Esercizi di emancipazione reciproca tra persone ristrette

Chi ha avuto occasione di partecipare a qualche riunione del gruppo della Trasgressione (Trasgressione.net), sa che ho deciso, un anno fa, di entrare in carcere ad Opera per essere più vicino ai detenuti, per dialogare non solo con coloro che avevano già raggiunto un livello di consapevolezza e ristoro della propria coscienza tale da godere di permessi e benefici, ma anche con coloro che per qualsivoglia motivo si trovano all’inizio del percorso ovvero nel mezzo del guado. Mi ero infatti detto che è più utile e stimolante mettere mani in pasta là dove c’è ancora materia da sbozzare, piuttosto che contribuire ad affinare contorni ormai definiti di un qualcosa che già presenta un solido aspetto.

Non a caso la scelta è stata quella di entrare in un mattino di luglio, quando la caldazza spingeva i più verso freschi lidi o valli di montagna, in quel periodo dell’anno in cui le vacanze si impongono a governare tempi, destinazioni e occupazioni del mondo esterno, mentre quello interno, segregato e abbandonato, può solo continuare a spuntare i giorni a venire e dotarsi di pazienza, maledicendo le ferie che impongono pause, smorzano gli entusiasmi, minano fragili abbozzi di certezze precarie, restringono ulteriormente gli spazi di libertà. Sentivo l’urgenza della continuità di una presenza vitale, che non merita e non vuole pause. E soprattutto non ne ha bisogno.

Mettere mano al magma è come lavorare con la sabbia sulla battigia, giocando con quello spirito infantile che mi è stato dapprima sottratto, e che più tardi mi sono negato, per apparire maturo e responsabile. Occorre farlo con mente sgombra dai pregiudizi che ti attendono al varco dietro ogni svolta, e con la voglia di costruire assieme attraverso il dialogo, a partire da riflessioni, sentimenti, umane emozioni tra loro anche molto diverse: è in quella prossimità che si matura assieme.

L’emancipazione dal trauma e dal dolore è un’esperienza a due facce, che vale per il colpevole e per la vittima, poiché entrambi ne hanno bisogno. Non c’è nulla da insegnare, occorre solo attivare il racconto e l’ascolto, e nutrirsi a vicenda di tutto il potenziale disponibile dei compagni di viaggio. Non c’è nulla da travasare, né lezione da esporre, né nozione da infondere, c’è solo da scoprire dentro ognuno di noi il meglio che vi alberga. Non mancano consigli, ma il percorso lo si fa scegliendo di volta in volta il cammino, spesso su erba fresca, alta, rigogliosa, che serra la vista, raramente seguendo un sentiero già abbozzato. Non ci sono stelle a guidare il cammino, né punti di riferimento prestabiliti. E non a caso il tavolo del gruppo somiglia molto a un letto ostetrico, ad una sala parto, dove la maieutica regna sovrana.

Ognuno, esterno o interno che sia, porta spontaneamente il suo fardello, il suo contributo, le sue riflessioni, le esperienze di un’esistenza più o meno sofferta, la malattia del suo vivere, le cure dolorose, le cicatrici, le lunghe convalescenze, le rinascite, le gioie: uno scambio, un’esperienza di dialogo e di riconoscimento reciproco. Riflessioni che vengono esposte, osservate, accolte, accarezzate, curate, e abbracciate. E’ una pratica di mutuo ascolto, sostegno, soccorso, accoglienza e conforto. Attenzione senza pregiudizi.

