Rinascita e trasformazione

Egregio Dottore Aparo, frequento da poco il suo gruppo e il 13 giugno scorso ho potuto assistere allo spettacolo “I violini del mare contro l’indifferenza”.

Credo che il progetto che lei chiama “Gruppo della Trasgressione” sia qualcosa di eccezionale e penso che nemmeno lei si rende veramente conto di cosa ha creato, facendo sedere allo stesso tavolo vittime e carnefici. Quando vengo al corso e stringo la mano a una persona come il Dottor Paolo Setti Carraro avviene qualcosa che mai avrei creduto possibile nella mia vita.

 Il gruppo della trasgressione è una realtà che vive solo negli istituti di Milano e aggiungo che, se mentre ero detenuto in altri istituti mi fosse stato raccontato da altri l’esistenza di questo corso, non ci avrei creduto. E’ una realtà troppo difficile da immaginare per chi è detenuto altrove.

 L’evento del giorno 13 giugno è stato bellissimo, con vittime e carnefici allo stesso tavolo. Tutti gli interventi sono stati gradevoli e sentiti, ma quello che mi ha colpito di più è stato quello di Padre Ciotti, forse anche perché da lui non mi sarei aspettato (essendo padre Ciotti coordinatore dell’associazione Libera) parole cosi profonde e incoraggianti verso noi carnefici.

 Inoltre il nostro progetto punta sulla rinascita, sulla trasformazione e, proprio per questo, la presenza di uno strumento come il violoncello costruito con il legno proveniente dai barconi affondati è stata la ciliegina sulla torta.

Vedere con i propri occhi che il legno che in un primo momento ha dato morte alle persone è stato trasformato in strumenti musicali che regalano invece momenti di gioia, è meraviglioso e dimostra oggettivamente che il cambiamento è possibile.

Tra un intervento e l’altro, tra una canzone e l’altra, guardavo il violoncello e più di una volta ho pensato che, se c’è l’ha fatta il legno della barca a passare da strumento di morte a strumento di piacere, può farcela anche l’essere umano.

Oscar Pecorelli

  • Don Luigi Ciotti e Dori Ghezzi
Da Andrea Spinelli

I violini del mare contro l’indifferenza

La bambina con gomma e matita

Una mattina una bambina andò a comperare una gomma. Quando uscì dalla cartoleria provò a cancellare una scritta sul muro. Cancella e cancella, cancellò anche la casa e così gli abitanti caddero e si sentì: “patapunfete!”

La bambina rimase di stucco, era molto dispiaciuta per quello che aveva fatto e corse via piangendo, arrivò a casa e raccontò il fatto alla mamma. La mamma le diede un semplice consiglio, quello di ridisegnare una nuova casa per gli abitanti che erano caduti.

Allora la bambina ritornò alla cartoleria, comperò una grossa matita, tornò davanti al muro e iniziò a disegnare un grande castello con tante finestre, torri e un grande portone.

Quando ebbe finito chiamò gli abitanti della casa e disse loro che adesso avevano una casa più grande e bella e chiese se erano felici, ma con suo grande stupore loro risposero che non volevano un castello ma la loro vecchia casetta in cui avevano tutti i loro ricordi.

La bambina riprese la gomma e dispiaciuta cancellò d nuovo quello che aveva disegnato. Ma c’era un piccolo problema: lei non si ricordava com’era la vecchia casetta così chiese agli abitanti se avessero una foto o si ricordassero com’era fatta, allora si fece avanti il vecchio nonno della famiglia e le disse: “Bambina, chiudi gli occhi e disegna la tua casetta, vedrai che andrà benissimo”.

La bambina disegnò una casetta deliziosa dal tetto rosso e una piccola porta con un piccolo giardino. Tutto era bello e donava dolcezza, aprì gli occhi e vide gli abitanti contenti che si abbracciavano, finalmente avevano riavuto la loro casetta, aprirono la porticina e sorridendo entrarono.

La bambina era felicissima e mentre tornava a casa passò davanti alla cartoleria così entrò e scambiò la gomma con una matita con cui disegnò tante casette sui muri della città.

Giuseppe Di Matteo

Le fiabe di Nonno GiuseppeLa nicchia, la crosta e il rosmarino

Indifferenza e metamorfosi

Il giorno 13 giugno, presso il teatro del carcere di Opera di Milano, il gruppo della Trasgressione con la collaborazione della direzione del carcere, della Fondazione Casa delle Arti e dello Spirito, dell’associazione Libera, della Fondazione Fabrizio De André e del progetto “Lo strappo. Quattro chiacchiere sul crimine” ha tenuto un incontro intitolato “I violini del mare contro l’indifferenza“.

