratina con la sostanza, che era molto più contenuta, ma il mio grammo o 2 non me lo facevo mancare. Devo dire che, se anche la sostanza non l’avevo mai lasciata, le cose andavano bene, avevo preso la strada giusta e lei si sentiva molto appagata e sicura di me, tanto da volere un figlio. All’inizio dissi subito no, lei conosceva la storia di Tony, ma non si lasciò scoraggiare e con insistenza mi mise di fronte a come stava andando la mia vita, convincendomi che ero pronto a fare una vera famiglia.

Dopo un paio d’anni rimase incinta, durante la gravidanza passammo momenti indimenticabili e di seratine non ce n’erano più. A ottobre 2008 nasce la mia principessa, Sofia. lo lavoravo per una ditta di mozzarelle di bufala, avevo il furgoncino per le consegne, iniziavo alle 5 del mattino fino alle 13.00 e il resto della giornata la passavo con lei e la piccola.

Ogni tanto però mi concedevo una serata e fu così che una sera usai il furgone per andare a prendere un grammo. Stesi la coca sul libretto di circolazione e mi dimenticai di pulirlo. Dopo un paio di giorni venne il principale da Napoli e come sempre si mise a controllare il furgoncino, arrivato al libretto mi diede un’occhiata e mi chiese “cos’è questa polvere?” BECCATO! Disse che se avessi presentato subito le dimissioni, per come mi ero comportato fino a quel momento, avrei avuto subito la liquidazione e nessuna segnalazione, e così feci.

Mi crollò il mondo addosso, come potevo dirlo ad Alessia? Allora faccio finta di nulla, alle 5 del mattino andavo via in macchina dicendogli che il furgoncino era all’ortomercato e tornavo alle 15. Ma arriva la fine del mese e quindi devo portare lo stipendio, così pensai di fare qualche rapina. La prima andò bene, la seconda no, mi presero in flagranza di reato e patteggiai 30 mesi di condanna.

Alessia e i suoi erano neri, mio padre molto deluso e Sofia aveva appena compiuto un anno. Da qui, San Vittore e poi Saluzzo. Alessia, mio padre e i miei suoceri mi rimasero vicino, restai in carcere 2 anni, uscii gli ultimi 6 mesi in affidamento che finì a Novembre 2011.

Ero convinto che dopo tanto tempo e avendo portato a termine un percorso con il Sert, sarei stato in grado di gestire tutto, ma dopo nemmeno 6 mesi arriva la ricaduta e, senza rendermi conto, nuovamente in galera. Luglio 2012, condanna a 9 anni e tutto perso, non ho più nulla. Per 10 mesi non vedo mia figlia, sentendola solo al telefono, Alessia di me non vuole più sapere, mio padre peggiora con la sua malattia ed io sono psicologicamente distrutto.

Non mi abbatto, alzo le mani e chiedo aiuto. Inizio il percorso di cura, espongo i miei problemi e le mie paure agli psicologi del carcere dove vengo trasferito: San Vittore 10 mesi, poi arriva Opera dove, per la prima volta dopo l’arresto, vedo Sofia. Inizio a essere più tranquillo, dopo arriva il trasferimento a Pavia, dove ho la possibilità di lavorare fisso come inserviente in cucina. Mentalmente sempre più sereno e molto disposto a intraprendere il percorso di cura, ma essendo un padiglione nuovo, c’era carenza di attività come gruppi e i colloqui con gli psicologi sono molto rari.

Finalmente giungo a Bollate e qui da subito con la dott.ssa Mastrapasqua intraprendo con serietà il mio ultimo percorso, stimolato ancora di più dal fatto di vedere la mia principessa più frequentemente. Partecipo a vari gruppi del Sert compreso il gruppo della trasgressione, a questi gruppi devo molto soprattutto alle persone che li gestiscono e le persone che li frequentano. E’ grazie a loro se oggi sono qui con questo scritto.

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