Paradossalmente è qui che il mio dolore si è svolto pienamente, le mie fragilità si sono esposte, le sofferenze comuni si sono confrontate, le scelte fortunate, quelle possibili e quelle azzardate e salvifiche sono state esposte, in una narrazione tra pari, sempre più consapevoli delle proprie fortune e miserie, delle loro cause, delle responsabilità di ognuno e il ruolo di ogni cosa nel destino personale. La mia vita profondamente, irrimediabilmente segnata dall’evento, come la vostra, quella di ciascuno di voi; le vostre vite parimenti distrutte, le vostre famiglie, i vostri figli e a cascata nipoti, amici, parenti. Dolori diversi, per natura e per fonte, benché simili per conseguenze e per intensità. Con la consapevolezza, lentamente acquisita, che le nostre sofferenze si sommano, non si elidono, che la vostra sofferenza non mi porta sollievo, nulla sottrae al mio dolore. Che è il cambiamento osservato e praticato a soddisfare l’umano bisogno di dare un senso ed un valore al dolore comune. Che si corre il rischio di tradire la propria carne, o di esserne accusati, e che queste accuse arriveranno comunque e dovranno trovarci forti, saldi e sereni nella nostra pratica onesta e consapevole.

L’emancipazione è reciproca, speculare: anche le vittime hanno bisogno di essere aiutate ad emanciparsi dal male subito, dalla logica della vendetta, a liberarsi dal risentimento e dal rancore, mentre l’autore di reato si fa responsabile non solo di qualcosa, o per qualcosa ad  appagare l’ordinaria logica retributiva, ma anche verso qualcuno e qualcosa, allargando progressivamente il suo orizzonte di responsabilità consapevole verso i figli, la famiglia, il nucleo sociale, la vittima ed i suoi familiari, la società nell’orizzonte più ampio. Emergendo dal carapace egoistico ed autoreferenziale che raffigura il vissuto di molti autori di reato, sordi da sempre all’ascolto del dolore inferto.

Ed è quella stessa società che vorrebbe attribuirci una funzione penale, chiedendoci di giudicare della congruità delle pene irrogate, di valutare l’autenticità del percorso di rieducazione dei colpevoli o la possibilità di accordare loro il perdono comunitario. Richieste sbagliate ed improprie: compiti che non competono ai familiari di vittime, poiché attengono alla funzione pubblica, e che si vorrebbe delegare per non assumersene la responsabilità, velando la delega di falsa sensibilità ed ipocrita rispetto, riproponendo nei fatti la visione arcaica e privata della giustizia, tutta interna al vissuto vittimario, viscerale, succube del cortocircuito rancore-odio-vendetta. All’opposto, se un qualcosa è giusto da un punto di vista civico, se è previsto dalle leggi, lo si faccia. Se non lo è, non lo si faccia, e non è che non lo si fa per non dispiacere ai familiari delle vittime. Della loro opinione o risentimento allo Stato non deve importare, deve esserne indipendente.

L’emancipazione della vittima, oltre a sottrarsi a queste ambiguità e tranelli, chiede di evadere dal ruolo vittimario, di liberarsi dello stigma da cui si è segnati, di rinunciare a vivere passivamente i benefici della condizione di vittima, tra cui l’innocenza oracolare o il credito perenne. Richiede di arrivare a cancellare il debito, che rimane comunque insoluto, purificando attivamente il ricordo della violenza subita, purgandolo del suo potenziale perennemente divisivo e distruttivo: liberare la memoria dal rancore, dalla zavorra di violenza vendicativa. Si tratta, spiccando il volo, di rinunciare spontaneamente al diritto al risarcimento ancestrale, che è l’unico modo per accostarsi al perdono in forma personale, per chi ci crede, lo pratica o lo cerca, oppure per partecipare alla più corale riparazione della lacerazione del tessuto sociale, pur conservando traccia e memoria degli eventi. Volgere il capo in avanti, al futuro, a nuova vita, poiché noi familiari di vittime siamo vivi, rimanendo pur sempre ancorati al ricordo del passato, ed additando percorsi felici di virtù da sperimentare consapevolmente, e gioiose, sorridenti imitazioni responsabili, anziché indossando plumbee corazze, zavorre soffocanti e paralizzanti. Consci di essere stati condannati ad un ergastolo emotivo da cui è difficile evadere, consapevoli che viviamo innocenti una vita molto diversa da quella che avevamo sognato, serenamente certi che nessuno si salva da solo.