Due sono i concetti che hanno tracciato il filo rosso dell’intera serata: l’indifferenza e la metamorfosi.

L’indifferenza è neutralità, ostentata assenza di partecipazione ed interesse. L’indifferenza è oggi tra gli atteggiamenti preferiti della maggior parte dei consociati, soprattutto nei confronti del male. E così come c’è stata e ancora oggi persiste indifferenza verso migliaia di vittime dei naufragi, verso coloro che hanno perso la vita, ma non la speranza; così anche c’è e continua ad esserci indifferenza nei confronti del carcere, più precisamente, nei confronti dei ristretti, che lo popolano.

Proprio come i migranti, non hanno avuto la possibilità di scegliere dove nascere, così anche, molti detenuti hanno scelto la strada della criminalità, non avendo avuto la possibilità di sviluppare un pensiero e strategie d’azione diverse da quelle che purtroppo hanno tenuto. Eppure, dalle ceneri è sempre possibile risorgere. Anche i fatti irreversibili, come la morte, sia essa derivata da un naufragio o da un assassinio, possono conoscere sviluppi positivi.

Il maestro liutaio Enrico Allorto ci ha infatti insegnato che a volte “l’impossibile è possibile”. Nessuno credeva nella possibilità di recuperare il vecchio e inzuppato legno dei barconi, eppure, grazie alla speranza e dedizione di chi ci ha creduto, la stessa è stata lavorata e trasformata in strumenti musicali.

Questi strumenti oggi, non sono più mezzo di distruzione, ma di creazione. Creazione di unità e sintonia tra tutti coloro, che ascoltano i suoni emessi dal delicato tocco di chi li sa suonare.

In molti negano la possibilità di un cambiamento da parte dell’essere umano: “un uomo che ha ucciso, non potrà mai essere una persona normale”. E invece “l’impossibile è possibile”. Numerose sono le testimonianze di ex criminali, tra cui assassini e affiliati ad organizzazioni criminali a dimostrare che il cambiamento non è un’utopia, bensì realtà. Sono sufficienti gli stimoli, i luoghi, le parole e gli incontri con le persone giuste, affinché tutto ciò si realizzi.

L’obiettivo è quello di demistificare le narrazioni diffuse sulla realtà carceraria, narrazioni che provengono da parte degli indifferenti, da parte di chi il piede in carcere probabilmente non lo ha mai messo, lo sguardo verso un detenuto non l’ha mai rivolto, privandosi così della possibilità di scorgere dietro a quel “mostro”, un essere umano che ha sbagliato. Un essere umano che ha scelto il male, ma che è ancora in grado di scegliere il bene.

A tal proposito, è doveroso acquisire la consapevolezza che non esistono persone crudeli in assoluto, bensì persone che sbagliano, e che in quanto tali, non sono uno scarto da buttar via. In quest’ottica il carcere potrà essere l’occasione, che la vita non è stata in grado di dare a queste persone: una seconda possibilità, in cui attraverso lo studio, il dialogo e l’apprendimento di una professione nuova possono crearsi il loro spazio nel mondo.

Il carcere non deve mai rappresentare un parcheggio in cui attendere inermi, la soluzione privilegiata per eliminare dalla società il disagio, che non si vuole vedere e nemmeno risolvere.

Ecco, “i violini del mare contro l’indifferenza”, costituisce uno dei tanti progetti, che si inserisce in un percorso più ampio, necessario ad attuare un grande cambiamento, che richiede uno sforzo da parte dell’intera collettività, la quale non può rimanere neutrale, non può rimanere indifferente. Questo grande cambiamento, a cui si ambisce, potrà dirsi pienamente raggiunto, soltanto quando ciascun cittadino prenderà veramente consapevolezza di ciò che vuol dire vivere in un Paese democratico e si impegnerà nel diffondere e promuovere i valori su cui la democrazia si fonda, senza lasciare ai margini nessuno.

Per concludere con le parole del protagonista virtuale (Fabrizio de André) del progetto, bisognerebbe farsi “carico di interpretare il disagio rendendolo qualcosa di utile e di bello”. E’ questa la missione di ciascun uomo che non vuole essere indifferente.

Giulia Varisco

  • Lucilla Andreucci
Da Andrea Spinelli

I violini del mare contro l’indifferenza

Da costo a risorsa

Come si può cambiare il carcere se noi stessi detenuti non siamo in grado di metterci d’accordo su delle piccolezze! Ho visto tante persone che aspettano che uno sbagli per poter prendere il loro posto di lavoro invece che fargli capire che quello che sta facendo è sbagliato; lo si incita ancora di più a commettere l’errore. In questi anni di detenzione non ho sentito parlare d’altro che di processi, di educatori, di relazioni non chiuse, di chi è dentro per rapine, spaccio, omicidi, mai una volta che si parlasse di come potremmo cambiare in meglio le condizioni carcerarie.