Per i responsabili, emanciparsi significa dapprima lambire, poi lentamente apprendere ed infine condividere rimorso e pentimento, ri-scoprendo sentimenti ignoti, allontanati, rimossi, acquisendo coscienza e responsabilità sempre negate o rifiutate, prendendo cognizione del proprio e dell’altrui dolore, causato con scellerate pratiche di abuso, arroganti e narcisistiche. E lentamente, progressivamente, accettare nuove regole, riconoscere autorità finora ripudiate, contribuire ad emancipare il carcere dall’interno, con responsabilità e coscienza. Il cambiamento non è un compito, né uno scopo del gruppo, è semplicemente un’opportunità offerta; non si pensa di dover cambiare nessuno, ma esso è per certo il più fecondo risultato osservabile, consapevoli che non tutto dipende dal nostro lavorare assieme, e che probabilmente saranno altri a raccogliere il frutto del nostro lavoro di oggi.

In passato ho immaginato orgogliosamente di voler essere, con la mia presenza, macigno sulle vostre coscienze, ma ho anche sinceramente temuto di soffocarle. Meglio essere levatrice umile e gentile, felice osservatore della vita che nasce, del cuore che si risveglia, della coscienza che ritorna alla luce. Non si sa mai che cosa sarà, ma si sa che è vita, che può, fiorendo, dare il meglio di sé.

In molti mi avete detto che essere qui con voi è un insperato segno di vicinanza, di riconoscimento e di rispetto della vostra dignità. Quello che voglio dirvi con queste righe è che io stesso sono stato profondamente cambiato dal dialogo con voi, dal vostro lavoro ho appreso molto, mi avete arricchito più di quanto pensassi e mi aspettassi, pur senza confondere i ruoli e dimenticare: questa prossimità non vuole né guidare né assolvere, né plagiare né redimere. La salvazione è personale, la ricchezza del rapporto pure. Dal lavoro comune ognuno colga il meglio che può dare, traendolo da dentro di sé.

Giustizia Riparativa, dare senso al dolore delle vittime
Paolo Setti Carraro

Chi siamoNote sul metodo

Gli occhi grandi color di foglia

Dopo i saluti delle figure istituzionali e la presentazione della giornata dell’avvocato Alessandro Giungi, organizzatore dell’evento, la Trsg.band e il Gruppo della Trasgressione propongono una selezione delle canzoni di Fabrizio De André intervallate da interventi di autori di reati e di vittime degli stessi.

L’obiettivo è rendere pubblici le modalità e i risultati di un dialogo difficile ma proficuo sia per il reo sia per la vittima, risultati che il gruppo della trasgressione usa poi come materiale per contrastare bullismo e tossicodipendenza nelle scuole e sul territorio dove lavoriamo in sintonia con le carceri di Bollate, Opera e San Vittore, con la Magistratura di sorveglianza e con il Provveditorato agli studi.

L’ingresso è gratuito; la prenotazione  non è necessaria, ma è utile visto il ridotto numero di posti disponibili. Per prenotarsi occorre seguire le istruzioni riportate sulla locandina. In  caso di difficoltà, scrivere alla mail elisabetta.cipollone@gmail.com indicando con chiarezza nome e cognome dei singoli interessati.

Per prendere posto nella sala Alessi (150 posti) è particolarmente opportuno arrivare entro le 16:00; diversamente si andrà in una saletta adiacente (di 50 posti) dove il concerto verrà proiettato su un maxischermo.

15 domande (quindici) per indagare su “Lo strappo”

Luca Cereda: innanzitutto volevo capire insieme a lei quale sia – e come si possa definire e spiegare – la linea di demarcazione che il nostro diritto fissa tra il concetto di pena e quello di punizione.