Grazie ad un altro detenuto ho conosciuto il Gruppo della Trasgressione, in questi pochi mesi ho continuato ad arricchire sempre più il mio bagaglio culturale, ascoltando con attenzione il parere di tutti.

Grazie al dottor Aparo ed ai suoi collaboratori ho imparato a guardare con occhi diversi un dipinto del Caravaggio, cercando di capire il messaggio che il pittore ci ha voluto lasciare. Prima di partecipare al gruppo un dipinto per me era o bello o brutto, non andavo ad analizzarne il contenuto con le sue sfumature.

Il Gruppo della Trasgressione è l’inizio del progetto di come possiamo cambiare il carcere. Il Comune o l’istituzione dove risiede l’istituto penitenziario dovrebbe prendere come esempio le grandi aziende che fanno investimenti con guadagni a lungo termine. Si dovrebbe investire di più sui detenuti, stanziando finanziamenti per corsi di formazione professionale, in modo che il detenuto che abbia scontato la pena abbia più possibilità di entrare nel circuito lavorativo normale.

Si dovrebbe poi informare la popolazione che tenere per lungo tempo le persone chiuse in carcere ha un costo economico pesante per lo stato e quindi per la popolazione.

A mio parere, insomma, se, mentre sono detenuto, vengo aiutato ad istruirmi, diventerò un guadagno sia per la società sia per me stesso, non gravando più come un costo ma divenendo una risorsa. Un vecchio proverbio insegna che se prendi una persona che non ha nulla da mangiare e le dai un pesce si sazierà per un solo giorno, se gli insegni a pescare potrà mangiare sempre.

Salvatore Luci

Reparto LA CHIAMATA

 

Come fiori di loto

Tutto è scuro e melmoso
viscido e nauseante

Come tutti i giorni che
si trascorrono in questo
Maledetto posto.

Anche quelli più luminosi
qui sono bui e tristi
Quelli più caldi poi diventano
freddi.
Manca l’aria e si respira
a  fatica

Annaspando si cerca di
Rimanere vivi
anche se ogni istante sa di
Morte.

Ma come per i fiori di loto,
che nascono nel fango, accade
qualcosa di straordinario.

Si può rinascere dal profondo, dal buio
Ecco sorgere la luce del sole ed il fiore
di loto si apre e finalmente può sbocciare.

Ed il buio diventa luce,
Luce che illumina
Luce che scalda
Luce che riflette
Luce che … perdona

Vincenzo Calcagnile

Poesie

Dedicato al detenuto Vito Paolo Troisi che è riuscito a farmi rivedere la luce

La gestazione reciproca

Faccio parte del Gruppo da circa un anno e mezzo, all’inizio come tirocinante e ora come componente. Ieri, di fronte ad alcuni detenuti che venivano per la prima volta al gruppo, il Professore Aparo ha chiesto agli studenti presenti: “Ma chi te lo fa fare?”. Ecco la mia risposta!

All’inizio ho deciso di svolgere il mio tirocinio con il Gruppo della Trasgressione perché ero tremendamente curiosa di vedere con i miei occhi cosa si nascondeva all’interno delle mura di un carcere. Incontro dopo incontro, poi, mi sono resa conto che non ho trovato nulla di quello che mi ero immaginata: ho trovato delle persone. Persone che alla fine non erano così diverse da me, da noi. Ho trovato vissuti e anime che chiedevano aiuto e altre che invece hanno aiutato me, in un modo o nell’altro.

Poi il tirocinio è finito, ma nel frattempo la magia del Gruppo mi aveva completamente stregata: è diventata una droga, qualcosa di irrinunciabile, qualcosa di vitale, e il Professore Aparo è diventato per me una guida.

Uno dei concetti che spesso emerge nei discorsi che facciamo è quello della gestazione reciproca, ovvero un processo di crescita, formazione e maturazione al quale tutti partecipano per crescere insieme agli altri: tu fai crescere me ed io faccio crescere te, e così cresciamo insieme. È un concetto che mi piace molto, l’idea che persone sconosciute possano pian piano diventare nostre alleate semplicemente tirando fuori le proprie fragilità l’una con l’altra. Questo accade perché probabilmente si crea un luogo sicuro, all’interno del quale le persone iniziano a fidarsi e iniziano a sentirsi libere di potersi raccontare con trasparenza, emozionandosi, piangendo e anche arrabbiandosi. E in questo luogo sicuro io mi ci trovo benissimo, perché ogni persona qui viene vista e viene riconosciuta, viene presa per mano e accompagnata a conoscersi e a capire chi si vuole essere.

Faccio fatica a rendermi conto del percorso che ho fatto io nel gruppo da quando ne faccio parte, ma vedo con chiarezza il percorso che, invece, hanno fatto e continuano a fare le altre persone. Trovo che sia meraviglioso vedere giorno per giorno i progressi che una persona fa durante il proprio percorso di crescita, mi fa emozionare, mi fa venire voglia di farne parte e mi fa percepire la vita. Mi fa sentire viva.

Ecco, probabilmente è questo il motivo che mi fa dire che ne vale la pena: voglio crescere, voglio sentirmi utile, voglio sentirmi riconosciuta e imparare a riconoscere anche l’altro, voglio essere vista, voglio sentirmi viva, voglio vivere. E io all’interno del Gruppo mi sento proprio così, perché per vivere è necessario farlo insieme alle altre persone, progettare con loro, crescendo insieme e raggiungendo insieme obiettivi comuni. Ed è quello che vorrei poter fare per tutta la vita.

Camilla Bruno

Note sul metodo

Se si può dentro, allora anche fuori

Ho scelto di intraprendere il tirocinio curricolare di Scienze e Tecniche Psicologiche in carcere, spinta dalla voglia di essere partecipe di un cambiamento del contesto penitenziario, troppo spesso inadatto alla riabilitazione del detenuto, che collocato nella sua cella, non dispone della possibilità di affrontare un percorso realmente efficace, volto alla reintegrazione nella comunità.

Il Gruppo della Trasgressione si occupa proprio di questo. Si tratta di un collettivo fondato nel 1997 dal Dottor Angelo Aparo, psicologo e psicoterapeuta che tuttora coordina gli incontri nelle carceri di Opera, Bollate e San Vittore, le iniziative come concerti ed eventi di sensibilizzazione sulle tematiche trattate e gli interventi nelle scuole.

La riflessione è l’elemento chiave della riabilitazione, che permette al detenuto di mettersi nella condizione di porsi domande, confrontarsi con gli altri componenti e con le diverse prospettive di pensiero. Inoltre, le emozioni sono il linguaggio universale che permette la vicinanza e la comprensione tra persone con vissuti completamente diversi.

Attraverso questi strumenti il detenuto può comprendere se stesso e il proprio malessere, di cui spesso non è conscio. Questo è il punto di partenza per poter capire che è proprio dalla sofferenza, dal vuoto e dall’insicurezza che nasce l’abuso.

Grazie alla vicinanza con individui provenienti da altri contesti, l’abusante, gradualmente riesce ad entrare in empatia con l’altro, ovvero con la potenziale vittima, prendendo consapevolezza della sua umanità e del dolore che i propri abusi le possono causare e che hanno causato ad altri in passato.

Il gruppo è una sorta di microcosmo composto da detenuti, ex detenuti, tirocinanti, familiari di vittime di reato e liberi cittadini. Grazie a questa eterogeneità, il detenuto si può interfacciare con realtà differenti dalla propria e può gradualmente inserirsi in un contesto diverso da quello criminale, acquisendo un ruolo più costruttivo e prolifico nella società.

L’importanza del ruolo è fondamentale in questo percorso, poiché si tratta di un fattore che porta a rielaborare e ampliare la consapevolezza della propria identità.

L’identità deve essere considerata come dotata di più sfaccettature. L’individuo può decidere di lavorare su determinate qualità della propria personalità rispetto ad altre. L’obiettivo è favorire che ogni singola persona e l’intero gruppo esplorino nuovi tratti positivi di ogni singolo componente, così che questi possano essere esercitati in contesti più stimolanti e creativi rispetto ai contesti del passato.

Qui le emozioni tornano ad essere utili poiché, se incanalate nella giusta direzione, possono produrre ottimi risultati. Degli esempi possono essere gli scritti molto toccanti che i detenuti compongono e poi leggono agli incontri.

Durante il tirocinio ho partecipato a diverse iniziative che mi hanno fatto comprendere quanto l’arte sia un importante mezzo di comunicazione in grado di avvicinare le persone, dare voce ai detenuti e trasmettere emozioni.

Nell’Istituto Clerici di Brugherio, studenti e detenuti hanno avuto modo di collaborare e acquisire consapevolezza delle reciproche storie, condividendo emozioni e vissuti, apprendendo gli uni dagli altri. I ragazzi hanno dimostrato interesse e impegno negli incontri, scrivendo e incidendo delle canzoni che sono state presentate all’incontro finale tenutosi nel teatro del Carcere di Opera.