Francesco Cajani: se prendiamo come punto di partenza il nostro codice penale (emanato nel 1930), esso si incentra essenzialmente sul concetto di pena, intesa quale conseguenza della violazione di una regola prevista come reato dal codice penale.
Abbiamo dunque una limitazione dei diritti che si esprime in una sanzione, e questa sanzione ha come carattere essenziale proprio l’afflittività perché – quale che sia la sua funzione – la pena implica sempre una sofferenza.
Certo, il fondamento e la funzione della pena sono sempre stati temi dibattuti perché “da millenni gli uomini si puniscono, e da millenni si domandano perché lo facciano”.
In estrema sintesi, da una parte si pone la teoria della retribuzione con la sua idea che il male vada ricompensato con il male: la pena pertanto diviene corrispettivo del male commesso.
Dall’altra si collocano le teorie della prevenzione che attribuiscono alla pena la funzione di eliminare o ridurre il pericolo che il soggetto punito, o in generale la collettività stessa, ricada in futuro nel reato.
E’ invece merito della Costituzione della Repubblica italiana, nel 1948, quello di aver messo in luce, con la previsione di cui all’art. 27 terzo comma, come “le pene debbano tendere alla rieducazione del condannato”: in tale ottica diviene fondamentale non già la pena irrogata ma l’atto stesso della punizione, e tutto il discorso – che sta anche alla base del nostro documentario – della necessità di “punire bene”, per dirla con Duccio Scatolero, intesa come un vero e proprio diritto per il reo.

Luca Cereda: punire bene, assegnare la giusta pena da parte di chi amministra la giustizia implica necessariamente un interrogarsi sul soggetto, sulla persona da punire, indipendentemente dalla sua età: è davvero pensabile – come lei scrive nella Guida alla visione del documentario – instaurare con esso una relazione che continua anche dopo l’irrogazione della pena?

Francesco Cajani: io sono solito ricordare che già Platone, nel Gorgia, aveva ben riassunto il tema che stiamo analizzando quando fa dire a Socrate che “a ogni uomo che sconti una pena, se questa gli sia stata giustamente inflitta, accade o di diventare migliore e di riceverne giovamento, o di diventare un esempio per gli altri”.
Parole scritte all’incirca nel 407 a.c. …. tuttavia è certo che, nell’antichità così come oggi, il diritto e il processo penale continuino ad essere mossi da una istanza repressiva, che riduce ed esaurisce il fare giustizia nella mera applicazione della pena: con la conseguenza che il dolore del reo punito si aggiunge a quello della vittima.
Anche perché tale modello, a ben vedere, finisce necessariamente per considerare il reo responsabile “di qualcosa” (di una truffa o un omicidio qui poco importa) e non anche responsabile “verso qualcuno”.
Ecco allora che, proprio per dare concreta attuazione all’art. 27 terzo comma della nostra Costituzione, è imprescindibile una punizione in cui il ruolo di colui che punisce non si esaurisca nell’atto di irrogare la pena. Se infatti ogni colpevole ha il diritto ad essere “punito bene”, questo significa – in altre parole – che proprio tramite l’atto del punire lo Stato deve prendersi idealmente carico del suo esito e, per esso, della sua piena efficacia.

Luca Cereda: c’è un senso in cui la punizione acquista anche il significato dell’essere presente per il reo, laddove altri – la famiglia, gli amici, la società ma anche le Istituzioni – non ci sono stati? In questo percorso che ruolo posso avere – e come si costituiscono – i percorsi di giustizia riparativa?

Francesco Cajani: é indubbio che un buon esito della punizione è sicuramente quello che fornisca al soggetto punito tutti quegli strumenti che gli consentano di riappropriarsi della propria umanità (che è stata abbandonata e tradita all’atto del commettere un reato) e, dopo aver incontrato sé stesso, iniziare a pensare all’altro.
Ed è altresì interessante notare come Aulio Gellio, uno scrittore della Roma antica, si domandasse il perchè Platone non avesse ricordato nel Gorgia una terza funzione della punizione, chiamata in greco timoria (ossia vendetta dell’onore della vittima, che verrebbe menomata se il colpevole rimanesse impunito).
L’esperienza anche mia personale mi porta però a dire che molto spesso ai Familiari delle vittime di reati non importa ottenere un risarcimento e, a volte, nemmeno vendetta. Quello che le vittime chiedono, sempre con più insistenza, è che a farsi carico del peso della giustizia sia proprio lo Stato, e non loro.
E pertanto, in uno scenario così complesso, lo Stato deve essere in grado di ri-comprendere, insieme al reo, anche la vittima. Perché non esiste solo un diritto riconosciuto dall’art. 27 della nostra Costituzione al reo, ma anche un preciso dovere verso le vittime: quello di mettere in campo forze positive in grado di “scongelare” il dolore affinchè possa, per quanto possibile, ri-trasformarsi in qualcosa di vivo.
Per questo credo fortemente che sono proprio e solo i percorsi di giustizia riparativa quelli nei quali, al netto dell’incontro tra il reo e la vittima, il dolore dell’uno non si aggiunge ma si sottrae a quello dell’altro.