Sempre nel teatro di Opera, si è svolto il cineforum del film “La parola ai giurati“, in collaborazione con Extrema Ratio, un’associazione culturale che si occupa di giustizia riparativa. I detenuti hanno avuto l’occasione di commentare la pellicola e portare un punto di vista alternativo rispetto a quello giuridico.

Presso il Museo Universitario delle Scienze Antropologiche di Milano, ho assistito alla proiezione del documentario realizzato da Lo Strappo e alla discussione di tematiche relative al crimine, da parte di alcune figure tra le quali il dottor Aparo, Antonio Tango e Paolo Setti Carraro (componenti del gruppo).

Al Cimitero Monumentale di Milano ho partecipato all’itinerario ideato e condotto da Antonio Tango. Tramite le opere da lui scelte, ha raccontato la storia della sua vita e le sue emozioni.

Presso la Fabbrica del Vapore di Milano ho partecipato alla proiezione del video di Sandro Baldoni “Eravamo cattivi”, alla proiezione del video del Liceo Artistico di Brera “Il Teorema di Pitagora” e al concerto Trsg.band con le canzoni di Fabrizio De André combinate con le riflessioni dei componenti del Gruppo della Trasgressione.

Infine, ho assistito all’incontro con gli Scout e Francesco Cajani, nel quale i ragazzi sono rimasti molto colpiti dalle parole dei detenuti di Opera che, attraverso i loro scritti sul tema “L’infinito senza stelle”, hanno portato le proprie esperienze di perdizione e di rinascita.

Durante questi mesi, l’esperienza che ho intrapreso negli incontri esterni e interni al carcere è stata arricchente a livello professionale ma anche e soprattutto a livello umano.

L’opportunità di toccare con mano la realtà penitenziaria mi ha permesso di capire da vicino le dinamiche, purtroppo ancora disfunzionali, che impediscono la riabilitazione; allo stesso tempo, ho avuto modo di osservare la metodologia terapeutica che il professor Aparo utilizza e l’enorme potenziale che l’approccio del gruppo potrebbe avere nelle carceri italiane.

Ho conosciuto persone eccezionali che mi hanno accolta e fatta sentire in una grande famiglia. Per la prima volta ho sperimentato l’appartenenza ad un gruppo di persone pronte ad ascoltarsi ed aiutarsi a vicenda, con l’obiettivo comune di migliorare sé stessi e, nel loro piccolo, il mondo.

Non nascondo di aver avuto momenti di sconforto. La voglia di partecipare e di mettermi in gioco si è scontrata con la timidezza, la paura del giudizio ed il timore di non essere all’altezza.

Inoltre, spesso mi sono trovata ad ascoltare le storie dei detenuti senza il giusto distacco emotivo che la professione per cui sto studiando dovrebbe richiedere. A volte la rabbia, il dolore e la tristezza hanno preso il sopravvento al punto da restare turbata per giorni.

Altre volte, i racconti dei detenuti, che gioivano per situazioni ai miei occhi banali, mi hanno fatto apprezzare le piccole cose che davo per scontate e mi hanno fatta gioire a mia volta della loro rinascita, della loro contagiosa voglia di vivere e della sensazione di libertà totale, nonostante la condizione di reclusione.

Non pensavo che potesse realmente esistere un gruppo come questo e devo dire che da quando ne faccio parte il modo in cui vedo il mondo sta cambiando. Se anche in carcere c’è la speranza di poter riparare le cose e la voglia di vivere e costruire, allora ci deve essere anche fuori.

Voglio ringraziare il professor Aparo per gli insegnamenti e per la grande opportunità che mi ha concesso di poter affrontare questa difficile, ma straordinaria esperienza di vita e ringrazio anche tutti i componenti del Gruppo della Trasgressione per la generosità ed il coraggio con cui condividono le loro storie, esperienze e pensieri, che sono costanti stimoli a crescere e migliorare.

 

Giulia Sceusa

Relazioni di tirocinioNote sul metodo

Alice e la meraviglia

Sei nata il giorno di Santa Lucia. Nevicava sui tetti mentre tu venivi alla luce intatta, con il sacco ancora intero quando i dottori ti hanno tirata fuori da me. Nascere con la camicia si dice. Pare che porti fortuna, sicuramente suscita meraviglia. Quando sei comparsa in sala operatoria con gli occhi spalancati sotto quel velo sottile tutti erano entusiasti, come se stessero assistendo a qualcosa di magico. Eri tu, che in effetti sei una magia. Ci conosciamo da poco, qualche mese appena, eppure con te sto vivendo istanti di meraviglia pura: cresci, cambi, ti completi davanti ai miei occhi.

Provo un senso di gratitudine e di nostalgia fortissime in ogni momento: sento che il tempo dei giorni insieme è come dilatato e pure rapidissimo. Ogni giorno tu sei Alice e ogni giorno sei differente: già mi manchi per come eri, mentre ti osservo per come sei e non posso fare a meno di immaginare chi diventerai.

C’era una volta un poeta che guardando il limite di una siepe immaginava l’infinito. Mentre con la fantasia si spingeva al “di là da quella” siepe riusciva a concepire per un attimo l’eterno, ovvero i momenti già trascorsi eppure tutti presenti in quell’istante. La percezione era così nitida che al poeta sembrava di sentirne la musica, “il suon” di quell’eternità. Una meraviglia insomma.

Ogni volta che stringo te Alice e ti guardo io penso a quel poeta, alla sua siepe piccola rispetto all’orizzonte infinito che essa nascondeva e che nascondendo rivelava. Tu sei per me la siepe, quel pezzetto di realtà che, se mi concentro, mi permette di sperimentare l’immensa meraviglia, lo stupore che incanta, il ricordo che salva, il suono dell’istante presente, la spinta che fa nascere e riemergere dopo e nonostante il naufragio.

L’infinito senza stelleOfficina creativaGenitori e figli

Esercizi di emancipazione reciproca tra persone ristrette

Chi ha avuto occasione di partecipare a qualche riunione del gruppo della Trasgressione (Trasgressione.net), sa che ho deciso, un anno fa, di entrare in carcere ad Opera per essere più vicino ai detenuti, per dialogare non solo con coloro che avevano già raggiunto un livello di consapevolezza e ristoro della propria coscienza tale da godere di permessi e benefici, ma anche con coloro che per qualsivoglia motivo si trovano all’inizio del percorso ovvero nel mezzo del guado. Mi ero infatti detto che è più utile e stimolante mettere mani in pasta là dove c’è ancora materia da sbozzare, piuttosto che contribuire ad affinare contorni ormai definiti di un qualcosa che già presenta un solido aspetto.

Non a caso la scelta è stata quella di entrare in un mattino di luglio, quando la caldazza spingeva i più verso freschi lidi o valli di montagna, in quel periodo dell’anno in cui le vacanze si impongono a governare tempi, destinazioni e occupazioni del mondo esterno, mentre quello interno, segregato e abbandonato, può solo continuare a spuntare i giorni a venire e dotarsi di pazienza, maledicendo le ferie che impongono pause, smorzano gli entusiasmi, minano fragili abbozzi di certezze precarie, restringono ulteriormente gli spazi di libertà. Sentivo l’urgenza della continuità di una presenza vitale, che non merita e non vuole pause. E soprattutto non ne ha bisogno.

Mettere mano al magma è come lavorare con la sabbia sulla battigia, giocando con quello spirito infantile che mi è stato dapprima sottratto, e che più tardi mi sono negato, per apparire maturo e responsabile. Occorre farlo con mente sgombra dai pregiudizi che ti attendono al varco dietro ogni svolta, e con la voglia di costruire assieme attraverso il dialogo, a partire da riflessioni, sentimenti, umane emozioni tra loro anche molto diverse: è in quella prossimità che si matura assieme.

L’emancipazione dal trauma e dal dolore è un’esperienza a due facce, che vale per il colpevole e per la vittima, poiché entrambi ne hanno bisogno. Non c’è nulla da insegnare, occorre solo attivare il racconto e l’ascolto, e nutrirsi a vicenda di tutto il potenziale disponibile dei compagni di viaggio. Non c’è nulla da travasare, né lezione da esporre, né nozione da infondere, c’è solo da scoprire dentro ognuno di noi il meglio che vi alberga. Non mancano consigli, ma il percorso lo si fa scegliendo di volta in volta il cammino, spesso su erba fresca, alta, rigogliosa, che serra la vista, raramente seguendo un sentiero già abbozzato. Non ci sono stelle a guidare il cammino, né punti di riferimento prestabiliti. E non a caso il tavolo del gruppo somiglia molto a un letto ostetrico, ad una sala parto, dove la maieutica regna sovrana.

Ognuno, esterno o interno che sia, porta spontaneamente il suo fardello, il suo contributo, le sue riflessioni, le esperienze di un’esistenza più o meno sofferta, la malattia del suo vivere, le cure dolorose, le cicatrici, le lunghe convalescenze, le rinascite, le gioie: uno scambio, un’esperienza di dialogo e di riconoscimento reciproco. Riflessioni che vengono esposte, osservate, accolte, accarezzate, curate, e abbracciate. E’ una pratica di mutuo ascolto, sostegno, soccorso, accoglienza e conforto. Attenzione senza pregiudizi.