[le altre 12 domande di Luca Cereda per il programma Radio Scarp e le risposte di Chiara Azzolari, Walter Vannini, Carlo Casoli e Juri Aparo sono reperibili qui]

 

Per approfondire:

– F. MANTOVANI, “Diritto penale. Parte generale”, III edizione, Milano, 1992, pp. 741 ss
– F. STELLA, Prefazione in E. WIESNET, “Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita”, Milano, 1987
– D. SCATOLERO, Atti delle Giornate nazionali di studio e di riflessione sull’applicazione del nuovo codice di procedura penale minorile, Milano 23-24 ottobre 1992, p. 136
– C. MAZZUCATO, La giustizia dell’incontro in G. BERTAGNA-A. CERETTI-C. MAZZUCATO (a cura di), “Il libro dell’incontro”, Milano, 2015
– F. OCCHETTA, “La giustizia capovolta”, Milano, 2016

La partita a bordo campo

 

 

Pensieri dal carcere

Penultima fermata, Città Nuova, novembre 2018
Pensieri dal carcere, di Elena Granata

Abbiamo passato il primo muro di cinta, poi il controllo dei documenti e il ritiro di borse e cellulari, poi un lungo cortile al buio, infine un corridoio lungo e colorato, pieno di murales e di disegni colmi di vita. Eccoci dentro il carcere di Opera, nei pressi di Milano. Entrare in carcere è sempre un’esperienza intensa. Soprattutto per chi entra per una sera e poi sa che farà ritorno alla propria casa: le porte, i muri, i chiavistelli, i controlli, i codici, le armi.

Il coro della scuola dei miei figli è stato invitato ad uno spettacolo insieme a carcerati e così – a fine di una giornata di lavoro – mi trovo lì, in quella sala al buio, da una parte il pubblico dei reclusi, dall’altra le famiglie. La separazione è netta tra noi anche in quel momento. Questioni di sicurezza, ci dicono. Poi la musica, i racconti dei ragazzi che scontano la pena, il maestro di coro che spiega il percorso fatto. Bastano poche ore per ritrovarsi dalla stessa parte, tutti colpevoli e tutti innocenti, qualcuno “dentro” per un destino che magari è stato più crudele, qualcuno “fuori” per coincidenze positive che ci hanno condotti su altre strade. Bastano poche ore per sentirsi legati dal mistero delle nostre vite, così diverse. Ci siamo guardati, ascoltati, ci siamo commossi, abbiamo riso. Di quante sfumature può essere ricca la vita umana. Non si riflette mai a sufficienza su chi rimane dietro quelle sbarre per anni. Talvolta per una vita intera. Nel racconto di tanti di loro vi è il ricordo di un “prima che”. Prima che colpissi mio fratello, prima che perdessi la testa, prima che confondessi il senso delle cose. Un prima di bambini nelle case di infanzia, dello sguardo di un papà che li ha amati, di una maestra che aveva creduto in loro. Oppure un vuoto, nessun papà, nessuna casa confortevole, nessuna maestra attenta a loro.

C’è un prima e un dopo, fatale. La violenza lega per sempre la vittima e il carnefice e poi col tempo la differenza sfuma. Quella sera mi sono sembrati tutti ragazzini – non solo perché la gran parte di loro erano giovanissimi e con pene a lunga scadenza – capaci di emozionarsi per le note di una canzone, per il racconto di un compagno, per il sorriso di una studentessa volontaria in carcere.