Paradossalmente è qui che il mio dolore si è svolto pienamente, le mie fragilità si sono esposte, le sofferenze comuni si sono confrontate, le scelte fortunate, quelle possibili e quelle azzardate e salvifiche sono state esposte, in una narrazione tra pari, sempre più consapevoli delle proprie fortune e miserie, delle loro cause, delle responsabilità di ognuno e il ruolo di ogni cosa nel destino personale. La mia vita profondamente, irrimediabilmente segnata dall’evento, come la vostra, quella di ciascuno di voi; le vostre vite parimenti distrutte, le vostre famiglie, i vostri figli e a cascata nipoti, amici, parenti. Dolori diversi, per natura e per fonte, benché simili per conseguenze e per intensità. Con la consapevolezza, lentamente acquisita, che le nostre sofferenze si sommano, non si elidono, che la vostra sofferenza non mi porta sollievo, nulla sottrae al mio dolore. Che è il cambiamento osservato e praticato a soddisfare l’umano bisogno di dare un senso ed un valore al dolore comune. Che si corre il rischio di tradire la propria carne, o di esserne accusati, e che queste accuse arriveranno comunque e dovranno trovarci forti, saldi e sereni nella nostra pratica onesta e consapevole.

L’emancipazione è reciproca, speculare: anche le vittime hanno bisogno di essere aiutate ad emanciparsi dal male subito, dalla logica della vendetta, a liberarsi dal risentimento e dal rancore, mentre l’autore di reato si fa responsabile non solo di qualcosa, o per qualcosa ad  appagare l’ordinaria logica retributiva, ma anche verso qualcuno e qualcosa, allargando progressivamente il suo orizzonte di responsabilità consapevole verso i figli, la famiglia, il nucleo sociale, la vittima ed i suoi familiari, la società nell’orizzonte più ampio. Emergendo dal carapace egoistico ed autoreferenziale che raffigura il vissuto di molti autori di reato, sordi da sempre all’ascolto del dolore inferto.

Ed è quella stessa società che vorrebbe attribuirci una funzione penale, chiedendoci di giudicare della congruità delle pene irrogate, di valutare l’autenticità del percorso di rieducazione dei colpevoli o la possibilità di accordare loro il perdono comunitario. Richieste sbagliate ed improprie: compiti che non competono ai familiari di vittime, poiché attengono alla funzione pubblica, e che si vorrebbe delegare per non assumersene la responsabilità, velando la delega di falsa sensibilità ed ipocrita rispetto, riproponendo nei fatti la visione arcaica e privata della giustizia, tutta interna al vissuto vittimario, viscerale, succube del cortocircuito rancore-odio-vendetta. All’opposto, se un qualcosa è giusto da un punto di vista civico, se è previsto dalle leggi, lo si faccia. Se non lo è, non lo si faccia, e non è che non lo si fa per non dispiacere ai familiari delle vittime. Della loro opinione o risentimento allo Stato non deve importare, deve esserne indipendente.

L’emancipazione della vittima, oltre a sottrarsi a queste ambiguità e tranelli, chiede di evadere dal ruolo vittimario, di liberarsi dello stigma da cui si è segnati, di rinunciare a vivere passivamente i benefici della condizione di vittima, tra cui l’innocenza oracolare o il credito perenne. Richiede di arrivare a cancellare il debito, che rimane comunque insoluto, purificando attivamente il ricordo della violenza subita, purgandolo del suo potenziale perennemente divisivo e distruttivo: liberare la memoria dal rancore, dalla zavorra di violenza vendicativa. Si tratta, spiccando il volo, di rinunciare spontaneamente al diritto al risarcimento ancestrale, che è l’unico modo per accostarsi al perdono in forma personale, per chi ci crede, lo pratica o lo cerca, oppure per partecipare alla più corale riparazione della lacerazione del tessuto sociale, pur conservando traccia e memoria degli eventi. Volgere il capo in avanti, al futuro, a nuova vita, poiché noi familiari di vittime siamo vivi, rimanendo pur sempre ancorati al ricordo del passato, ed additando percorsi felici di virtù da sperimentare consapevolmente, e gioiose, sorridenti imitazioni responsabili, anziché indossando plumbee corazze, zavorre soffocanti e paralizzanti. Consci di essere stati condannati ad un ergastolo emotivo da cui è difficile evadere, consapevoli che viviamo innocenti una vita molto diversa da quella che avevamo sognato, serenamente certi che nessuno si salva da solo.