È stato dolce e straziante salutarci a fine serata, lì dove le emozioni paiono amplificate dal confino e dalla nostalgia. Mi sono rimaste addosso dolorose le domande di sempre, quelle che dovrebbero turbare la nostra sensibilità di persone libere: che ne sarà di questi ragazzi? È il carcere, così come lo abbiamo sempre pensato, la soluzione sul lungo periodo? Quale è il confine tra colpa e responsabilità?

Basta non varcare mai quella soglia per pensare serenamente che chi ha sbagliato deve pagare. Appena la varchi capisci che quel mondo che abbiamo separato da noi, ci riguarda più di quanto possiamo immaginare. Quello che chiamiamo assassino, ha due occhi grandi da bambino e due occhi enormi che raccontano la sua paura. Non possiamo abbassare lo sguardo.

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Il lievito madre

A volte di fronte a un gesto di apertura, a uno scambio coraggioso proviamo commozione. Ci inteneriscono e ci conquistano i bambini, gli animali protagonisti di questo genere di eventi… che noi guardiamo con il sorriso benevolo dell’adulto e un po’ col desiderio di trovarci al loro posto.

L’improvvisa vicinanza, la sintonia fra soggetti, che a prima vista sembrano tanto distanti da non poter comunicare, ci cattura come se quella nuova e inattesa prossimità fosse la meta dei nostri desideri più antichi.

In questi giorni attorno a Natale girano tanti video che raccontano del bisogno nato con noi stessi, quello di trovare una risposta protettiva alla nostra fragilità, una esigenza così arcaica che non si lascia zittire nonostante le dimenticanze di cui siamo tutti più o meno responsabili, nonostante i ripetuti tentativi di surrogare il nostro primo bisogno dell’altro con pratiche mirate a dominare il bisogno e l’altro in quanto tale.

Mi fa piacere riportarne qualcuno dei video visti in questi giorni e di fronte ai quali mi sono sentito come un bambino che, tornando a casa dopo avere a lungo giocato, trova ad attenderlo il pane caldo preparato dalla nonna. E, a proposito di pane caldo, credo che quello che ognuno di noi prova di fronte al risveglio del desiderio antico possa e debba essere usato con i più giovani e… con le persone più distratte come fanno il panettiere o la vecchia nonna con il lievito madre: lo usano per dar vita al pane fresco e dall’impasto del nuovo pane ricavano quello che sarà il lievito per il prossimo giro.

Va nella stessa direzione dei video il dialogo a distanza pubblicato da Paolo Foschini sul CORRIERE DELLA SERA del 24/12/2018.

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A come Acqua, A come Andrea

Esco dal carcere quasi di corsa, ho bisogno di una boccata d’aria. Ho fretta e la strada che mi separa da casa mi parrà interminabile.

Il punto è che lì, in quegli spazi finiti, opprimenti, ovattati, mi sono sentita soffocare; dentro quelle mura che violentano la libertà, nulla sembra esistere se non il presente e un pesante passato che ha segnato tutte quelle vite.

Prima di uscire mi sono fermata due minuti a chiacchierare con un agente. Non avevo mai visto corridoi sbarrati che portano alle celle. È la mia prima volta in carcere. Sbarre e mani e occhi che mi cercano. Ho voglia di scappare perché quella visione mi fa male e dentro ho solo spazio per il dolore perenne che provo per la morte di Andrea, mio figlio.

Sento la mia corazza farsi di cartapesta e non riesco più a celarmi dietro la coltre di rancore e odio che mi ha avvolta per 4 interminabili anni. Sono una vittima, una mamma monca, spezzata, entrata in carcere per urlare agli autori di reato il mio dolore e per nessun’altra ragione che puntare il dito. Da giudice! Da inquisitore!

Sono arrabbiata, legittimamente arrabbiata. Sono Vittima per sempre, ma ora, nell’uscire da quel luogo di espiazione, mi sento meno calata nel mio ruolo totalizzante. Ogni certezza si sgretola e provo una salvifica compassione per gli autori di reato e non comprendo come un essere umano possa sopportare una vita dietro quelle mura. Proprio io che dietro quelle sbarre ce li avrei mandati tutti i delinquenti e senza neanche un giusto processo e tre gradi di giudizio, che mi parevano un’enorme perdita di tempo e un grande spreco di denaro pubblico.