Per i responsabili, emanciparsi significa dapprima lambire, poi lentamente apprendere ed infine condividere rimorso e pentimento, ri-scoprendo sentimenti ignoti, allontanati, rimossi, acquisendo coscienza e responsabilità sempre negate o rifiutate, prendendo cognizione del proprio e dell’altrui dolore, causato con scellerate pratiche di abuso, arroganti e narcisistiche. E lentamente, progressivamente, accettare nuove regole, riconoscere autorità finora ripudiate, contribuire ad emancipare il carcere dall’interno, con responsabilità e coscienza. Il cambiamento non è un compito, né uno scopo del gruppo, è semplicemente un’opportunità offerta; non si pensa di dover cambiare nessuno, ma esso è per certo il più fecondo risultato osservabile, consapevoli che non tutto dipende dal nostro lavorare assieme, e che probabilmente saranno altri a raccogliere il frutto del nostro lavoro di oggi.

In passato ho immaginato orgogliosamente di voler essere, con la mia presenza, macigno sulle vostre coscienze, ma ho anche sinceramente temuto di soffocarle. Meglio essere levatrice umile e gentile, felice osservatore della vita che nasce, del cuore che si risveglia, della coscienza che ritorna alla luce. Non si sa mai che cosa sarà, ma si sa che è vita, che può, fiorendo, dare il meglio di sé.

In molti mi avete detto che essere qui con voi è un insperato segno di vicinanza, di riconoscimento e di rispetto della vostra dignità. Quello che voglio dirvi con queste righe è che io stesso sono stato profondamente cambiato dal dialogo con voi, dal vostro lavoro ho appreso molto, mi avete arricchito più di quanto pensassi e mi aspettassi, pur senza confondere i ruoli e dimenticare: questa prossimità non vuole né guidare né assolvere, né plagiare né redimere. La salvazione è personale, la ricchezza del rapporto pure. Dal lavoro comune ognuno colga il meglio che può dare, traendolo da dentro di sé.

Giustizia Riparativa, dare senso al dolore delle vittime
Paolo Setti Carraro

Chi siamoNote sul metodo

Stelle di luce bugiarda

Buongiorno, sono Ignazio.

Quello che mi aiuta ad essere libero in carcere è un’azienda che si chiama Gruppo della Trasgressione, tra riflessioni, domande e confronti sul nostro passato criminale, utili per la nostra evoluzione e per migliorare la nostra vita famigliare e sociale. Non si finisce mai di imparare al tavolo e a ogni nuovo incontro con studenti e professori di diversi istituti.

Anche questi incontri con la scuola Clerici sono serviti tanto; essere alleati tra detenuti e studenti ha fatto nascere un grande progetto: i nostri racconti sulla nostra devianza a questi giovani studenti serviranno per un loro futuro migliore. Anche gli studenti, con le loro difficoltà e le loro storie, hanno fatto un lavoro. Creando canzoni e poesie, si sono messi alla prova; anche loro cercano una spinta. Mi sono commosso…

La domanda che ha fatto il Dottor Aparo sull’”Infinito senza stelle” richiama il mio passato. Anche io ho provato e trovato qui in carcere un infinito senza stelle, come se avessi avuto un cortocircuito, come se dentro di me si fosse spenta la luce; sono crollato e non riuscivo a rialzarmi. Giorno dopo giorno mi allontanavo sempre di più in quel buio. Non sentivo più la voce dei miei figli, non c’era più con me la mia famiglia, il mio lavoro, la libertà.

Ho perso tutte quelle stelle che la vita mi ha regalato, ma avevo anche costruito delle stelle fatte male da me. Solo oggi riesco a spiegarmi la mia colpa, che veniva proprio da quelle stelle costruite male; sono convinto che ho acceso nel passato una luce disonesta, fatta di desiderio spregiudicato di potere, denaro e successo.

Ecco perché bisogna riaccendere la coscienza e mettere quelle stelle nel posto giusto, fare in modo che non si spengano più, dare un senso alla vita propria, nel rispetto degli altri.

Devo molto anche al gruppo. Ho riacquistato il valore dell’onestà, il senso del proprio dovere, la responsabilità e la fiducia, anche da parte della Polizia Penitenziaria che mi ha offerto un valoroso lavoro. Questo è un vero successo per me ad oggi.

Ho ritrovato quella luce di speranza che i miei figli mi aspettano a casa per la Festa del Papà; anche questo ha ripulito quell’angolino di buio che viveva dentro di me.

È proprio il gruppo che ci invita a tenere accesa quella stella che abbiamo spento o perso nel passato o in carcere. Partecipando capisci il valore che offre questo gruppo, quella luce deve essere protetta proprio da noi stessi, deve essere sempre accesa per quei detenuti che ancora vivono nel buio, senza una speranza, perché più stelle frequentano, più forte illumineremo il pianeta di bene.

Ignazio Marrone

L’infinito senza stelle