Calata in questa nuova dimensione inaspettata, nessuno, nemmeno il più spietato assassino mi provoca sentimenti negativi; eppure la clemenza non rientrava proprio nei miei progetti di mamma orfana. Arrogante e chiusa nella mia bolla, mi atteggiavo a giudice senza averne alcun titolo. Ma arretra ogni difesa e perdo questa sterile lotta contro la mia gabbia fatta di odio e rancore.

Da allora li incontro sempre. Racconto loro il mio vissuto e trovo occhi pieni di lacrime e solidarietà. Siamo facce della stessa medaglia: il dolore, quello subìto, quello provocato. Quegli occhi, quelle storie entrano dentro di me e agiscono come il ferro operatorio di un abile chirurgo. Arriva in profondità e va a cercare il male per sradicarlo. Brucia ma cauterizza.

Ora so. Ne ho le prove! Il male si può sconfiggere, si può anche fermare ma il bene no! Una volta innescato, il bene dilaga e invade, inarrestabile, travolge tutto ciò che c’è intorno.

Mi sento una donna migliore. Sento che possiamo fare un pezzo di strada insieme, senza fretta, curandoci le ferite con un sorriso o un abbraccio, senza troppe parole, fusi nei nostri ruoli e nei nostri dolori.

Fuori piove, ma noi abbiamo il sole dentro. Si chiama Ascolto, Accoglienza, Amicizia, Affetto, Amore, Acqua, Andrea, un pozzo per Andrea

Elisabetta Cipollone

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Il canto dell’acqua nell’arsura

Cara Elisabetta,

eccomi a te, con la responsabilità di chi ha offeso la vita, per cercare di restituirti parte della bellezza che tu ci regali. Ci ascoltiamo e ci sosteniamo ogni giorno per rispondere alle nostre fragilità e al tormento che regna nella solitudine dove tante volte ci rifugiamo. Donna senza risparmio d’amore, senza tregua nel portare il bene dove ha prevalso sempre il male. Combatti come un guerriero e ti fermi solamente quando ci porti le tue cure. La vita è un mistero. Anche tu, come tutti, spingi verso l’infinito ma, a differenza di tanti, punti a un infinito ben definito: la fusione con Andrea, tuo figlio, che vive dentro di te e ti spinge in direzione del bene. Un bene che riconosco e di cui ti sono grato; un bene che ti restituisce, ogni qualvolta scatta la magia, un battito del cuore di Andrea.

Ricordo, e spesse volte lo dici nelle tue testimonianze, quanta rabbia, rancore e voglia di vendetta albergavano in te. Non vivevi se non per cercare giustizia del tribunale contro chi commette reati e contro le  istituzioni che non riconoscevano, fino a prima dell’inizio delle tue battaglie, l’omicidio di strada. Poi, come per incanto, hai conosciuto il Progetto Sicomoro.  Progetto basato su incontri tra parenti di vittime o vittime e responsabili di reato. All’inizio è stata una lotta senza esclusioni di colpi, ma dopo i primi incontri, ascoltando e toccando con mano le fragilità di quegli autori di reato, ha prevalso in te la tua vera identità, il tuo senso materno. E così hai colto che dietro quelle maschere ci sono uomini che hanno bisogno di essere nutriti per potere essere restituiti alla società.

Con noi e per noi, oggi conduci le tue battaglie contro il degrado. Oggi ti sei fatta alleata con chi prima combattevi (noi), nonostante l’offesa più grande che una madre possa subire: la morte di un figlio, per guida spericolata, da parte di uno scellerato senza senso di responsabilità.

Oggi hai sposato anche le idee e iniziative del Gruppo della Trasgressione. Ne sono orgoglioso! Ciò che fai è una fortuna per me e per noi tutti e penso sia motivo di speranza per chi, dopo aver subito atrocità simili alle tue, vive ancora soffocato dal rancore.

Due occhi tra le canne di bambù ascoltano il silenzio della notte. Gocce che cadono, diamanti senza luce, frecce di dolore piantate nel cuore. Un’eco di passi severi e il cuore intona il canto dell’acqua nell’arsura.

Con immensa gratitudine,
Roberto Cannavò

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Riconoscersi

C’è stato un tempo in cui per sentirmi vivo avevo bisogno di morire un po’ ogni giorno…

Quando ho conosciuto Elisabetta stavo camminando da oltre venti anni tra le piaghe del mio passato criminale. Un viaggio profondo iniziato in solitaria, tra le mura della mia cella. L’unico feed-back che mi tornava era un enorme disagio, una sensazione di pesantezza che mi rendeva difficoltoso respirare. Ma non demordevo: volevo iniziare a vivere.

Sono andato avanti così per molti anni, finché un giorno ho deciso di comunicare il mio dolore. Grazie al confronto con gli altri, soprattutto al tavolo del Gruppo della Trasgressione, sono riuscito a ricomporre il mosaico della mia storia, illudendomi, però, di aver raggiunto le profondità del dolore che ancora mi porto dentro. Ma mi sbagliavo: quella era la punta dell’iceberg. L’ho capito quando ho iniziato ad avere contatti con i familiari delle vittime: madri, padri, fratelli e sorelle i cui cari erano stati brutalmente ammazzati da persone come me.

Nei miei interminabili viaggi introspettivi avevo cercato di immedesimarmi in queste persone, ma quando ho visto i loro visi straziati dal dolore il senso di colpa è riemerso prepotentemente schiacciandomi alle mie responsabilità. Ci sono voluti anni per riprendermi ed Elisabetta ha avuto un ruolo importante nella mia risalita dagli abissi.

Elisabetta è entrata nella mia vita qualche anno fa; lei è una mamma a cui un folle alla guida di un’auto ha brutalmente ucciso il suo adorato figlio, Andrea, che aveva solo quindici anni. Elisabetta e io ci siamo “riconosciuti” immediatamente; due vite così agli antipodi ma intrecciate a filo doppio da un denominatore comune: il dolore. Il dolore è uguale per tutti, ma c’è un’importantissima distinzione da tenere sempre presente: io il dolore l’ho causato mentre persone come Elisabetta l’hanno subìto.

Grazie a lei ho fatto un ulteriore passo avanti verso la vita. Come una sorella mi sostiene nelle difficoltà quotidiane e mi stimola a non farmi schiacciare dai sensi di colpa. Io cerco di starle vicino quando la mancanza di Andrea le toglie il respiro, ma di fronte a quest’immane dolore mi sento impotente… Non so cosa darei per aiutarla a portare il suo fardello…

Non potrò mai dimenticare il giorno in cui mi ha chiamato “fratello”… In quel momento ho sentito qualcosa dentro di me sciogliersi, come quando si toglie un ostacolo e il cammino ritorna ad essere fluido. Io, un ex assassino, che vengo chiamato fratello da una mamma cui hanno ucciso un figlio.

Se non è un miracolo questo!

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Quale Alessandro

Fratello,

ho letto la lettera e mi sono emozionata. È bellissima davvero. Resta un mistero grande per il mio cervello troppo piccolo capire, anzi, immaginare un giorno in cui il tuo cuore è stato cattivo e le tue mani crudeli. Ecco non ce la faccio neanche se mi sforzo. Però tu dici questo, le sentenze dicono questo e devo arrendermi.

Un tempo, un Alessandro che non conosco ha compiuto il male. Quell’Alessandro è esistito, ma ora non esiste, quell’Alessandro ha premuto un grilletto e ora ripudia ogni violenza, fosse anche solo quella di una parola fuori luogo. Lui, ne sono più che convinta, ora non si ciba neanche di carne per sublimare la sua dedizione al bene. L’altro Alessandro è morto e sepolto eppure respira, vive e ama.

Se non è un miracolo questo!

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Buon Natale col Coro Zenzero

Il Coro Zenzero ospita il
Gruppo della Trasgressione

Giovedì, 20 dicembre, alle ore 21:00
Scuola Media Carmelita Manara
Via Bezzecca, angolo Via Cadore

Ingresso libero